Pubblicato per la prima volta il 21 settembre 2017
Gli stupri di Rimini, di Firenze e Roma, l’uccisione di una adolescente a Lecce e le più recenti violenze di Catania e Bergamo. Sono tutti fatti di cronaca nera che si sono susseguiti nell’ultimo periodo, e che hanno riempito le prime pagine dei giornali, creando scalpore e fomentando dibattiti che scaturiscono quasi sempre in linciaggi mediatici. A seconda di chi ha commesso o subito il crimine, la violenza sulle donne è stata giudicata come più o meno grave, e i giornalisti si sono sentiti più o meno liberi di rispettare le vittime e i colpevoli.
Palese è la visione di “giornali” come Libero, che hanno pubblicato i dettagli più infimi di uno degli stupri di Rimini, solo per mostrare l’inumanità degli stupratori tutti “stranieri”. Quando invece a stuprare sono state le forze dell’ordine allora i toni sono divenuti più possibilisti, e in numerosi articoli viene dato ampio spazio alle versioni dei due carabinieri.
Questi crimini hanno anche fornito l’occasione, come troppo spesso succede, per colpevolizzare le vittime stesse: il senatore D’Anna consiglia alle donne di essere più caute, di non esporsi e vestirsi in maniera provocante perché l’uomo ha un istinto ancestrale e primordiale che non può reprimere, istinto che emerge soprattutto se si tratta migranti; Salvini&co hanno urlato all’ennesima emergenza, richiamando subito l’attenzione sul problema delle sicurezza e sulla necessità della castrazione chimica, per poi abbassare i toni nel caso dello stupro perpetrato dalle forze dell’ordine; il sindaco di Firenze invece ha commentato gli stupri avvenuti nella sua città facendo notare come ci sia un problema di decoro tra gli studenti americani, suggerendo l’idea che se ti ubriachi a Firenze un po’ te la sei cercata.
Per non parlare dell’hate speech dei commentatori dei social media, a cui i giornali danno sempre ampio spazio quasi fossero delle fonti affidabili per misurare il malcontento popolare: da queste violenze sono infatti scaturiti degli intensi dibattiti da bar, soprattutto di stampo giustizialista. Onnipresenti sono stati i commenti di critica nei confronti delle donne (anche da parte di donne stesse), che sostenevano che le vittime avrebbero provocato i violentatori o si sarebbero in qualche modo esposte alla violenza. Ma c’è anche chi, partendo dallo stupro, è riuscito a creare connessioni tra gli argomenti più disparati: gli stupri di Rimini e l’ultimo di Bergamo, in quanto commessi da stranieri, sono divenuti colpa dell’immancabile Boldrini, ormai divenuta la causa di tutti i mali; lo stupro di Catania, fatto da una persona che aveva subito in passato un TSO, è diventato la scusa per richiedere la riapertura dei manicomi; il femminicidio di Lecce e quello di Firenze hanno portato a lunghe discussioni sugli stili di vita sregolati dei giovani e degli studenti stranieri.
Tutti hanno voluto dire la loro, ma dai commentatori dei social network ai giornalisti fino ad arrivare alla politica c’è stato solo un gran parlare di violenza sulle donne fine a se stesso, senza però riuscire a parlare realmente di donne.
Questo avviene perché in realtà, in questi casi, delle donne non importa niente a nessuno: il loro corpo è solo un pretesto per giustificazioni ideologiche, ogni nuova storia è solo l’ennesima vittima da strumentalizzare, l’ennesima persona da sovradeterminare, l’ennesimo stupro da usare per parlare d’altro o per denigrare l’altro. È emblematico notare come le stesse persone che si scandalizzavano e chiedevano giustizia per lo stupro di Rimini – in genere solo quello della donna polacca, mentre quello della transessuale veniva sminuito – abbiano successivamente attaccato verbalmente le due ragazze americane violentate a Firenze, accusate di gettare fango sul nostro paese e sulle forze dell’ordine.
Narrazioni pericolose, frutto di rapporti di potere più che di un’attenta analisi della realtà, che allontanano le persone e la società civile da una reale comprensione, e quindi possibile soluzione della violenza di genere. Utilizzare lo stupro come strumento di “demonizzazione dell’altro” non aiuta infatti a capire cos’è uno stupro, non aiuta le vittime di violenza sessuale, e non aiuta a contrastare la violenza di genere.
Eppure lo stupro non è un semplice atto fine a se stesso, ma è portatore di un messaggio implicito, “sporca” e umilia la vittima, ed ha un significato soprattutto nelle comunità dove il controllo della sessualità della donne è più radicato. Ciò rende lo stupro non una semplice violenza, ma una negazione della persona, della sua volontà. La non-consensualità nega all’altra persona di scegliere per se stessa.
Nei casi sopracitati, anche quando si parla esplicitamente di donne, lo stupro viene utilizzato per regolamentare la vita, l’etica e il corpo femminile. Da ciò scaturisce l’ennesimo pericoloso paradosso: si impongono alle donne determinati comportamenti e stili di vita per evitare che altri usino loro violenza.
Nel tentativo di contrastare un potenziale nemico che attenta alla libertà delle donne, si toglie loro autonomia.
Se la maggior parte degli stupri ha come vittima una donna non è quindi un problema di decoro o sicurezza, ma è un problema culturale: femminicidi, stupri, ma anche molestie dimostrano come la donna non sia ancora considerata pienamente un soggetto, capace di avere una volontà propria.
Di conseguenza, la soluzione non può essere quella di negare alle “categorie a rischio” (ossia le donne) spazi, divertimenti, modi di vestire, ma dev’essere costruita smascherando tutti quei meccanismi della cultura dello stupro, implementando la cultura di genere e sostenendo i centri anti-violenza.
È inutile continuare a proporre soluzioni che, pur avendo come primo interesse l’incolumità delle donne, perpetuano l’idea che la donna sia fragile e necessiti di protezione costante, come l’esempio dei taxi rosa; piuttosto, è necessario superare la narrazione egemone che vede la donna come il soggetto subalterno, debole e necessariamente bisognoso di protezione.
Immagine: Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni (dettaglio), 1610 ca.
Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.