I fatti recenti di questi giorni – il brutale omicidio di Willy a Colleferro, quello ancor più recente di Maria Paola a Caivano e, sebbene molto distante da entrambi gli episodi, l’offensivo tweet del professore di storia contemporanea presso l’Università degli Studi del Molise e giornalista Marco Gervasoni in riferimento alla copertina pubblicata dall’Espresso ritraente l’ex europarlamentare e attuale vice-presidentessa della regione Emilia Romagna Elly Schlein – per quanto naturalmente diversi tra loro, richiamano a mio avviso un problema culturale radicato profondamente nella nostra società.
Cominciamo dal primo (a livello temporale) fatto drammaticamente grave. L’omicidio del giovane ventunenne Willy Monteiro Duarte commesso da quattro “bulli” di quartiere, come sono stati definiti da gran parte della stampa mainstream.
Tutto è iniziato la notte tra sabato 5 e domenica 6 settembre. Nell’ordinanza Nell’ordinanza di convalida dell’arresto di Gabriele e Marco Bianchi, Matteo Pincarelli e Francesco Belleggia è contenuta anche la testimonianza di una delle ragazze presenti la notte fra sabato 5 e domenica 6 settembre a Colleferro: “Dapprima gli hanno dato un calcio in pancia, quindi Willy si è accasciato a terra. Dopodiché si è rialzato ed è stato colpito nuovamente da Gabriele”. Un’aggressione avvenuta per “futili motivi”, scrive il gip di Velletri, Giuseppe Boccarato, da parte di soggetti dei quali si rileva la “incapacità di autocontrollo” e la “sostanziale indifferenza alle iniziative processuali intraprese nei loro confronti”. Una posizione dalla quale si distingue Belleggia – l’unico ai domiciliari – dopo aver collaborato con gli inquirenti e aver spiegato che Willy “non c’entrava nulla”– sintetizza il giudice – ed era stato violentemente e repentinamente colpito solo in quanto si era trovato nella ressa creatasi intorno a Belleggia e allo Zuma” .
Su questa vicenda è stato scritto di tutto, soprattutto a proposito degli aggressori. Molti hanno posto l’accento sia sullo sport praticato da coloro che hanno commesso l’efferato omicidio di Willy, l’Mma, sia sull’aggravante razziale. A mio avviso la questione è un po’ più complessa.
Per quanto riguarda il razzismo mi rifaccio alle parole di Michele Rech, meglio noto come ZeroCalcare, in un post sulla sua pagina Facebook, che secondo me sono state più efficaci di tante altre cose lette in questi giorni:
“1) Il razzismo in questa storia ci sta, perché il razzismo in sto paese è sistemico, è in dotazione di serie, non a caso 9 persone su 10 se litigano co un bianco nel traffico je dicono vaffanculo, se litigano con un nero je dicono negrodimerda, quindi che il fatto che sto pischello fosse nero abbia determinato un accanimento particolare me pare quasi scontato.
2) La lente del fascismo/antifascismo è quella su cui siamo rodati e ste storie ce richiamano copioni dolorosi che conosciamo, ma me pare che non basta a leggere la complessità di sto mosaico, perché se uno alza la cornetta e prova a sentire colleferrini e arteniesi che in quelle zone ci abitano e ste persone le conoscono, compresi compagni/e, associazioni e singoli che fanno politica sul territorio, te dicono che questi so pezzi di merda che campano de prepotenze e che da anni menano tutti indistintamente, tanto che l’obbiettivo della spedizione stessa era uno bianco.
3) Qualsiasi ragionamento che non tiene dentro anche la marginalità culturale (che non se sovrappone necessariamente a quella economica, anzi, alcuni questi stavano impaccati), l’abbandono scolastico, la cocaina che è il copilota di quasi tutto quello che atterra in cronaca di Roma, l’ubriacatura de malavita per cui ognuno vuole fa Scarface ma colle sopracciglia spinzettate, un’idea de virilità piena de machismo e testosterone che non se trova solo nei gruppi di estrema destra, è un ragionamento monco.
