di Alessandro Zabban e Elena De Zan
Pubblicato per la prima volta il 4 febbraio 2016
Sono iniziati i controlli e le prime restrizioni sui minimarket a Firenze. L’obiettivo principale del comune è la “tutela e valorizzazione del paesaggio urbano storico, dell’immagine e dell’identità storico-architettonica” del capoluogo toscano. Ma la “guerra ai minimarket” del sindaco Dario Nardella non è uno strumento di lotta al degrado, è una battaglia dichiarata contro coloro che difficilmente riescono a trovare lavoro al di fuori delle reti etniche e contro chi non può permettersi di pagare fior di quattrini per una bibita.
Secondo il nuovo Regolamento varato dal consiglio comunale, bar, ristoranti e esercizi “storici e del commercio tradizionale” (i “vinaini” ad esempio) possono continuare a eseguire le loro funzioni, mentre l’esistenza di esercizi quali i minimarket, in genere legati alle economie “etniche”, viene messa a dura prova in nome della “tutela del decoro del patrimonio culturale”.
A ben vedere però, lasciare aperti i minimarket in centro non significa sostenere una liberalizzazione incontrollata, tant’è che lo stesso rappresentante dei minimarket fiorentini Paras Gorgia ha ribadito in più interviste la necessità di una regolamentazione che non attacchi chi lavora secondo le regole. Significa invece difendere posti di lavoro, permettendo a molte famiglie di sopravvivere.
Quello che risulta palese in queste norme è la volontà di colpire gli individui più deboli, privi di diritti di voto e meno tutelati rispetto ai cittadini italiani: enoteche non storiche, bar, pub, discoteche e tutti gli altri locali della movida continueranno a vendere alcolici senza restrizioni, rendendo così la “guerra all’alcool” un mero slogan elettorale.
La chiusura, o l’impedimento all’apertura di questi minimarket (definiti dal sindaco come “venditori di morte”/”cancri da estirpare” quando è risaputo che in molti locali della “Firenze Bene” oltre all’alcool girano sostanze ben più pericolose), non eliminerà nemmeno la “movida selvaggia”: con o senza minimarket, nei locali, i turisti continueranno a consumare alcolici come se non ci fosse un domani, “attentando alla salute pubblica”, producendo schiamazzi e creando quel fantomatico “degrado” che fa tanto paura a certe testate giornalistiche che fanno di questo argomento il perno della loro linea editoriale.
Ma la guerra all’alcool di Nardella è solo il primo punto di un Regolamento, volto a recepire la direttive UNESCO sul decoro urbano e la preservazione del Centro Storico Fiorentino. L’obiettivo dichiarato è quello di colpire tutte le attività che il Sindaco definisce di “bassa qualità”: con la scusa della preservazione del patrimonio storico- culturale, si fa sempre più distinta la possibilità di assistere a un giro di vite senza precedenti non solo nei confronti di rivenditori di alcolici ma anche nei confronti di “kebabbari” e pizze al taglio, money-transfer, phone-center, compro oro, internet point.
Nonostante il sindaco dichiari che la sua ordinanza non è “razzista”, non si può non notare come la sua norma vada ad attaccare tutte quelle categorie di negozi che sono solitamente gestiti da migranti e/o hanno come beneficiari gli appartenenti alle minoranze etniche e le persone più povere. Se è vero che questi esercizi commerciali non hanno nulla da spartire con il patrimonio artistico e culturale fiorentino, il Sindaco dovrebbe spiegare quale sia il grande valore e l’importanza storica di molti locali e esercizi del centro storico legati alle grandi catene multinazionali della ristorazione e dell’intrattenimento (Mac Donald, Subway, Hard Rock Cafè, ecc…) o le discoteche e discopub perennemente invase da maree di turisti europei e statunitensi (questi ultimi molto spesso tristi protagonisti della cronaca locale quando si parla di “degrado”).
