Trovare la verità sulla morte dei nostri connazionali all’estero appare come un’impresa sempre più ardua.
Il brutale omicidio di Giulio Regeni in Egitto nel 2016 ha scosso profondamente l’opinione pubblica. Le bugie, il silenzio e i depistaggi delle autorità egiziane hanno alimentato una campagna per chiedere verità e giustizia, promossa da Amnesty International, che ha avuto un grande successo. Ma in questi quattro anni e mezzo ha sempre prevalso un atteggiamento di enorme cautela: non si volevano deteriorare i rapporti diplomatici con l’Egitto, entrato da circa 7 anni in una nuova fase politica. La presa del potere con un colpo di stato da parte del generale al-Sisi ha certamente riportato un po’ di stabilità in un paese che sulla scia delle Primavere Arabe era sull’orlo della guerra civile, ma al costo di una feroce dittatura militare della quale Regeni è solo una delle tante vittime innocenti.
La normalizzazione dei rapporti con l’Egitto ha anche delle motivazioni squisitamente economiche. L’Egitto è un partner commerciale importante e soprattutto compra le nostre armi. Da questo punto di vista la recente vendita di due fregate al governo de Il Cairo rappresenta una chiara indicazione sulle scarse possibilità di avere delle risposte credibili sull’omicidio di Regeni. Il tutto assume degli aspetti grotteschi se si pensa che sullo scenario libico l’Egitto è un sostenitore del generale Haftar mentre l’Italia è dalla parte del governo di Tripoli presieduto da al-Serraj. Proprio il 20 luglio scorso, il Parlamento egiziano ha dato il via libera per un intervento militare in Libia a favore dell’uomo forte della Cirenaica: in sostanza vendiamo navi da guerra all’esercito egiziano che è impegnato ad aiutare la fazione avversa a quella del nostro alleato in Libia.
Insomma, se con l’Egitto, che è pure nostro competitor nel Mediterraneo, preferiamo fare affari invece che pretendere la verità su Regeni e la scarcerazione dello studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki, allora sembra difficile ipotizzare che di fronte a un caso simile a quello di Giulio si possa facilmente arrivare a una verità.
L’omicidio di Mario Paciolla appare da questo punto di vista tristemente emblematico. Non solo tutto lascia pensare che anche in questo caso non si arriverà mai a una verità convincente, ma si è costretti a constatare persino la mancanza di un’adeguata copertura mediatica che aveva almeno caratterizzato la vicenda di Regeni.
Il fatto che di questo terribile omicidio se ne parli così poco ha probabilmente a che fare con lo status della Colombia, paese dove Paciolla operava in qualità di operatore dell’ONU e dove è stato assassinato lo scorso 15 luglio. Il Paese sudamericano non è meno pericoloso, ingiusto e corrotto dell’Egitto, ma è un paese liberista alleato di Washington che mantiene le parvenze puramente formali di un regime democratico. Se l’Egitto di al-Sisi non poteva essere messo troppo sotto pressione, la Colombia di Iván Duque Márquez sembra che non possa nemmeno essere toccata.
Mario Paciolla era incaricato di osservare e valutare il compimento degli accordi di pace tra Governo colombiano e FARC, ratificati a fine 2016. Un professionista qualificato e profondo conoscitore delle dinamiche che caratterizzavano la realtà di San Vicente del Caguán, nel Dipartimento del Caquetá, regione selvaggia della Colombia meridionale. Si tratta di una zona caratterizzata dalla scarsa presenza delle istituzioni, per anni terreno di scontro fra guerriglieri delle Farc da una parte e bande paramilitari ed esercito regolare dall’altra e oggi uno degli epicentri di violenza della Colombia con la continua uccisione di leader sociali e attivisti locali in un contesto di radicamento dei cartelli del narcotraffico[1].
Gli accordi di pace fra Stato colombiano e Farc del 2016, sebbene celebrati in tutto il mondo, stanno sostanzialmente fallendo per l’incapacità del governo (o più probabilmente per la scarsa volontà politica) di fornire protezione agli ex guerriglieri che hanno deciso di abbandonare la lotta armata e ai contadini e indigeni continuamente vessati e minacciati dalle bande paramilitari di estrema destra, in combutta con ampi settori dello Stato e con i cartelli dei Narcos.