4) Qualcuno de zona m’ha detto che questi se avessero potuto avrebbero votato Gue Pequeno o Anna Tatangelo, più che qualche partitucolo de estrema destra, me pare una sintesi plausibile che non esclude il punto 1.
5) Comunque il fatto che quando un nazista militante e inserito in qualche struttura de destra radicale compie qualche efferatezza, tutto il mainstream lo spoliticizza e lo chiama “ultrà” o “balordo”, e poi quando invece la stessa cosa la fa uno che non ha mai fatto politica in vita sua, lo stesso mainstream non ha problemi a chiamarlo “fascista”, forse un po’ ci dovrebbe fare riflettere.
6) Nessuna di ste cose è un’attenuante, questi so pezzi de merda e de sicuro non se ascrivono al radioso e frastagliato campo del progressismo, ma se non restituiamo la complessità delle situazioni quando raccontiamo ste storie, i territori che ste storie le conoscono poi ce ridono in faccia.
7) I mitomani so mitomani anche quando dicono una cosa giusta o che ci piace”.
Ecco, secondo me in questa vicenda c’entra il razzismo nel senso che il razzismo è un elemento sistemico e strutturale di una grossa fetta della società, soprattutto in ambienti di marginalità sociale e culturale (che, come dice ZeroCalcare, non sempre si sovrappone alla marginalità economica, anche se molto spesso le cose sono connesse). Il germe del razzismo è endemicamente presente in tutti gli strati della nostra società, soprattutto, ma non soltanto, negli strati più marginali e problematici da un punto di vista urbano, culturale ed economico. Basta leggere alcuni post di uno di loro, Gabriele Bianchi, intriso profondamente di una pericolosa violenza verbale e xenofoba in cui incita addirittura alla morte (“lurido egiziano de merda […] crepa lentamente, spero che qualcuno ti affoghi nella merda…”; “egiziano di merda, che tu possa crepare all’inferno…”) o ascoltare le parole di uno dei genitori degli imputati: “Che hanno fatto? Non hanno fatto niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario”. Quindi sì, il razzismo c’entra perché una grossa fetta della società divide le persone in persone di serie a e persone di serie b, coloro che non sono italofoni vengono ontologicamente inferiorizzati e la loro stessa morte sminuita, quando sono vittime. Se al contrario un soggetto non italofono commettesse un reato, si focalizzerebbe (o almeno una parte politica e gran parte del senso comune, della costruzione e rappresentazione sociale e mediatica e del discorso pubblico) subito l’attenzione sulla sua non italianità, naturalizzando la sua cultura come se culturalmente (in questo senso dico che si tratta di naturalizzare la cultura vista come caratteristica innata e biologica di un gruppo etnico) “gli stranieri” fossero portati a compiere illegalità.
Per quanto riguarda la presunta simpatia per ideologie di estrema destra degli aggressori, citata spesso in diverse testate giornalistiche, credo che il fascismo degli aggressori sia individuabile più come modalità di comportamento che non come scelta consapevolmente politica. Sono fascisti per il culto della violenza, della prevaricazione, dell’ostentazione della virilità, per il culto dell’uomo forte, per l’idea ossessiva del capo (erano i capetti di quartiere), per l’esaltazione e l’uso del braco, per la legge del più forte, la vigliaccheria e l’abuso della forza contro il più debole e vulnerabile, per l’autocompiacimento nell’imporre sottomissione attraverso la minaccia, la violenza, incutendo timore, paura, o addirittura terrore. Quindi credo sia una componente insita di cultura fascista più che una fede esplicitamente politica, in questi soggetti, già noti per i reiterati episodi di bullismo, botte, violenza gratuita.
