La parola pandemia, dal greco pan (tutto) e dèmos (popolo), fa riferimento a una malattia contagiosa con tendenza a diffondersi ovunque e si distingue dalla più comune epidemia (dal greco epi-dèmos, cioè che interessa una popolazione) per l’importante capacità di espandersi e invadere pervasivamente interi paesi e continenti. Questo termine sembra la parola più appropriata a essere accostata al Coronavirus o Covid-19 per la sua estrema facilità di contagio che ha permesso al virus di diffondersi in pochi mesi in buona parte del globo, scavalcando i confini fisici e politici delle nazioni.
Il covid-19 non è di certo la prima epidemia che colpisce l’umanità e con ogni probabilità non sarà l’ultima e, sebbene molte delle misure che i governi del passato hanno preso per contenere i contagi di altre epidemie assomiglino a quelle che oggi sono state prese per il Nuovo Coronavirus, i modi con cui diverse nazioni, Italia in primis, stanno affrontando l’epidemia rappresentano un unicum nella storia almeno degli ultimi cent’anni per la prontezza di intervento e la drasticità delle misure di contenimento stabilite. Purtuttavia dobbiamo considerare che grandi epidemie e pandemie hanno caratterizzato la storia dell’umanità fin dagli albori, favorendo la decadenza di civiltà e imponendo trasformazioni nel mondo del lavoro e nell’economia. “Gli avvenimenti più tragici riguardano la peste nera che ha devastato l’Europa dal 1347 al 1352, sterminando 1/4 e forse più della popolazione, e l’epidemia di influenza spagnola che dal 1918 al 1920 contagiò 200 milioni di persone in tutto il mondo, portandone alla morte, secondo stime necessariamente approssimative, più di 10 milioni; secondo alcuni ricercatori le vittime furono 50 milioni o un numero ancora maggiore.”[1]
Molti storici e scrittori ci hanno descritto i tormenti fisici e psicologici di numerose epidemie nel corso dei secoli, dagli autori dell’antichità classica come Omero, Tucidide, Lucrezio ad autori tardomedioevali come Dante e Boccaccio fino a una delle più celebri descrizioni letterarie della peste fatta ne I promessi sposi da Alessandro Manzoni. È anche grazie a loro che oggi siamo a conoscenza delle molte disposizioni che, in epoche diverse, sono state prese per affrontare questi mali. È curioso a questo proposito scoprire che fu proprio nel Medioevo che si sviluppò, come forma di prevenzione al diffondersi delle epidemie, la pratica della quarantena, che fu regolamentata a Venezia con l’istituzione di una polizia sanitaria marittima. La prevenzione del contagio nell’ottica di preservare i sani è un tema che in molte situazioni ha conosciuto momenti di crudeltà e spietatezza tra i deliri irrazionali delle masse in cerca di capri espiatori e l’incapacità delle autorità di prendere provvedimenti efficaci.
La febbre spagnola manifestatasi durante la Grande Guerra per poi sconvolgere l’intero globo tra il 1918-1920 fu un triste capitolo della storia umana capace di segnare drammaticamente la storia della medicina mondiale. I governi nazionali all’indomani della Grande Guerra erano divisi e incapaci di prendere decisioni forti per contenere e prevenire l’epidemia, in più il ritorno in patria di moltissimi soldati sparsi per il mondo incrementò vertiginosamente la diffusione della malattia. Per quanto l’influenza spagnola ricopra uno spazio davvero limitato nei libri di storia i numeri dei decessi ci dicono che fece molte più vittime della Prima Guerra Mondiale. Oggi, certo abbiamo nuove armi efficaci per combattere le epidemie prima tra tutti è l’informazione, i più moderni e diffusi dispositivi di protezione individuale, le ricerche scientifiche e nel campo farmacologico e sanitario, e le misure dei tanti governi nazionali che stanno cercando di limitare il più possibile i contagi.
