Ogni giorno milioni di italiane e di italiani vivono difficoltà e speranze del mondo del lavoro; spesso sono costretti a subire precarietà, instabilità economica e, per questo motivo, sono colpiti a volte da forme di vera e propria depressione. Avrebbero voglia di costruirsi una vita dignitosa con i propri familiari e amici, ma tutto ciò, spesso, si rivela solo un lontano miraggio. Il libro di Simone e Marta Fana Basta salari da fame! Laterza 2019, si rivolge a loro, attori e produttori del tessuto economico italiano che vivono spesso fuori dai riflettori. L’opera si pone come obiettivo manifesto quello di rimettere al centro la dignità del lavoro e dei lavoratori, utilizzando la lente indagatrice della grande questione salariale.
Da oltre trent’anni, infatti, è in corso un gigantesco smottamento di risorse dai salari ai profitti: rispetto alla fine degli anni Ottanta, infatti, si guadagna meno a parità di professione, di livello e di carriera. Il lavoro in Italia è diventato terreno sempre più complicato e difficile; la situazione attuale, tuttavia, non è caduta dall’alto ma è stata una precisa volontà politica. Gli autori, a tal proposito, richiamano il grande contributo dell’economista Augusto Graziani: egli, infatti, diceva che fu effettuata una scelta a favore di un modello produttivo fondato sulle esportazioni. Perché esse ci siano è tuttavia necessaria una notevole competitività del sistema paese che in Italia si regge, purtroppo, su un’accoppiata avvelenata: bassi salari e un’alta offerta di lavoratori, costretti ad accettare quasi tutto.
Ai due autori va dato il merito di ricostruire correttamente le vicende storiche riguardanti le condizioni lavorative degli italiani; ciò ci aiuta anche perché permette di afferrare alcune delle analogie che si ripetono anche a distanza di decenni. Significativa, ad esempio, è la trattazione della storia del cottimo: sembrava relegata al lavoro domestico (prevalentemente femminile) manifatturiero degli anni ’60 e ’70, invece riemerge oggi prepotentemente attraverso l’utilizzo dei ciclo fattorini (riders) che vengono pagati esattamente nelle stesse forme di quei tempi: a consegna. Questo gigantesco ritorno a forme arretrate e avare di diritti (nessuna maternità, ferie non previste, tfr assente, malattia non pervenuta) sono utilizzate per nascondere una situazione di forte subordinazione dei lavoratori (si pensi, a tal proposito, se non è una forma di subordinazione quella di poter essere geolocalizzati anche quando non si è al lavoro). Inoltre si riscontrano, anche per la magistratura spesso coinvolta, grandi difficoltà a individuare e applicare un adeguato contratto collettivo nazionale, ma anche e, soprattutto, l’estrema problematicità, per i lavoratori, di associarsi in sindacato e fare coalizione sociale. L’intento, da tempo non più nascosto, è quello di dividere e rendere pulviscolare il mondo del lavoro.
Il libro si dimostra efficace, inoltre, perché svela l’utilizzo ciclico delle crisi economiche e finanziarie per demolire diritti acquisiti e tra questi, appunto, quelli salariali: si parte da quella del biennio ‘75/’76 ossia il punto più alto per le conquiste dei lavoratori, per arrivare fino alla crisi del 2008 che condiziona ancor oggi la qualità e la quantità del lavoro in Italia.
Per comprendere le
dinamiche salariali italiane è
importante non perdere di vista la storia della scala
mobile, ovvero lo
strumento utilizzato per indicizzare i salari collegandoli al costo
della vita. Essa viene inserita nell’immediato dopoguerra ma entra
in crisi negli anni ’70 a causa dell’aumento abnorme
dell’inflazione. Simone e Marta Fana riescono a smontare un falso
mito ormai consolidato da tempo: non corrisponde a verità il fatto
che l’impennata dell’inflazione a quei tempi fosse legata
esclusivamente all’aumento dei salari, viceversa ci sono altre
ragioni indotte volontariamente e dirette a favorire la crescita
dell’inflazione stessa.
Di certo, oggi, si può ormai
affermare che tutti
i lavoratori italiani vivono in condizioni assai peggiori rispetto a
quando c’era la scala mobile.
Gli autori ricordano il decreto di San Valentino del 1984 che tagliò
di ben quattro punti percentuali la scala mobile, praticamente
rendendola ininfluente. Ben fece la Cgil a non firmare quell’accordo
con Confindustria (a differenza di Cisl e Uil), così come coraggioso
e significativo fu il referendum abrogativo proposto e poi,
purtroppo, perso dal Pci dell’ultimo generoso e energico Enrico
Berlinguer. A seguito di ciò, calerà una lunga notte sui lavoratori
italiani, che, tra l’altro, non è ancora passata. A distanza di
pochi anni, comunque, seguirà la firma del trattato
di Maastricht che
segnerà il momento in cui “la
moderazione salariale diventa pilastro di una strategia di controllo
politico delle rivendicazioni di classe”.
Si arriva, quindi, al 31 luglio 1992, data in cui viene abolita
definitivamente l’indennità di contingenza.
