Trent’anni di solitudine
Il 3 ottobre è caduto il trentennale della riunificazione tedesca o, per dirla correttamente, dell’annessione alla Repubblica Federale di Germania (BRD) dei territori della Repubblica Democratica Tedesca (DDR). A causa della pandemia l’evento non ha ricevuto la copertura che ci si sarebbe aspettati e che viene in genere riservata agli anniversari della caduta del Muro di Berlino.
Discutere oggi sui successi dell’annessione della DDR alla BRD è un esercizio di scarso compiacimento. I territori orientali sono strutturalmente sottosviluppati su molti indicatori economici e sociali e, peggio ancora, demografici. Soprattutto sulle città di provincia si è abbattuta una ristrutturazione “di mercato” della composizione della popolazione.[1]
I risultati elettorali confermano la permanenza di un confine interno: alle elezioni europee del 2019 i partiti originari della ex Germania Ovest (i tre storici di CDU/CSU, SPD, FDP, più i Verdi aggiuntisi negli anni Ottanta) hanno ottenuto risultati significativamente inferiori nell’Est, dove invece hanno la loro base tanto la Sinistra quanto l’estrema destra (Figura 1). Una divisione analoga è rinvenibile perfino nella città di Berlino (Figura 2).
L’esperienza di impoverimento, spopolamento, declino del tenore di vita, nonché dell’approfondirsi di divisioni sociali e geografiche interne, è comune a molti Paesi europei ex-socialisti. A questa amara condizione ha fatto riferimento ancora di recente Egon Krenz, l’ex delfino di Honecker che come leader della DDR aprì il confine occidentale il 9 novembre 1989. Intervistato da Die Welt – il pezzo è apparso in italiano nella sezione per abbonati de la Repubblica[2] – ha affermato: «Di solito, mi chiedono se sono arrivato nella Repubblica Federale. Al che, rispondo: farebbe questa domanda anche a un tedesco occidentale? I tedeschi orientali devono sempre arrivare. I tedeschi occidentali, invece, sono sempre già qui».
Le radici economiche del crollo
Alla domanda «Si sarebbe potuta salvare la DDR?» Krenz ha però glissato, osservando «Non sono un astrologo. La storia non è mai priva di alternative» e continuando a difendere il livello tecnologico dell’industria tedesco-orientale sul finire degli anni Ottanta.
Lenin aveva espresso la convinzione che conseguenza della fine dei rapporti di produzione capitalistici e al tempo stesso fattore fondamentale della vittoria globale del socialismo sarebbe stata la capacità di quest’ultimo di una produttività del lavoro più alta di quella capitalista. Questa caratteristica fu sottolineata da Lenin sia prima sia dopo la Rivoluzione d’Ottobre:
«La socializzazione del lavoro […] costituisce la base materiale principale dell’inevitabile avvento del socialismo. […] La socializzazione della produzione non può non portare al passaggio dei mezzi di produzione in proprietà della società […]. L’enorme aumento della produttività del lavoro, la riduzione della giornata lavorativa, la sostituzione del lavoro collettivo perfezionato alle vestigia, alle rovine della piccola produzione frazionata e primitiva: ecco le dirette conseguenze di questo passaggio».[3]
«La produttività del lavoro è in ultima analisi la cosa più importante, più decisiva, per la vittoria del nuovo ordine sociale. Il capitalismo ha creato una produttività del lavoro sconosciuta nel feudalesimo. Il capitalismo può essere battuto definitivamente e sarà battuto definitivamente proprio perché il socialismo crea una produttività del lavoro nuova, molto più alta».[4]
Nelle parole di Hans Modrow, ultimo capo di governo socialista della DDR, Lenin «aveva ragione, anche se non nel senso che aveva previsto».[5] O, nei termini pronunciati da Reagan alla Camera dei Comuni a giugno 1982, «ironicamente, Karl Marx aveva ragione. Siamo oggi testimoni di una grande crisi rivoluzionaria, una crisi in cui le esigenze di ordine economico sono in diretto conflitto con quelle di ordine politico. Ma la crisi sta avvenendo non nell’Occidente libero e non marxista, bensì nella patria del marxismo-leninismo, l’Unione Sovietica».[6]