Chi vede in queste misure un modo per migliorare la vivibilità del centro storico pure per i residenti, non si rende conto che il “degrado” non è prodotto dai minimarket o dai negozietti etnici; se si vuole vivere in una città più attenta ai bisogni delle persone si possono prevedere misure quali il rafforzamento di politiche di assistenza ai senzatetto, l’aumento del numero di bagni pubblici e una seria politica di prevenzione del danno nei riguardi di tutte le sostanze psicotrope, alcol incluso. Ciò significa che quello che bisogna combattere non è tanto il degrado, ma più sopratutto il disagio: per migliorare la qualità del centro storico serve una politica di welfare e di assistenza sociale mirata, non la chiusura dei minimarket.
È assurdo portare avanti questi regolamenti nel nome dei fiorentini, perché volenti o nolenti, sono abitanti di Firenze sia i gestori che i beneficiari dei servizi dei minimarket: risulta assurdo rendere vivibile una città eliminando di fatto le persone che il centro lo abitano e i negozi che la socialità la creano. Se la misura potrebbe portare a una diminuzione dei fenomeni di aggregazione giovanile nelle piazze (luoghi tradizionali dell’incontro e della socializzazione), in compenso porterà a un incremento sconsiderato di persone assiepate all’entrata dei locali, ovvero più vicino alle abitazioni con un conseguente maggior danno arrecato a chi, desideroso di dormire, viene spesso svegliato o disturbato dai numerosi schiamazzi e da altre forme di inquinamento acustico notturno.
In tutto questo, non possiamo non mettere in risalto l’aspetto di classe: a perderci sono i consumatori che vogliono spendere meno per bere alcolici e per i piccoli servizi della vita quotidiana oltre che i piccoli negozianti; a guadagnarci invece sono solo i grandi gestori di locali. Rischia allora di sfaldarsi il tessuto etnico e sociale, le tradizionali forme di aggregazione in una Firenze che, in nome del patrimonio storico, sta paradossalmente proprio distruggendo la storicità di un centro che sta sempre più diventando non-luogo: posto senza appartenenze e senza identità, sempre più asettico e snaturato, non più arricchito dalla presenza delle persone che lo vivono e lo abitano ma solo attraversato dai rapidi e anonimi movimenti del capitale. Invece di essere un luogo di vita, diventa l’ennesima vetrina tirata a lustro e a atta a soddisfare solo i più superficiali desideri consumistici.
Una Firenze vivibile è quella che crea alternative valide e accessibili di svago, una Firenze non vivibile è una Firenze che esclude di fatto dal centro storico i soggetti non a norma, socialmente più vulnerabili, perché “bello” significa “ricco”. E, a quanto sembra, una persona che si beve una birra a 2 euro e 50 in piazza è più degradante di una che beve la stessa birra a 6 euro davanti a un locale, quella che mangia un kebab è più degradante rispetto a quella che mangia un panino col lampredotto.
Questa normativa è un’ulteriore metodo volto ad alimentare un processo di gentrificazione del centro storico, teso a trasformare Firenze sempre più in una città-vetrina per turisti abbienti. Una città che però è abitata anche da migranti, studenti, lavoratori precari.
Nardella ha ragione su una cosa: Firenze è una città il cui centro storico è martoriato dal degrado. Quello di cui però non si vuole rendere conto è che il vero degrado è costituito dall’impatto delle grandi opere su un terreno sempre più a rischio idrogeologico, dai cartelloni pubblicitari che sovrastano le bellezze architettoniche, dai magnifici palazzi rinascimentali in vendita ai privati che vogliono trasformali in hotel di lusso.
Il decoro del centro storico fiorentino, patrimonio dell’umanità UNESCO, dovrebbe essere difeso con ben altre misure che non siano la chiusura dei minimarket. Questo regolamento comunale è quindi l’ennesima misura di propaganda, che può essere equiparata alle geniali idee che sorgono di tanto in tanto a sindaci-sceriffi di tutt’Italia: sia mai che la Lega abbia l’esclusiva per le leggi securitarie!
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