Per quanto concerne l’Mma, sport praticato dagli imputati, non credo che praticare uno sport, che possiamo sì definire violento, trasformi tutti coloro che lo praticano in picchiatori seriali e potenziali assassini. Personalmente non concepisco come si possa scegliere uno sport in cui ci si dà calci e pugni, ma non credo nemmeno che automaticamente chi pratica questo tipo di sport sia, anche al di fuori della palestra, un individuo necessariamente violento, come non lo sono molti boxeurs (si pensi anche, su tutte, alla figura di Muhammed Alì). Sicuramente l’aver praticato un tipo di sport simile diventa un aggravante dal momento che la violenza e la letalità dei colpi si moltiplica esponenzialmente, ma sono altresì convinta che un branco di cinque persone, muscolose e palestrate, contro una persona gracile, indifesa e per niente avvezza alla violenza, avrebbe in ogni caso portato allo stesso tragico esito, indipendentemente dall’Mma.
Quello che mi sembra essere l’elemento più lampante di questa tragica vicenda è un altro tipo di cultura, che questi energumeni palestrati incarnano perfettamente, ma che è sedimentata in una mentalità diffusa e strisciante, non solo negli ambienti di marginalità sociale, urbana e culturale. Come ha scritto la blogger e autrice femminista Rosapercaso sulla sua pagina Facebook “C’è qualcosa di pateticamente ridicolo nel modo in cui, davanti a un esempio da manuale di mascolinità tossica, tutti si affannino a dire che la colpa di un comportamento aggressivo e omicida è dell’Mma, lo sport che praticavano gli assassini. Non le ideologie destrorse, non i modi da bulli, non gli atteggiamenti da maschi alfa di quartiere o il culto della forza o la prepotenza e la violenza come stile di vita. No, la colpa è delle arti marziali e di uno sport con una sigla abbastanza fredda ed estranea da convincerci che non ci riguarda. La responsabilità non è di una società che esalta la mascolinità tossica in continuazione, che non condanna mai abbastanza la violenza maschile, perché nel fondo se n’è appropriata, nel fondo continua a esserne affascinata come alternativa alla debolezza e a una “femminilità” fraintesa e relegata ai margini di tutto ciò che trasuda forza e testosterone. La colpa non è dei modelli di maschile da cui siamo circondati, non è di un’educazione tutta sbagliata, del rifiuto di includere identità e scelte diverse e di ridiscutere il concetto di genere. La colpa non è di una società in cui tutto ciò che esula dal maschio alfa è esposto al ridicolo e alla marginalizzazione, in cui i bambini non possono avvicinarsi al rosa o alle bambole o ai gioielli se non vogliono essere bullizzati, e sanno che sarà sempre più conveniente tirare le treccine alla compagna carina che chiederle come fa a farle così bene. No. La colpa è dell’Mma, qualunque cosa significhi, meglio se c’è anche un tocco esotico, che porti la colpa e la responsabilità il più possibile lontano da noi. E dalla possibilità di cambiare le cose. È come addestrare un cane a uccidere per anni e poi sostenere che la colpa sia tutta del collare con le borchie”.
Viviamo in un sistema e in un tipo di società ancora fortemente patriarcale ed eteronormata, in cui l’uomo, per poter sentirsi e mostrarsi al mondo come tale, deve assumere i modelli regolatori, stereotipici e percettivi e rappresentativi che lo fanno percepire uomo in sé e rappresentare come tale agli occhi della comunità in cui agisce, si muove e si relaziona. L’uomo canonicamente inteso, a livello di norma e modello sociale, deve essere forte, auto-realizzato, bianco, eterosessuale, virile, possibilmente tonico, muscoloso, palestrato e bello, efficiente e produttivo (questi ultimi due aspetti in realtà sono richiesti e imposti a ogni individuo, maschio o femmina che sia, nel tipo di società capitalista come quella in cui viviamo, in cui l’imperativo è quello di produrre profitto e essere imprenditori di se stessi e della propria realizzazione personale), sicuro di sé e della propria mascolinità, che non deve mai essere inquinata né “compromessa” da ciò che è ascrivibile a tutto quello che definiamo come appartenente al mondo femminile, a sua volta strutturato e costruito socialmente e culturalmente.
