Nella scorsa settimana la cronaca è tornata a occuparsi delle morti sul lavoro, con alcuni casi che hanno catturato l’attenzione per la giovane età delle vittime e per incidenti che si pensavano relegati all’industria ottocentesca. Nel primo trimestre 2021 l’Inail ha registrato un incremento del 12% di infortuni mortali. Effetto probabilmente del lockdown scattato a marzo 2020, ma a maggior ragione conferma di una strutturale pericolosità e insicurezza delle condizioni di lavoro in Italia.
Leonardo Croatto
La catastrofe causata dal lavoro ha dimensioni che si ha difficoltà ad avvistare, anche perché le statistiche su morti, infortuni e malattie causate dal lavoro circolano decisamente molto poco. Il tema, curiosamente, sull’informazione mainstream – di solito molto interessata a ogni tragedia da sfruttare – circola pochissimo, nonostante nel 2020 gli infortuni denunciati siano stati oltre mezzo milione, l’anno prima oltre 600.000 e nel 2020 siano morti 1270 lavoratori, un quarto dei quali di Covid-19.
L’INAIL pubblica ogni tre mesi il proprio bollettino di guerra. Nei primi tre mesi del 2021 sono già state presentate circa 130.000 denunce di infortunio, il contatore delle malattie professionali denunciate ha superato il valore di 13.000 e sono già 185 i morti sul lavoro, ma l’attenzione della stampa si è scatenata solo quando l’immagine di uno di questi morti è risultata mediaticamente sfruttabile: più che a un buon lavoro di informazione su un importante tema sociale in questi giorni abbiamo assistito ad un disgustoso exploitation movie.
I numeri a livello mondiale sono ancora più impressionanti. Secondo l’ILO ogni anno i morti di lavoro sono quasi tre milioni, mentre oltre 370 milioni sono le persone che subiscono ferite o sviluppano malattie non letali a causa del proprio lavoro. La maggior parte dei morti è causata da malattie dovute a condizioni di lavoro disumane.
L’ILO valuta una perdita di circa il 4% del PIL mondiale in conseguenza dalla perdita di giornate lavorative a causa degli infortuni e delle malattie professionali, ma, nonoste le incalcolabili perdite umane e le più facilmente determinabili perdite economiche, illustrissimi esponenti di nostri governi passati hanno negli anni più volte ribadito – senza alcuna vergogna – che le misure di sicurezza hanno un costo insopportabile per gli imprenditori.
Della destra va almeno apprezzata l’onestà: la remunerazione dei capitali non può avvenire che attraverso lo sfruttamento e la sofferenza di molti per il benessere di pochissimi è tratto che caratterizza il capitalismo. Questa ontologia, di cui la destra è assolutamente consapevole, stenta a trovare ospitalità nella “sinistra” contemporanea, da tutto il dopoguerra persa alla ricerca di un unicorno che ha la favolosa immagine del “capitalismo dal volto umano”. E mentre i partiti laburisti, socialisti e socialdemocratici sono alla ricerca di una “terza via” che coniughi il superamento non traumatico del capitalismo senza mettere in discussione il benessere dei borghesi, i lavoratori continuano a morire.
Piergiorgio Desantis
Continua lo stillicidio di morti sul lavoro. Sembrerebbero morti inspiegabili, senza responsabilità, come cadute dall’alto. Tuttavia questi incidenti sono una componente purtroppo strutturale dello sviluppo e dello stesso Stato italiano. Dopo gli anni dello sviluppo economico in cui, comunque, si lasciava spazio a quest’ultimo attraverso strumenti propri di un’economia mista, si passa, a partire degli anni ’90 a una rarefazione dello Stato che si manifesta anche nell’assenza di controlli imposta dalla decisione del blocco delle assunzioni nelle amministrazioni pubbliche. Non sembra che, per il momento, ci possa essere margine per un’inversione di tendenza in Italia, anche alla luce del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza presentato dal governo italiano. Si continua a chiedere la competitività del lavoro e l’ampliamento di quello (nonostante la pandemia) a basso valore aggiunto (turismo e servizi solo per fare qualche esempio). Solo un’indagine e un ripensamento della crescita e del modello economico può cambiare questo dato purtroppo strutturale italiano.
Francesca Giambi
Si muore di lavoro e sul lavoro oggi come cinquant’anni fa.Nel 1972 entra in vigore lo statuto dei lavoratori, che dovrebbe mettere al centro del problema la dignità del lavoro. Ancora oggi purtroppo di dignità ce n’è poca, di lavoro anche meno, ma di sfruttamento tanto se non tutto. Le vicende degli ultimi giorni sono purtroppo solo la dimostrazione che la vita rispetto alla produttività ed al denaro vale molto meno, sia che si tratti di una giovane donna italiana, sia che si tratti di un giovane immigrato. La cosa che sconvolge è che non si tratta solo di un ambito o di un settore, perché le morti bianche le troviamo in tutti i campi, dalle maestranze che cadono nel montare il palco di un concerto, agli operai della tav, agli addetti alla pulizia delle cisterne morti asfissiati…
Come ha denunciato Elio Petri nel suo film “La classe operaia va in paradiso” (1971) i padroni vogliono soltanto guadagnare a discapito della vita o della salute dei propri operai e l’operaio Massa è costretto a lavorare a cottimo ma, dopo aver perso un dito di una mano, capisce la sua alienazione e quanto tutto questo sia profondamente disumano, diventando quasi un simbolo delle lotte operaie.