L’elemento fondamentale della caduta dei sistemi socialisti in Europa orientale appare infatti essere stato il divario economico con l’Occidente, che influì tanto sulla capacità di quei sistemi di reggere la competizione militare esterna quanto sulla loro legittimazione interna agli occhi della popolazione. Il sistema economico interno faceva sì che i prezzi dei beni di produzione statale fossero, per ragioni politiche, manifestamente al di sotto della soglia di mercato: in altri termini, lo Stato andava in perdita nel fornire beni di consumo alla popolazione. La situazione era aggravata dal fatto che per una quota di beni era necessario ricorrere all’importazione dall’Occidente, ma anche questi prodotti dovevano essere venduti a prezzi sottomercato, aggiungendo quindi una ulteriore perdita a quella rappresentata dalla cessione di valuta estera. Poiché per ragioni politiche non era ritenuto fattibile intervenire né sul fronte dei prezzi né su quello dei salari, e poiché l’elefantiaco complesso amministrativo si era dimostrato refrattario a qualsiasi possibilità di riforma[7], l’unico modo con cui il mantenimento del sistema – «in gelatina» secondo un’espressione di Edwin Bacon[8] – poté essere finanziato fu tramite l’indebitamento estero.
Ciò consentì, per tutti gli anni Settanta, di tamponare le conseguenze negative e di evitare che i sommovimenti giovanili nel 1968 degenerassero, dopo Praga, in una sfida politica aperta al sistema. Deve essere tenuto presente, inoltre, che l’attrattiva del modello occidentale sulle generazioni nate nel dopoguerra era tanto più forte quanto più nella memoria giovanile il sistema socialista non aveva come termine di confronto la penosa situazione precedente al 1945 o al 1939.
Al netto di difetti strutturali o di opportunismi personali, questa diversità costituiva un solco profondo tra la psicologia dei nati dopo il ’45 e quella di molti dirigenti, come ad esempio Erich Honecker nella sarcastica ricostruzione di Modrow:
«Durante l’infanzia Honecker aveva dovuto condividere il letto con i suoi fratelli, aveva conosciuto la disoccupazione e la povertà, aveva vissuto l’inflazione, la fame e la miseria. La DDR era riuscita – ovviamente grazie alla sua guida straordinaria – a far sì che nessuno soffrisse più la fame, che i prezzi fossero stabili, che ognuno avesse un tetto sopra la testa e un lavoro sicuro, che ogni bambino avesse un letto tutto per sé e possibilmente anche una camera tutta sua in un condominio nuovo, luminoso e ben riscaldato. Ora, è chiaro che tutti dovrebbero cortesemente fare il piacere di essere felici, contenti e grati, invece di mettere a rischio tutto questo benessere attraverso chiacchiere inutili».[9]
L’indebitamento non avrebbe però potuto alimentarsi all’infinito e quando, all’alba degli anni Ottanta, i nodi vennero al pettine i massimi dirigenti sembrarono altamente consapevoli delle possibili conseguenze politiche: sul finire del 1981 in Polonia si ricorse al colpo di Stato interno per mano del Ministro della Difesa Jaruzelski, mentre in quelle stesse settimane Honecker così rispondeva a Rusakov che gli comunicava il taglio delle forniture sovietiche di petrolio: «La DDR è forte solo se il suo partito, la SED, è ancorato al popolo. Non possiamo ingranare la retromarcia».[10]
È chiaro che la situazione era ormai avvitata in un circolo vizioso di risoluzione forse difficile e certamente dolorosa. La consapevolezza dell’insostenibilità di quel tipo di sistema economico, fondato su un calmiere artefatto dei prezzi, era stata ben presente al governo sovietico già vent’anni prima, nel periodo di apogeo interno della leadership di Chruščëv. Nonostante i proclami roboanti di costruzione del comunismo adottati al XXII Congresso del PCUS (1961), il 22 maggio 1962 il Presidium del Partito approvò forti aumenti dei prezzi al consumo di carne (+35%), burro e latte (+25%), identificati come i prodotti in cui vi era maggiore disavanzo a carico dello Stato. La situazione negli impianti produttivi del cuore politico-industriale della Russia (Leningrado, Mosca, Donbass) degenerò in pochi giorni e il 2 giugno ventitré scioperanti furono uccisi dalle forze di sicurezza a Novočerkassk.[11] L’evento segnò la fine della percorribilità politica di qualsiasi ipotesi di riforma economica sostanziale.