Sul The New England Journal of Medicine David S. Jones nel suo articolo History in a Crisis — Lessons for Covid-19 fa un breve excursus storiografico sulle epidemie e su come sono state affrontate dalle società umane[2]. Secondo lo storico della medicina Charles Rosenberg “le epidemie si svolgono come drammi sociali divisi in tre atti. I primi segnali del contagio rimangono quasi invisibili. Oltre al desiderio di rassicurazione e alla necessita di tutelare i loro interessi economici, i cittadini ignorano i primi indizi, fino a quando l’accelerazione della malattia e l’insorgere della morte costringono a riconoscere il problema. Con questo riconoscimento comincia il secondo atto, in cui le persone chiedono e si danno spiegazioni, sia biologiche che morali. Le spiegazioni, a loro volta, generano risposte pubbliche. E tali risposte possono rendere il terzo atto drammatico e dirompente come la malattia stessa”.Alla fine del suo ragionamento Rosenberg definisce le epidemie come “una cartina di tornasole per l’analisi sociale” da cui si può capire “ciò che conta davvero per una popolazione”[3]. A proposito di quest’ultimo aspetto vorremmo proporre una breve analisi sociale concentrandoci su alcuni aspetti drasticamente modificati, se non stravolti, dalla straordinarietà della situazione legata all’emergenza del corona virus.
A partire da fine febbraio fino ad oggi sono stati cinque i DPCM emessi dal Presidente del Consiglio, cinque i decreti-legge, due le ordinanze ministeriali (una del Ministero della Salute, l’altra del Ministero dello Sviluppo Economico) che riguardano misure urgenti di contenimento del contagio, misure di potenziamento del servizio sanitario e aiuti a famiglie e imprese in seguito alla crisi connessa all’emergenza epidemiologica. Tra questi il DPCM dell’8 marzo 2020 ha esteso le misure di contenimento previste per Veneto, Lombardia a tutta l’Italia (per ricordare alcune disposizioni c’è la chiusura di manifestazioni sportive e politiche, delle scuole… eccetera) [4]. Poco più di una settimana dopo e in seguito ad altre disposizioni che hanno via via intensificato le forme di contenimento del virus, c’è il DPCM del 22 marzo, che, come ricorderemo bene, impone la chiusura di tutte le attività lavorative che non sono strettamente connesse alla sanità o alla filiera legata ai beni di prima necessità. È questo il Decreto del Presidente del Consiglio che ha costretto a casa la maggior parete degli italiani.
È difficile non notare in questo periodo, oltre a un notevole rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, un ritrovato e consolidato clima di unità nazionale. Nella narrazione collettiva il virus prende le sembianze di un nemico da sconfiggere in una guerra che non è fatta con armi e bombe ma con mascherine, guanti sterili e amuchina, ma soprattutto con il senso di responsabilità e di autocontrollo di ognuno. Anche l’esperienza della reclusione in casa, della distanza da mantenere con le persone, del clima generalizzato di paura e diffidenza, della ricerca di un nemico da colpevolizzare (prima era la comunità cinese, ora chiunque vada a fare una passeggiata o una corsa fuori), può essere una similitudine da poter accostare all’esperienza della guerra. Non delle guerre di posizione, ma dei conflitti moderni che si animano nelle città tra bombardamenti e occupazioni militari. Naturalmente stiamo facendo questi confronti senza la volontà di fare un paragone rispetto all’esperienza reale di una guerra. E vogliamo precisare che se usiamo la metafora bellica per voler richiamare a una situazione di ordine e controllo sociale, a una condizione di militarismo realmente presente nelle città, altresì ne mettiamo in discussione l’uso politico che se ne fa, per costruire una rappresentazione sociale in cui i medici sono identificati come eroici soldati, i buoni cittadini sentinelle pronte a obbedire e puntare il dito contro chi porta a spasso il cane o chi fa una corsetta intorno all’isolato. La metafora della guerra, nel discorso che viene fatto da politica e media è infatti questo che vorrebbe evocare: forza, virilità, controllo, disciplina, caccia al nemico, all’untore da colpevolizzare, sudditanza, dicotomia tra buoni e cattivi. Ma la stessa metafora potrebbe invece, pur mantenendola, essere usata per alludere ad altro.