L’“uomo vero” non piange, non si veste di rosa, non fa giocare i propri figli maschi con le bambole, si impressiona per un rapporto omosessuale tra due uomini, chiama froci di merda o finocchi di merda le persone omosessuali o transessuali, le denigra, disprezza, gli fanno schifo e magari le attacca verbalmente, soprattutto attraverso i social, o, nel peggiore dei casi, anche fisicamente. Odia coloro che sono ritenuti più deboli, che definisce “femminucce”, e spesso è xenofobo e razzista perché inferiorizza l’altro da sé non occidentale. La versione peggiore del maschio macho o del maschio alfa eterosessuale bianco è quella che commette violenza sia nei confronti delle donne, considerate o oggetti di consumo e piacere sessuale, o oggetti – mai soggetti in ogni caso – subalterni, deboli e inferiori o oggetti di sua esclusiva e (p)ossessiva proprietà, sia nei confronti di chi non rientra, appunto, nelle norme di virilità radicate e interiorizzate a più livelli nella e dalla società. Coloro che sono considerati “non abbastanza uomini” sono oggetto di scherno, violenza psicologica e fisica, così come oggetto di violenza, come abbiamo accennato, sono le donne, ritenute proprietà privata, oggetti di possesso esclusivo.
Sono tutte forme di (etero)mascolinità tossica, e attenzione, utilizzare l’aggettivo “tossica” (perché tale è) non vuole mirare in nessun modo a de-normalizzare qualcosa che invece, a mio avviso, pur non sfociando negli episodi più drammatici come nel caso di Colleferro, appare e viene percepita, e vissuta, come normale, anzi, è molto spesso esaltata e ostentata. Si tratta di una formazione normale, quasi naturale, alla mascolinità, da parte degli uomini che la fanno immediatamente e quasi automaticamente propria, anche attraverso l’educazione che ricevono, soprattutto da altri uomini, o comunque da soggetti, magari anche femminili, che hanno incorporato il sistema patriarcale e la stessa idea di mascolinità e virilità esaltate e ostentate.
Il sistema sociale e culturale, basato su un netto binarismo di genere ha la tendenza a sopravvalutare e normare e normalizzare come dati biologici e innati le presunte differenze psicologiche, caratteriali e comportamentali che distinguerebbero l’uomo dalla donna o dall’omosessuale e dal/dalla transessual* (soprattutto M to F, ma anche F to M), patologizzando chiunque non rientri nei modelli di binarismo di genere che abbia un orientamento non eterosessuale, che non si riconosca nel sesso assegnato alla nascita, che abbia compiuto una transizione, che abbia una sessualità cosiddetta fluida o che nasca con un sesso biologico non rispecchiante perfettamente quelli che chiamiamo caratteri sessuali primari. Eleviamo a dati biologici elementi che probabilmente sono semplicemente culturali, al massimo alcuni derivano, effettivamente da caratteristiche anatomiche (la forza fisica degli uomini ad esempio) o riproduttive diverse (la possibilità di generare una vita nel caso delle donne), ma non è scontato che la forza sia prerogativa maschile (in quanto conseguenza della potenza anatomica) e la cura e la predisposizione all’accudimento e alla pazienza (derivanti dalla possibilità di partorire) siano caratteristiche innate della donna. Credo piuttosto che abbiano assurto a elementi topici e tipici di ciò che chiamiamo maschile e di ciò che chiamiamo femminile perché si sono radicati culturalmente e perché li abbiamo interiorizzati fino a farli nostri, esaltandoli come modelli da perseguire e da riprodurre, non riuscendo più a carpire la loro origine socio-culturale e storico-evolutiva. Storica nel senso che fin dall’inizio dei tempi, gli uomini andavano a caccia (quindi usufruendo della maggior forza fisica) e le donne o raccoglievano i frutti nei campi o badavano alla prole (sviluppando quindi quello che viene definito il senso della cura), così come, se escludiamo esempi di società matriarcali, è sempre stato l’uomo, in particolare l’anziano del villaggio o della città (si pensi anche all’antica società mesopotamica, o alla società dell’antica Grecia), mentre ad esempio delle eccezioni, per citarne almeno un paio, si possono riscontrare sia nella civiltà egizia che in quella etrusca, in cui anche le mogli dei faraoni – per quanto riguarda quella egiziana – e le donne in generale avevano un ruolo piuttosto incisivo nella società), a ricoprire ruoli politici e “istituzionali” e a ricevere il rispetto e il riconoscimento della comunità.