Il disfacimento del sistema economico sovietico (1988-1991)
In un contesto simile l’unica politica fattibile, per quanto lungi dal poter costituire un percorso di successo, diventava quella di «stringere viti e tirare fili»[12], che fu condensata nel sostantivo ottimistico di uskorenie (“accelerazione”). La distanza psicologica dalle condizioni di realtà restava però alta: quando Andropov decise un giro di vite contro i dipendenti che lasciavano il lavoro per fare le file ai negozi il suo stretto collaboratore Gorbačëv gli fece presente che l’assenteismo era solo il sintomo, mentre il vero problema era la scarsità di beni di consumo. La risposta del Segretario generale fu tagliente: «con l’età avrebbe capito».[13]
Pochi anni dopo proprio Gorbačëv, assunta la guida del Partito, dopo aver inizialmente continuato senza successo sulla via della uskorenie giunse alla risoluzione del nodo gordiano della gestione economica. Dopo la XIX Conferenza del PCUS, nell’estate 1988, il Politbjuro approvò la riforma del Comitato centrale, estesa anche ai livelli locali, che ne sopprimeva i dipartimenti incaricati di coordinare i settori dell’economia statale. La ragione addotta da Gorbačëv fu che i compiti amministrativi assorbivano così tanto il PCUS da avergli fatto perdere la natura di partito politico.[14]
Quest’ultima affermazione era in parte vera, ma collideva contro l’assunto tradizionale che, eliminato di fatto il conflitto di classe all’interno di uno Stato socialista, il Partito rappresentasse non più una parte della società, bensì tutta la società, derivandone quindi i relativi compiti di guida statale. Gorbačëv credeva veramente alla possibilità di una democrazia pluripartitica in uno Stato la cui esistenza costituiva da settant’anni una sfida esiziale per le potenze capitaliste, oppure se ne serviva solo come arma retorica nella lotta politica nazionale? La testimonianza di Modrow, che pure riduce questa riforma ad una abolizione dei «privilegi della nomenklatura» fa propendere, rilevando che «non c’era nessun progetto preciso»[15], per la prima ipotesi: «Se c’era [nella perestrojka] qualche riflessione teorica, questa era probabilmente fondata su un ideale di umanità completamente priva di egoismo, che trovava la propria gratificazione esclusivamente nella vita della comunità e nell’altruismo. Ma era qualcosa di inesistente, anche in Unione Sovietica».[16]
Una rappresentazione illusoria che pareva non riguardare il solo Segretario generale, e forse predatarlo: «Mi ha sempre stupito l’ingenuità con cui i membri della vecchia dirigenze del PCUS guardavano al mondo, non si poteva evitare di avere l’impressione che non avessero mai avuto tra le mani un libro di Marx o di Lenin, per non parlare della letteratura economica occidentale».[17]
Un percorso identico venne seguito anche sulla politica estera: «Con il suo rifiuto del carattere di classe delle relazioni internazionali, Gorbačëv ruppe per così dire con una delle colonne portanti dell’edificio socialista. E cosa mise al suo posto? Detto cinicamente: solo amore e gioia per tutti».[18]
La conseguenza reale dell’abolizione sic et simpliciter del controllo del partito sull’economia fu uno shock improvviso su un sistema abituato da settant’anni a uno strettissimo dirigismo politico e non portò né amore né gioia, tanto meno a tutti. Lungi dal liberare le energie produttive e dal collegarsi virtuosamente all’elezione dei dirigenti di fabbrica da parte dei lavoratori, il venir meno della sorveglianza politica del Partito provocò l’esplosione centrifuga dei conflitti tra i vari settori e degli opportunismi dei dirigenti, nonché un’ondata di licenziamenti giustificati con il crollo della produttività del lavoro.[19]