A peggiorare le cose rispetto agli anni passati in questo momento storico i sindacati sembrano aver perso la loro voce, non per colpa loro, ma per un’opera di demolizione e demonizzazione del loro operato che è progressivamente aumentata dagli anni ’90 fino alla scandalosa abolizione dell’articolo 18 e l’approvazione del job act…
Dmitrij Palagi
“Le norme ci sono, però mancano i controlli”.
“Le vittime hanno una parte di responsabilità, se sono le prime a non rispettare le regole”.
“Si tratta di un problema culturale”.
Queste sono tre delle frasi più diffuse quando si affronta il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro. Dopo oltre un anno di pandemia esiste il rischio concreto che una generica ricerca della crescita il più rapida possibile registri un aumento delle morti.In tante realtà appare persino impossibile riuscire ad adeguarsi a quanto sarebbe previsto dal quadro normativo e sicuramente sarebbero utili delle campagne con cui contrastare i luoghi comuni che liquidano i dispositivi e le procedure di protezioni come orpelli inutili.
Però una discussione che scinda la sicurezza dei luoghi di lavoro dalle logiche con cui è organizzata la produzione rischia di essere sterile. La riduzione dei tempi e del ritmo di lavoro riguardano la tutela della salute di chi opera.A titolo esemplificativo immaginate una mansione svolta davanti a uno schermo. In quanti casi si rispettano le disposizioni legate alla postazione di lavoro (dall’altezza dello schermo alla tipologia della sedia su cui ci si siede, passando per la cadenza con cui si dovrebbe fare una pausa per tutelare la propria vista)? In una società dove bisogna correre sempre di più, per garantire all’economia di girare e all’umanità di consumare, ogni rischio si fa accettabile, perché è il paradigma di fondo che rende legittimo ipotizzare che per un salario sia possibile perdere la vita.
Jacopo Vannucchi
La sera del 30 ottobre 2007, in una periferia di Roma, la moglie di un ammiraglio di Marina fu brutalmente aggredita da un muratore rumeno senza fissa dimora. Sarebbe morta in ospedale due giorni dopo. L’ondata di furore, cavalcata dalla destra (Fini comiziò sul luogo del delitto), spinse il governo Prodi a trasformare in decreto-legge le norme sulla sicurezza urbana varate dal CdM proprio il 30 ottobre.Il 6 dicembre, allo stabilimento ThyssenKrupp di Torino, una nube di fuoco investì sette operai al lavoro da dodici ore. Uno di loro morì il giorno stesso, tre il giorno seguente, gli altri tre dopo settimane di agonia. Non si segnalò particolare furore popolare in materia.
Perché? È più facile prendersela con un muratore che con un padrone dell’acciaio, ma questo razzismo classista spiega solo una parte della differenza. L’altra parte è evidentemente che la popolazione non ritiene tollerabile essere aggrediti per strada ma ritiene un rischio accettabile morire sul lavoro. Il fatto che uno stupratore aggredisca in persona, mentre i responsabili materiali degli incidenti sul lavoro non compaiano direttamente sulla scena, è un ulteriore elemento che tiene questi ultimi al riparo dalla rabbiosa cecità popolare.
L’introiezione del lavoro come rischio – introiezione maggiore là dove maggiore è il rischio, cioè nei lavori manuali pesanti – si abbina a un’altra forma di autoinganno, quella secondo cui il proprietario del lavoro non è il lavoratore, bensì il capitalista. A parere di molti lavoratori, non sono loro a vendere la forza-lavoro, bensì il padrone a vendere loro un’occupazione per vivere.
Affrontando infine il piano della prevenzione, è condivisibile l’analisi della segretaria nazionale Filctem-Cgil: nelle piccole aziende risulta molto difficile sia garantire la sostituzione di macchinari obsoleti sia implementare i dovuti protocolli di sicurezza. Nel tessuto italiano, particolarmente denso di piccole imprese a conduzione familiare, il problema è chiaramente molto diffuso e richiederebbe il varo di una specifica campagna in materia.
Alessandro Zabban
Il sistema politico- istituzionale ha sempre mostrato pochissimo interesse per il dramma dei morti sul lavoro. Ad eccezione di qualche campagna della sinistra cosiddetta radicale, nessuna forza politica si è più occupata di denunciare le migliaia di morti che ogni anno siamo costretti a contare, numeri indegni di un paese civile. La pandemia e la crisi economica non aiutano. Imprenditori e molte forze politiche sono riusciti a imporre nel dibattito pubblico la loro visione che riduce il complesso rapporto fra diritto al lavoro e diritto alla salute a una dicotomia fra libertà e dittatura sanitaria. Dietro questa finta differenza si nasconde in realtà il classico conflitto fra capitale e lavoro, in cui il primo vuole il minor numero di limitazioni possibili alla sua “libertà” di fare profitto, scaricando sui lavoratori i rischi connessi alla propria mansione. Nulla di nuovo dunque, la solita ideologia produttivistica ma celata dietro un finto vittimismo della classe imprenditrice che si pone come unica ancora salvifica rispetto alla crisi economica e che però paternalisticamente ci avverte che tirarci fuori dalla (loro) crisi avrà un prezzo. Che pagano i lavoratori.
Immagine (dettaglio) da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.