Quello che ci interessa sta in effetti nel significato simbolico che questa parola ha assunto nel nostro paese, soprattutto dopo l’esperienza della Resistenza. In Italia la parola guerra ha la peculiarità di riportare alla mente immagini ed esperienze diverse da quelle che vorrebbe evocare chi usa questa parola per avere cittadini ammaestrati come bravi soldatini. Perciò diciamo che è una guerra quella contro il coronavirus perché in Italia quando parliamo di guerra torna alla mente l’esperienza della reclusione in casa ai tempi dell’occupazione nazi-fascista, la diffidenza verso il prossimo perché poteva essere un collaboratore dei fascisti, la sensazione costante di paura, la riscoperta di tante attività nell’ambito della vita domestica. Anche se oggi poche persone hanno davvero vissuto queste esperienze, attraverso i racconti dei propri padri e nonni o le letture e la vicinanza storica con l’accaduto, molte di queste vicissitudini sono ancora vivide nella memoria collettiva, per quanto molti esponenti della politica preferiscano trascurarne il significato politico e simbolico o cerchino di distorcerlo per il proprio tornaconto.
Dunque più che l’accento sulla guerra, quello che potremmo riscoprire è invece il contenuto evocativo del termine resistenza, con le ovvie differenze del caso. Più che una guerra al virus, si tratta di una resistenza a esso, ognuno secondo i propri mezzi e le proprie possibilità. Gli operatori sanitari resistono al virus e permettono, nei migliori dei casi, ai pazienti positivi di resistere alla malattia, attraverso la cura e le competenze mediche e tecniche che mettono a disposizione, oltre a una dose di virtuoso coraggio e senso del dovere. Le persone comuni provano a resistere, con grande sforzo, rinunciando all’aria aperta, attuando il sacrificio della reclusione forzata, mettendo avanti il senso di responsabilità e senso civico alla propria, per usare le parole di Foucault, “impazienza della libertà”. E a proposito delle categorie di medici, infermieri e altri operatori sanitari di qualsiasi tipo, non ci sono né eroi e né sconfitti, ma solo uomini che fanno il proprio lavoro in una situazione di emergenza. Questi lavoratori e queste lavoratrici, perché di questo si tratta, hanno bisogno di essere messi nelle condizioni migliori per fare il proprio mestiere: hanno bisogno degli strumenti necessari per la cura, dei dispositivi di protezione individuale per proteggere loro stessi e le persone di cui si occupano, di orari di lavoro umani che gli consentano di fare un appropriato tempo di riposo tra turno e turno anche nell’ottica di evitare errori causati da stress o dovuti all’eccessivo carico di lavoro.
Resistere non è solo un’azione di passiva accettazione, di sopportazione in un contesto di privazione e indigenza. Implica comportamenti attivi, vitali. Chiusi nelle proprie abitazioni molte persone riscoprono le attività di una volta collegate a stili di vita e ritmi diversi da quelli dell’esistenza quotidiana prima della sconvolgimento creato dal virus. Anche dal punto di vista delle abitudini alimentari, al posto di pasti veloci e preconfezionati, oppure al posto di tavole calde, street food e ristoranti all you can eat – per chi era solito consumare almeno un pasto fuori – c’è una riscoperta di piatti tradizionali caratterizzati da lunghi tempi di preparazione come pasta, pane e biscotti; tutto questo anche nell’ottica di limitare le uscite per il rischio legato al contagio. Secondo la Coldiretti con il Coronavirus gli italiani stanno acquistando l’80% in più di farina. “Con l’esigenza di passare il tempo fra le mura domestiche per le limitazioni alle uscite imposte dalle misure restrittive anti pandemia si è tornati a preparare dolci, pane e pasta fatta in casa secondo una tradizione che appassiona oggi quasi una famiglia su tre (32%) secondo l’indagine Coldiretti Ixè”[5]. Per trascorrere il tempo libero si sceglie la cucina domestica, tradizionalmente al centro della vita quotidiana italiana, o di almeno di quella di un paio di generazioni fa, perché nessuno oggi, in fin dei conti, in situazioni normali, è esente dalla frenesia della vita moderna in un contesto in cui la crescente precarietà lavorativa ha inciso molto anche sull’organizzazione della vita delle giovani famiglie. E quindi si sta a casa e cambiano i ritmi di vita, che si fanno più lenti, più sospesi, ci si dimentica quasi dei giorni che passano e spesso e volentieri si passa il tempo nell’attesa della lievitazione del pane, un’attesa ancestrale che ha scandagliato innumerevoli istanti di moltissime vite nel mondo e nel tempo.