Nell’aprile 1991 alcuni prezzi furono aumentati, ma stavolta la misura si accompagnò alla legalizzazione del commercio privato e dell’assunzione privata di salariati. I contorni sommersi e talvolta apertamente criminali di queste nuove relazioni economiche non tardarono a presentarsi, almeno nella denuncia dell’ala “conservatrice” del PCUS, come mafiosi.[20]
La franante situazione economica dell’Unione Sovietica pare aver giocato un ruolo primario nelle modalità dell’annessione della DDR alla Germania Federale, avvenuta in modo fino a pochi mesi prima imprevedibile tanto nel metodo quanto nelle tempistiche. Il 10 febbraio 1990, in un incontro con Kohl, Gorbačëv accettò la logica annessionistica e anche la permanenza della nuova Germania nel Patto Atlantico – accontentandosi di un impegno, poi non rispettato, a non dislocare truppe NATO nella ex Germania orientale – in cambio dell’impegno del Cancelliere a conservare i rapporti economici in essere fra DDR e URSS e a favorire l’accesso di quest’ultima al mercato comune europeo.[21] Del resto già ad agosto 1989 un prestito di 500 milioni di marchi e l’assicurazione del sostegno all’ingresso nella CEE fecero parte del summit segreto RFT-Ungheria due settimane prima che quest’ultima aprisse la cortina di ferro.[22]
Il destino dell’Europa orientale
La situazione verso cui si avviava dunque l’Europa orientale fu lucidamente esposta nel corso dell’ultima conferenza dei partiti socialisti, tenutasi a Mosca il 14-15 novembre 1990, da Józef Oleksy, esponente socialdemocratico polacco e futuro Primo Ministro. Secondo la testimonianza di Modrow, egli
«criticò il fatto che la riunificazione tedesca fosse avvenuta in maniera indipendente rispetto al processo di integrazione europea, cosa che aveva approfondito la distanza tra Europa orientale e occidentale. L’espansione verso Est della NATO, continuò, avrebbe portato a un cambiamento complessivo nell’assetto della sicurezza nel continente, accompagnato in Europa orientale da una vera e propria corsa per unirsi alla NATO nella speranza di ricevere gli aiuti occidentali. […] Secondo Oleksy, era necessaria una nuova cooperazione regionale tra i paesi dell’Europa orientale. Condivideva inoltre il mio punto di vista secondo cui la logica dell’unità tedesca avrebbe portato inizialmente a un dominio della Germania Europa, prima in campo economico, poi politico e infine anche militare».[23]
Nell’incontro con la delegazione sovietica furono inoltre prospettati tre possibili scenari per il futuro dei Paesi est-europei:
«Il primo vedeva un potere autoritario, una “mano forte”, prendere il timone. […] Il secondo, era un sistema parlamentare borghese pluripartitico sul modello latino-americano, in cui si alternano cioè democrazia e dittatura. Il terzo – più desiderabile ma difficilmente immaginabile, in quanto richiedeva condizioni estremamente favorevoli – era uno sviluppo democratico basato sul consenso di tutta la nazione».[24]
La previsione riguardante il futuro dell’Europa si è rivelata assai azzeccata. Cechia, Ungheria e Polonia aderirono alla NATO nel 1999, seguite nel 2004 dagli altri Paesi del Patto di Varsavia, tra cui le tre repubbliche baltiche ex sovietiche. L’alterazione dell’equilibrio di potenza in Europa è lampante nella storia recente e nella cronaca che ci provengono non solo dai Paesi ormai NATO, ma anche da Ucraina e Bielorussia.
La Germania ha raggiunto il dominio economico in Europa già prima della crisi del 2008, grazie a una combinazione tra la calmierazione del costo del lavoro interno con le riforme Hartz e l’apertura del mercato orientale con l’espansione a Est della UE nel 2004. Il dominio politico è stato consolidato nel corso della crisi economica degli ultimi dodici anni. Riguardo il dominio militare, esso trova ancora un potente ostacolo proprio nella NATO, ma è evidente che la formazione di un esercito europeo senza una riforma democratica delle istituzioni UE punterà nella direzione di una guida tedesca.