Quindi si tratta, come direbbe Judith Butler, di praticare una performance, imitando quei modelli e quegli stereotipi, quelle norme che definiscono e rappresentano ciò che è maschile e ciò che, all’opposto (visto che i due termini vengono sempre pensati e riprodotti in maniera oppositiva e binaria) rappresenta e incarna il femminile. Riproduciamo dei ruoli, li recitiamo inconsciamente, questa performance la portiamo inconsapevolmente e automaticamente avanti ogni giorno, senza metterla mai in discussione o sottoporla a critica. È come se fosse diventata la nostra veste con cui ci rendiamo intelligibili e riconoscibili all’altro da noi, al mondo, al tu e al noi con cui ci confrontiamo inevitabilmente, essendo animali sociali. E il tu e il noi che ci implica, in cui e attraverso cui siamo implicati, si aspettano che l’uomo faccia l’uomo (rispecchi cioè i modelli, i canoni, le norme, la performance di virilità e mascolinità) e la donna faccia la donna. Chi fuoriesce da questo binarismo soffocante rischia di rimanere inintelligibile agli occhi dei più.
Qui mi ricollego all’altro tema, introdotto a inizio da articolo. Il tweet di Marco Gervasoni a commento della copertina ritraente Elly Schlein. Suddetto “commento” era: “ma che è n’omo?”, ponendo l’accento (tra l’altro anche grammaticalmente sbagliato nel caso del tweet!) sui tratti fisici non canonicamente femminili della vice-presidentessa della giunta regionale dell’Emilia Romagna, la quale ha dato una risposta molto giusta e semanticamente e contenutisticamente di gran lunga superiore a quella del docente di storia contemporanea.
“Il tweet mi pare che si commenti da solo” ha precisato la Schlein “Il problema è un altro. Ogni volta che una donna prova, in questo paese, a tracciare una prospettiva politica si prova a spostare l’attenzione su qualcos’altro. Io non mi sento una vittima. Ho posto alcune questioni politiche, sui social in tanti hanno commentato, discusso, anche litigato. Spesso il vero obiettivo dell’attacco al corpo della donna, al suo taglio di capelli, al suo vestito, sono le idee, il pensiero che quella donna prova ad esprimere. Non cadiamo in questo tranello. Poi c’è chiaramente un problema culturale enorme che va ben oltre quel tweet. Bisogna riflettere sull’educazione alle differenze, agire sulle differenze prima che diventino disuguaglianze. Mi preoccupa molto quanto le discriminazioni di genere trasversalmente colpiscano molte donne, anche non in vista e non impegnate in politica. Il lavoro di chi fa politica non è alimentare le tensioni sociali che ci sono, ma contrastarne le cause profonde. Quel disagio, quelle disuguaglianze che spesso spingono a creare tensioni e a dividere le comunità. Sbaglia chi in politica cerca di soffiare su quelle tensioni e non dice mai come vorrebbe risolvere quelle diseguaglianze” .