Ma oltre al ritorno di tante attività domestiche di una volta non possiamo escludere di certo le moltissime opportunità che la modernità ci offre per passare il tempo, chiaramente e soprattutto con l’ausilio del web. Stiamo parlando principalmente dei numerosi servizi di streaming che in questi giorni hanno di gran lunga ingrossato le fila dei propri canali, per non parlare di quelli che hanno offerto iscrizioni gratuite e periodi di prova nel contesto dell’emergenza coronavirus. A questo proposito segnaliamo anche la messa a disposizione di e-book, e-pub, riviste e corsi professionali online messi a disposizione dal Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione con la collaborazione di Agid (Agenzia per l’Italia Digitale), imprese, associazioni e privati cittadini[6]. Il numero di persone che passa il tempo con i moltissimi servizi di intrattenimento che il web offre ci porta a riflettere su quanto questo tipo di attività sia diventata quasi onnipresente nella vita delle persone. Soprattutto in momenti di ansia, panico e stress legati alla paura del contagio e alla condizione di reclusione nei recinti della vita domestica, la visione di un film su uno dei numerosi servizi streaming o la partecipazione a un gioco virtuale o la presenza e il confronto sui social può produrre un liberatorio effetto catartico per scaricare frustrazione e inquietudine. Nella consapevolezza di tutti gli aspetti negativi e le molte storture che possono procurare un’esposizione passiva e inconsapevole, e persino alienante o lobotomizzante al mondo digitale, probabilmente in questa fase gli aspetti positivi sembrano superiori ai mali, pur con tutte le contraddizioni del caso (in cui non vogliamo addentrarci in questa sede), soprattutto considerando il fatto che è un motivo in più per le persone per trascorrere il proprio tempo a casa.
Tuttavia sembra però che ancora non tutte le risorse digitali messe a disposizione siano un servizio equamente accessibile a tutti: si pensi alla didattica a distanza, che può funzionare bene nelle scuole “più all’avanguardia” o dotate di maggiori risorse economiche, organizzative e gestionali, ma non arriva a quelle con minor risorse, e soprattutto non arriva a quelle famiglie che non hanno i mezzi per poter usufruire dei servizi di didattica digitale. Quindi, anche in questo caso, la situazione straordinaria che stiamo vivendo rivela l’ordinaria differenza di classe che manifesta un’imparità di diritti e una non eguale redistribuzione di risorse e mezzi.
Le differenze sociali sul piano economico non sono però le uniche difficoltà che si rendono ancor più evidenti in questo periodo. Vi sono situazioni di vulnerabilità e fragilità maggiori rispetto ad altre e che possono subire peggioramenti e ricadute. Ci sono persone per cui la reclusione entro le mura dell’abitazione può essere dolorosa e insopportabile. Un caso drammaticamente rilevante è quello della violenza domestica. A mettere in evidenza questo problema sono state moltissime associazioni e persino l’Onu si è espressa in merito: “è altamente probabile che il livello della già diffusa violenza domestica aumenti, come già suggerito da indicazioni preliminari di polizia e operatori […]. Per fin troppe donne e bambini la casa può essere un luogo di paura e abuso. Una situazione che si aggrava considerabilmente in casi di isolamento come il lockdown imposto nell’emergenza Covid-19”[7]. A questo proposito il Ministero degli Interni, di concerto con il Ministero delle Pari Opportunità ha messo a disposizione l’app YOUPOL per poter contattare la polizia quando non è possibile contattare telefonicamente le forze dell’ordine. L’app dotata di geolocalizzazione invia i dati alla questura più vicina consentendo alle vittime di poter chiedere aiuto anche quando chi commette gli abusi è nella stanza accanto[8].