Alla corsa alla NATO si sono del resto aggregati gli stessi gruppi dirigenti post-socialisti dell’Europa orientale (la Polonia di Miller e Kwaśniewski fu tra i più fedeli esecutori della politica estera di George W. Bush) e questo ha condotto alla realizzazione anche di un’altra profezia: la formazione di un coordinamento est-europeo nella forma del Gruppo di Visegrád. La coloratura politica di questo Gruppo è discesa però dagli scenari, fra i tre prospettati a novembre 1990, che si sono realizzati nei fatti.
Il terzo scenario, quello dello sviluppo democratico, non ha preso campo in alcuno degli Stati del Patto di Varsavia. Anche quelli con procedure formalmente democratiche e pluraliste non vedono tuttavia un consenso popolare acquisito allo spirito democratico: anzitutto perché fette consistenti di popolazione sono state costrette a emigrare a causa della catastrofe reddituale abbattutasi nella prima metà degli anni Novanta; e poi perché la combinazione tra le promesse della penetrazione capitalistica e l’amarezza della realtà ha prodotto, sullo sfondo di un anticomunismo aggressivo, il riformarsi di fenomeni autoritari e neofascisti che hanno reso l’Europa orientale il focolaio perfetto del secondo scenario, quello della “democrazia” latino-americana, che in alcuni casi – l’Ungheria, nonché la stessa Russia – è scivolato verso il primo scenario, quello apertamente dittatoriale.
[Continua nei prossimi giorni]
https://www.ilpost.it/2019/06/16/germania-est-spopolamento/ ↑
https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/10/07/news/krenz_leading_eurupean_newspaper_alliance_die_welt-269612262 ↑
V. I. Lenin, Karl Marx (Breve saggio biografico ed esposizione del marxismo), tr. it. in Id., Opere complete, vol. XXI, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 62-63. Il saggio fu scritto nel luglio-novembre 1914 e pubblicato per la prima volta nel 1915. ↑
Id., La grande iniziativa. L’eroismo degli operai nelle retrovie. A proposito dei «sabati comunisti», tr. it. in Id. Op. cit., vol. XXIX, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 390. Opuscolo pubblicato nel luglio 1919. ↑
H. Modrow, La perestrojka e la fine della DDR. Come sono andate veramente le cose (orig. Die Perestroika. Wie ich sie sehe, edition ost, Berlin, 1998), tr. it. Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019, p. 57. ↑
https://www.reaganlibrary.gov/archives/speech/address-members-british-parliament ↑
Emblematica in questo senso una considerazione resa da Chruščëv all’inizio del 1963 in una lettera a Fidel Castro: «La Russia è come una vasca piena di impasto per il pane: ci immergi le mani, tocchi il fondo e credi di essere il padrone della situazione. Quando le tiri fuori, dapprima restano due buchi, poi però, di fronte ai tuoi stessi, occhi, l’impasto li riempie e tutto torna una massa gonfia e spugnosa» (in A. Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, il Mulino, Bologna 2008, p. 280). ↑
Ivi, p. 480. ↑
H. Modrow, Op. cit., p. 81. ↑
Ivi, p. 59. ↑
A. Graziosi, op. cit., p. 264. ↑
Ivi, p. 485. ↑
Ivi, pp. 492-493. ↑
Ivi, p. 569. ↑
Modrow, op. cit., p. 71 ↑
Ivi, p. 176. ↑
Ivi, p. 144. ↑
Ivi, p. 64. ↑
A. Graziosi, op. cit., pp. 569-570. ↑
Ivi, p. 637. ↑
H. Modrow, op. cit., p. 109. ↑
H. Tewes, Germany, Civilian Power and the New Europe. Enlarging NATO and the European Union, Palgrave, New York 2002, p. 54. ↑
H. Modrow, op. cit., p. 141. ↑
Ivi, p. 144. ↑
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.