Soprattutto nei confronti delle donne grava la pressione sociale che impone alle stesse di rispecchiare e incarnare dei modelli fisici. Le donne devono essere belle, soprattutto “femminili”, una fisicità cosiddetta gender fluid, o androgina o “più maschile” non è considerata attraente. Ma già di per sé è errato pensare che una donna che si espone pubblicamente perché ha un ruolo politico o, appunto, in generale pubblico, debba necessariamente essere attraente, quando all’uomo politico e/o pubblico non è richiesto. Nessuno va a giudicare o criticare (forse solo in rarissimi casi) l’uomo pubblico per come si veste, per come si pettina, per come appare, mentre tendenzialmente la donna è o non è per come si mostra fisicamente e a livello di immagine. Tanto che se la si vuole attaccare o demolire non si va a criticare le idee di cui si fa portavoce, ma la sii attacca sul modo di vestire, sulla piega, sul trucco, su come appare, sull’aspetto fisico, sulla maggiore o minore “femminilità”, sui parametri di avvenenza fisica canonicamente normati e imposti.
Per quanto i due episodi non siano lontanamente comparabili, credo che alla base ci sia un sistema culturale basato su un binarismo di genere che rifiuta gli individui e le individue che non rientrano in quelle norme, estetiche, comportamentali, caratteriali, performative modellanti l’essere maschile e l’essere femminile. Tant’è che questa mentalità si è riproposta anche quando si son voluti mettere alla berlina gli aggressori di Willy, definendoli “puttanelle” o rappresentandoli in tutù di tulle. In questo modo credo che non si faccia che ribadire un concetto di machismo di cui quegli stessi aggressori sono esponenti. Credere di svilire un maschio vestendolo con abiti femminili reitera quel tipo di mentalità che vuole il maschio performativamente maschio e che quindi deve annullare qualsiasi componente femminile, che metta in discussione, sia a livello di immagine che a livello di personalità e comportamento, la propria virilità e il proprio machismo. In entrambi i casi è strisciante una mentalità che ci rende schiavi della performance e dell’estetica stessa che rende il maschile e il femminile riconoscibili e intelligibili e dunque “apprezzabili” solo se riproducono i modelli (estetici, etici, di abbigliamento, comportamentali, caratteriali ecc…) che definiscono maschile e femminile. Elly Schlein viene bollata di essere “n omo” perché non rientra nei canoni mainstream della bellezza culturalmente imposta. Le bestie di Colleferro hanno devono e hanno dovuto prendere a botte un ragazzino indifeso per ostentare la propria virilità, per essere uomini, in un concetto di “uomo”, deviato, tossico, patologico ed estremista, ma che ha purtroppo radici normate dallo stesso sistema culturale in cui viviamo. Che striscia in maniera subdola e sottile. Nessuno di noi giustificherebbe mai la violenza gratuita che questi soggetti hanno perpetrato ai danni di Willy, né direbbe che per essere uomini bisogna ammazzare di botte qualcuno. Ma quanti discorsi incitano esplicitamente alla violenza e all’ostentazione di forza quando diciamo, magari al proprio figlio “Fai l’uomo”; o “Non fare la femminuccia”, “Fatti valere”, “Non piangere” ecc. Certo, raramente chi fa simili discorsi arriva a compiere episodi di efferata violenza, ma di fatto questo stesso tipo di linguaggio reitera e riproduce una mentalità in cui siamo immersi, che quasi ci trascende, di cui siamo impastati e che riflettiamo in maniera quasi automatica. Poi nelle situazioni più gravi, come questa dalla violenza verbale e dall’ostentazione del proprio machismo si arriva a uccidere qualcuno.