Un’altra categoria particolarmente vulnerabile è quella dei detenuti, la cui condizione di reclusione si mostra una doppia prigionia. Una prigionia che li espone al contagio senza alcuna via di fuga. Una libertà mancata che si rivela una disponibilità maggiore alla malattia e, nei casi più tragici, alla morte. Secondo quanto riportato da Andrea Pugliotto sul Manifesto, sarebbero 151 i casi accertati di contagio nelle carceri al cui interno è difficile adottare misure efficaci di contenimento al diffondersi del virus: “igiene personale, distanziamento, sanificazione, isolamento, sono chimere nella ‘promiscuità coatta di celle sture di corpi, liquidi e secrezioni, eiezioni e sudori’(Marconi)”[9]. Occorrerebbe adottare delle misure inedite, provvedere a una decarcerizzazione controllata, come è stato fatto in altri paesi. Anche l’alto commissario Onu per i diritti dell’uomo, Michelle Bachelet, ha chiesto agli stati di prendere delle misure urgenti al fine di tutelare la sicurezza e la tutela dei detenuti (e non solo, l’alto commissario fa riferimento anche a coloro che sono chiusi nei centri per il rimpatrio e negli hot-spot), nel quadro delle misure necessarie a contenere il diffondersi del covid-19. Sicuramente, una volta usciti dalla situazione pandemica che stiamo vivendo, bisognerà che le istituzioni politiche si facciano carico della questione delle carceri e dell’umanità di chi vi è recluso: il sistema carcerario così come è (sovraffollamento, fatiscenza, “invisibilizzazione” dei diritti e della dignità dei ristretti, mancanza di norme igieniche, spazi microscopici, ambienti degradati e degradanti, visione punitiva, ecc.) è una ferita aperta e sanguinante nel cuore di quella che chiamiamo democrazia.
Insieme ai casi di violenza domestica e a quelli dei detenuti, che probabilmente sono i più estremi, ci sono altre situazioni, forse più sconosciute, in cui la reclusione in casa risulta difficile e dannosa: coppie in crisi o anche situazioni di divorzi in casa, bambini costretti a passare ore ed ore davanti alla televisione senza poter uscire, persone con disturbi che non possono seguire la propria terapia, anziani che non possono fare le loro visite di routine e spesso hanno anche problemi ad andare a ritirare i farmaci, persone che soffrono di forme di depressione e che in casi di isolamento forzato possono diventare ancora più acute e manifestarsi in maniera ancor più devastante e pericolosa per la tenuta psico-fisica della persona che ne è affetta.
Per fortuna esiste il lavoro di moltissime associazioni di volontariato e di cooperative che in qualche modo cercano di porre rimedio, o per lo meno dei freni, ad alcuni di questi casi di disagio. Purtroppo però a molte di queste situazioni c’è un’unica soluzione ora impossibile, per lo meno nel breve e medio periodo, ovvero quella di ritornare alla normalità, che in molti casi già poteva risultare particolarmente dura.