Il biennio ‘92/’93 sarà un vero spartiacque per i redditi da lavoro. Quest’ultimi continueranno a perdere valore ininterrottamente e ciò sarà connesso all’esplodere di acute disuguaglianze che ci riportano ai tempi in cui viviamo. È il trionfo della lotta di classe dall’alto, come già aveva anticipato il grande Luciano Gallino prendendo spunto anche dalle considerazioni di Warren Buffet, terzo uomo più ricco al mondo, che affermò che “la lotta di classe esiste da venti anni e la mia classe l’ha vinta”. Gli autori richiamano Leonello Tronti per accendere una preziosa luce sulla quota dei profitti che aumenta di ben 10 punti percentuali tra il 1992 e il 2001, rivelando un nuovo scambio politico, a favore dei profitti, che si fonda sulla compressione dei salari.
Il saggio non può esimersi dall’affrontare l’altro dogma su cui si fonda l’intero sistema ovvero la flessibilità: essa rappresenta la quintessenza del nuovo millennio che viviamo. A causa della flessibilità, tuttavia, non solo si riduce il potere contrattuale dei lavoratori ma diminuisce anche la produttività stessa, poiché le imprese si impigriscono ovvero “le si disincentiva a investire in processi innovativi e in prodotti migliori”. Queste ultime sono considerazioni assai diffuse nel dibattito accademico ma questa opera permette di ampliare l’eco raggiungendo anche le orecchie dei lavoratori e non solo.
Chi scrive apprezza gli autori anche per l’impegno e la competenza nello smentire chi ha reputato i lavoratori italiani come viziati, mammoni o, peggio, choosy. Infatti, siamo ai vertici delle classifiche europee per (necessità di) un doppio lavoro e per lavoro nei giorni festivi, come è anche confermato dai dati riportati nel libro. A ciò si può aggiungere che tra il 2011 e il 2016 si avvia una fase di ulteriore peggioramento della struttura occupazionale italiana: oltre alla progressiva deindustrializzazione (vedi casi Ilva e Whirpool, per citare le ultime vicende), gli autori colgono una scelta, da parte delle imprese italiane, di specializzarsi in settori a bassa produttività aggiunta dove è più facile conseguire profitti nel breve periodo. Questo è avvenuto anche grazie a tutte le forme di decentramento produttivo: dagli appalti ai subappalti fino a tutte le forme di esternalizzazioni, sono stati molteplici gli strumenti per ridurre salari e diritti che, talora in ritirata, sono ancora presenti nei contratti collettivi.
Inoltre, corrisponde al
vero, come scrivono i due autori, che i contratti
collettivi, sebbene
rappresentino l’80% dei lavoratori italiani, in alcuni casi non
riescono più a contenere l’intero mondo del lavoro salariato.
Innanzitutto sarebbe necessaria e urgente, come da tempo chiede la
Cgil, una legge
sulla
misurazione e la
certificazione della
rappresentatività sindacale,
in modo da eliminare i tristemente famosi contratti
pirata,
sottoscritti tra imprenditori e sindacati che spesso non hanno alcuna
rappresentanza. Grazie a questi contratti, vi è perfino la
possibilità di aggirare e derogare in peius la legge utilizzando
anche lo strumento giuridico fornito dall’articolo 8 del D.L. n.
138/2011 (convertito in legge dalla l. n. 148/2011).
Tuttavia,
c’è da considerare anche quella parte di lavoratori in aumento,
della gig economy
e non solo, che sfuggono alle maglie dei contratti collettivi.
L’utilizzo
surrettizio delle forme di autonomia
ha fatto smarrire ogni senso di ciò che era stato consolidato in
giurisprudenza e di ciò che era presente nello stesso codice civile.
Ecco perché Simone e
Marta, propongono il salario
minimo quale
strumento aggiuntivo per dare sostanza e “pavimento” sul quale
(ri)costruire la casa dei diritti del lavoro.
Gli autori
ricordano come la prima proposta di salario minimo in Italia
provenisse da Giuseppe Di Vittorio, Teresa Noce e Vittorio Foa,
ovvero i rappresentanti in parlamento del movimento operaio.
Attraverso questa proposta di legge si voleva aprire una nuova pagina
progressiva e di sviluppo per l’Italia del 1954. È,
quindi, una proposta da sempre di sinistra, che, unitamente alla
riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, aiuterebbe
non solo a ridare dignità alle retribuzioni dei lavoratori ma
potrebbe anche risollevare i deboli consumi (anche quelli primari) in
Italia, ormai fermi da tempo.
È
cosa davvero apprezzabile che gli autori reputino il
contratto collettivo e il salario minimo quali strumenti
complementari e non
alternativi tra di loro. In questo modo, si escludono quelle proposte
sul salario minimo che provengono da una forza di governo (M5S)
e che sembrano finalizzate anche per prefigurare il superamento dei
sindacati e di tutte le organizzazione intermedie.
Simone e Marta Fana hanno scritto un saggio importante e dal forte impatto militante e mobilitante; chissà se a sinistra ci sarà chi coglierà la palla al balzo per provare ricostruire un soggetto politico del lavoro riprendendo e innovando culture e pratiche delle quali siamo orfani, purtroppo, da troppi anni.
Copertina Edizioni Laterza (dettaglio)
A volte giurista, a volte demodé, sicuramente un lavoratore, certamente un partigiano.