Come è anche accaduto la notte tra sabato 12 e domenica 13 settembre a Caivano, dove Michele Antonio Gaglione ha inseguito e speronato, uccidendola, la sorella Maria Paola che era sullo scooter insieme al fidanzato Ciro (anche lui ferito, ma non, fortunatamente, in maniera grave), per “darle una lezione”, in quanto Ciro è un ragazzo transessuale e pertanto considerato infetto, disprezzabile e inaccettabile dal punto di vista della mentalità transomobifobica dell’omicida e probabilmente dell’humus familiare in cui la giovanissima Maria Paola è nata e cresciuta. Beffa delle beffe è che i funerali verranno officiati da don Maurizio Patriciello, parroco al Parco Verde di Caivano, che in qualche modo sembra quasi giustificare l’atto omicida commesso da Michele Antonio ripetendo le parole da questi pronunciate: “non credo che volesse uccidere la sorella, ma forse solo darle una lezione”, come se fosse cosa ammissibile e permissibile punire qualcuno perché ha rapporti sentimentali con un trans. Se la donna non fosse morta probabilmente sia il parroco, sia gran parte della comunità locale, sia la famiglia stessa di Maria Paola, avrebbero appoggiato l’atto punitivo del fratello, perché era giusto e doveroso “darle una lezione”.
Ecco, io credo che alla base di tutti questi episodi, oltre all’aggravante determinato – a eccezion fatta per il tweet di Gervasoni, che tenderei a non porre, ovviamente, sullo stesso piano – dall’ambiente in cui si nasce e cresce, dall’humus culturale e familiare che ci viene trasmesso e che inglobiamo fin da quando siamo piccoli, ricalchino una mentalità pericolosa, su cui occorre agire e intervenire. Gli episodi di Colleferro e Caivano non devono rimanere episodi isolati, ma percepiti come frutto e punta dell’iceberg di un sistema culturale che va ribaltato radicalmente, ripensato totalmente, sono frutto di una eteromascolinità tossica esaltata continuamente, sia nel discorso pubblico, che nelle pratiche del vivere comune che nel discorso politico e mediatico e nel linguaggio che riproduce, in modo quasi automatico e “naturale”, quella stessa mentalità, e di un’idea di maschio macho che, come abbiamo già ripetuto, pur non arrivando alla tragicità di queste vicende, è radicata non solo negli ambienti più marginali in cui si cresce col culto della violenza e del capobranco che tiene sotto ricatto e minaccia l’intero quartiere a forza di soprusi, ma anche negli ambienti della piccola e media borghesia, che magari oggi si indigna davanti a questi drammatici fatti ma poi insegna ai figli a fare l’uomo forte, a non farsi mettere i piedi in testa, a disprezzare ciò che appartiene, normativamente e culturalmente, all’universo femminile, a usare le pistole giocattolo e le macchinine anziché le bambole o i ferri da stiro. Che pensa che non sia abbastanza uomo colui che ha rapporti anali, quello che si veste con abiti da donna o che si trucca, cis-gender o meno che sia. Che pensa che i o le trans* non siano uomini o donne, che crede che per umiliare le bestie di Colleferro gli si debba cucire un tutù addosso. Come se fosse quello a renderli meno uomini, loro che si sentivano convintamente tali. E certo, dal loro punto di vista è umiliante, ma il problema è che lo è per tutti coloro che hanno lo stesso tipo di mentalità machista e che credono che la virilità, “l’essere uomo”, siano messi sotto scacco da un abito femminile, come se la “riduzione a femmina” di un uomo sia la più alta forma di umiliazione che ci si possa figurare. Ma se pensiamo questo, significa che da tale sistema culturale e mentale, da questa visione binaria del mondo e da questa cultura dell’“uomo vero”, non si uscirà mai e ci saranno altri Willy, altre Maria Paola e altri Ciro, a farne le spese.
Immagine da www.needpix.com
https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/09/09/willy-nelle-carte-la-ricostruzione-della-notte-dellomicidio-e-le-accuse-dei-testimoni-ecco-chi-lo-ha-materialmente-picchiato/5926509/
https://www.gay.it/elly-schlein-replica-gervasoni
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.