Una normalità che dopo quasi un mese di reclusione, non solo fisica ma anche psicologica, all’interno delle proprie abitazioni potrà non essere più la stessa, a cominciare dai legami sociali e dal quadro economico. Infatti la grave crisi economica legata alla situazione di emergenza epidemiologica e dovuta, in parte, allo stop di tantissime attività produttive sta infatti infliggendo duri colpi al mercato italiano, che comunque tanto sano non era neanche prima dello scoppio della pandemia. Il centro studi di Confindustria stima una grave marcia indietro del Pil italiano: “una caduta cumulata dei primi due trimestri del -10% circa”[10]. Se da parte dello stato non vi sarà un marcato interventismo sull’economia con aiuti alle imprese e un importante sostegno ai salari dei lavoratori difficilmente, una volta terminate le misure di contenimento, troveremo il mondo del lavoro esattamente come lo abbiamo lasciato – per usare un eufemismo. Fortunatamente il governo, nel contesto dell’emergenza coronavirus, sembra aver riscoperto un ritrovato attivismo. Oltre alle misure di contenimento dell’epidemia e di sostegno al sistema sanitario, ha varato il 17 marzo 2020 il decreto “Cura Italia” introducendo misure di sussidio a famiglie e lavoratori. Tra queste troviamo: congedo indennizzato per la cura dei minori, bonus per l’acquisto di servizi di baby-sitting nel limite massimo di seicento euro, misure a sostegno del reddito […] per la sospensione o la riduzione dell’attività lavorativa (come cassa di integrazione ordinaria e straordinaria), potenziamento dei servizi informativi dell’Inps e una semplificazione di accesso a prestazioni economiche e altri servizi individuali rafforzando le modalità interamente telematiche[11].
Tutte queste misure sono sicuramente di aiuto nel breve periodo ma sono granelli di polvere capaci di essere spazzati via facilmente se l’economia va a rotoli. Se poi la risposta del governo sarà quella dell’austerità sarà facile immaginare scenari drammatici. Perché ci sarebbe bisogno di tutto il contrario. Se c’è qualcosa che questa crisi ci ha insegnato, sul fronte dell’economia, è l’importanza dell’economia reale, quella generata dal lavoro, dalla produzione di beni e servizi, e non dai giochi di prestigio della finanza che può speculare anche nelle situazioni di crisi.
C’è bisogno di un importante investimento di risorse nel Sistema Paese, da una parte nel sostegno a imprese e lavoratori, dall’altra nel rafforzamento di beni e servizi essenziali, prima tra tutti la sanità che di certo non ha giovato dei numerosi tagli che le sono stati inferti fino ad ora, anche nell’ottica di creare più posti di lavoro e sempre nuove figure professionali nell’ambito della ricerca. Quello che almeno si spera venga recepito dalle istituzioni a diversi livelli è l’imprescindibilità del sistema sanitario pubblico. La mancanza di posti-letto, la mancanza di personale medico, il ritorno, dolorosissimo e terribile, a una sorta di eugenetica che impone ai medici di scegliere chi curare e chi no, sono effetti di anni e anni di tagli alla sanità pubblica che non dovranno mai più ripetersi. Un dissanguamento, quello del Sistema Sanitario Nazionale che sicuramente ha aggravato e reso più drammatica la portata dell’epidemia. Ritorno alla normalità non dovrà significare tornare al neoliberismo sfrenato che privatizza beni e servizi e comprime, sul fronte economico, diritti e tutele dei lavoratori.
Ritornare alla normalità non dovrà significare l’accettazione e rassegnazione supina al ritorno allo stato di cose precedenti, ma dovremmo rimettere ancor più in discussione e sottoporre a dura critica, soprattutto da parte dei governi – a tutti i livelli – un sistema di sviluppo economico che ha fatto emergere in maniera palese, tutta la sua fallibilità, che si è dimostrato come tangibilmente dannoso in questo periodo emergenziale.
Anche dal punto di vista più prettamente sociale, o meglio, di immaginario collettivo, l’uscita dall’emergenza sanitaria dovrebbe rappresentare un’occasione in più per riflettere su aspetti che probabilmente non avremmo preso in considerazione in situazioni normali. Nell’isolamento entro le mura domestiche ci si può interrogare su quanto le nostre scelte possano essere importanti in rapporto alla collettività: ci sono situazioni in cui evitare o trascurare cose che sembrano insignificanti può voler dire commettere gravi errori per noi e per gli altri. Nella distanza che dobbiamo mantenere dall’altra persona risiede il significato intrinseco del compito che ognuno ha di proteggere e tutelare la salute pubblica: è una distanza, quindi, che è simbolicamente “vicina all’altro”, vicina a un’idea di collettività a cui difficilmente poniamo attenzione nella vita di tutti i giorni. Secondo Matteo Pascoletti, nel suo articolo sulla rivista online Valigia Blu: “Bisogna piuttosto iniziare a ripensare radicalmente i rapporti – sociali, lavorativi, economici, politici – e capire, una buona volta per tutte, che non sarà il thatcheriano «Non esiste una cosa chiamata società» a salvarci. Proprio ora che il virus ci impone distanza, rapporti mediati dobbiamo riscoprire il concetto di società e, soprattutto, i valori sui cui la si vuole fondare”[12].
Insieme alla riscoperta della società non possiamo non renderci conto
del ruolo che lo stato ha rivestito in questa situazione di emergenza. Misure
radicali per la sicurezza e il contenimento del contagio, blocco di moltissimi
settori produttivi e legati al commercio, salatissime multe per chi
trasgredisce le disposizioni dello stato di emergenza, monitoraggio sugli
spostamenti. Il governo in questi giorni è letteralmente entrato nelle nostre
case, nei letti degli ospedali, nei posti di lavoro. La politica si è rilevata
plasticamente una biopolitica (ma già lo era), intervenendo pervasivamente
sulla vita e i corpi degli individui, limitando fortemente le loro libertà
fondamentali attraverso un controllo disciplinare e persino militaresco (e da
questo punto di vista davvero sembra di essere in guerra!). Sicuramente queste
misure da “stato di emergenza” sono richieste, appunto, da una situazione
emergenziale. Ma tornati alla normalità ci sarà il bisogno di ristabilire un
distacco, di mettere dei paletti al potere disciplinare dello stato, di fare in
modo che tutto ritorni alla quotidianità, nell’ambito della vita di tutti i
giorni ma anche nell’ambito della politica e delle pratiche democratico-istituzionali,
senza che si usi impropriamente la scusa dell’emergenza, anche quando l’emergenza,
si spera, non ci sarà più. Perché se vogliamo che esista un concetto di società
che vogliamo riscoprire e a cui vogliamo dar voce dobbiamo fare in modo che
coesista con il concetto di stato, una coesistenza che può rivelarsi pacifica o
dialettica a seconda delle circostanze, ma che mai ne comprometta le reciproche
esistenze. Possiamo uscire solidali nel riscoprire il concetto di società da
questa crisi, solo se riusciamo a trarre da questa brutta esperienza i migliori
propositi per provare a cambiare in meglio ciò che non ha funzionato, anche
mettendo in discussione tanti aspetti del sistema che abbiamo conosciuto sino
ad ora.
Immagine da www.flickr.com
[1]http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Le_grandi_epidemie_nella_storia_e_nella_letteratura.html
[2] The New English Journal of Medicine del 26 marzo 2020
[3] Ibidem
[4] http://www.governo.it/it/approfondimento/coronavirus-la-normativa/14252
[5] https://www.coldiretti.it/economia/coronavirus-80-farina-boom-pane-e-pasta-fatti-in-casa
[6] https://www.tomshw.it/culturapop/corona-virus-servizi-gratis/
[7] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/28/coronavirus-lonu-in-isolamento-aumenta-la-violenza-domestica-lamorgese-unapp-per-chiedere-aiuto-istituzioni-vicine-alle-donne/5752656/
[8] https://www.interno.gov.it/it/notizie/lamorgese-sempre-vicini-vittime-e-testimoni-dei-maltrattamenti-famiglia
[9] https://ilmanifesto.it/la-bomba-carceraria-e-i-suoi-artificieri/
[10] https://www.repubblica.it/economia/2020/03/31/news/confindustria_pil_coronavirus-252768868/
[11] https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemdir=53474
[12] https://www.valigiablu.it/coronavirus-solidarieta/
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.