Gli accordi di pace dovevano infatti prevedere una riforma agraria a vantaggio dei piccoli contadini e lo smantellamento, parallelamente a quello delle Farc, anche dei gruppi paramilitari anticomunisti. Ma ciò non sta avvenendo e in tutta la Colombia, non solo nel Caquetá, si assiste a un massacro con cadenza giornaliera di ex combattenti, leader sociali e attivisti tanto da spingere alcuni ex membri delle Farc a riprendere la lotta armata, non tanto per convinzione ma come unico modo per proteggere la propria vita.
Nella Colombia di oggi i reati di sangue restano impuniti, regna il terrore e il clima di omertà è totale. Per chi per anni ha imputato ogni violenza alla guerriglia comunista, di fronte a una scia di omicidi sempre più copiosa, l’imbarazzo è grande e si cerca di far passare tutto sotto traccia, come si evince anche dallo scarso interesse dei media occidentali sulla violenza endemica colombiana. La narrazione tossica dei cattivi comunisti contro il governo impegnato nella promozione della pace e della democrazia è una bufala surreale ma non deve essere sovvertita[2].
Paciolla, fra le altre cose, si stava impegnando nella realizzazione di progetti di reinserimento sociale di ex combattenti, attirandosi con ogni probabilità le ire dei gruppi criminali che agivano nella zona e che avevano come bersaglio prediletto proprio gli ex combattenti e i leader sociali che difendevano il territorio dal malaffare e dai grandi interessi economici. Si può facilmente ipotizzare come Paciolla desse fastidio a molti in quella regione della Colombia.
Lo scorso 22 luglio sul quotidiano El Spectador[1], la giornalista Claudia Julieta Duque, che con le sue inchieste ha cercato di fare luce su vicende di corruzione e spionaggio e alleanze criminali tra agenti dello Stato e gruppi paramilitari, scrive un articolo che denuncia il silenzio dell’ONU sulla morte di Paciolla, che la giornalista conosceva bene. Duque riferisce di come Paciolla fosse fortemente critico sull’operato della Missione ONU di cui faceva parte e riporta come avesse avuto un diverbio con i suoi superiori poco prima di morire, affermando che fosse profondamente infastidito dal rapporto opaco fra responsabili ONU e i vertici della polizia e dell’esercito colombiano nonché del poco interesse verso gli omicidi sistematici perpetuati a danno degli ex guerriglieri.
Sono comunque molti i giornalisti che stanno denunciando i silenzi e le dichiarazioni vaghe dell’ONU e delle autorità colombiane sul caso[3]. Ancora oggi si attendono i risultati delle due autopsie effettuate sul corpo di Paciolla, una il 17 luglio presso l’Istituto di Medicina Legale del Caquetá e l’altra in Italia il 24 luglio, una volta che è arrivato in Italia con una consegna di segretezza assoluta, elemento quest’ultimo che non ha fatto altro che alimentare ancora di più i sospetti e gli interrogativi su una vicenda indiscutibilmente torbida[4]. Se a questo di aggiunge che a inizio agosto è arrivata la notizia che la Procura Generale colombiana ha messo sotto inchiesta 4 agenti della polizia di San Vicente del Caguán perché avrebbero permesso a dipendenti della missione di verifica dell’Onu di portare via gli effetti personali di Mario Paciolla dalla sua abitazione alterando così la scena del delitto, il quadro assume tratti davvero inquietanti.
Il caso Regeni ci ha insegnato che i governi italiani prediligono la stabilità dei rapporti diplomatici sulla voglia di verità per i propri cittadini assassinati in circostanze poco chiare. Anche se la Farnesina mostrasse una sincera volontà, fermezza e impegno per trovare risposte alla morte di Paciolla, difficilmente sarebbe disposta a creare incidenti diplomatici e a provare di scoperchiare il vaso di Pandora di interessi, delle connessioni e dei retroscena che hanno portato alla morte dell’operatore ONU.
Da una parte le autorità delle Nazioni Unite sono risultate fin da subito inerti, hanno rilasciato unicamente dichiarazioni vaghe e alimentato il sospetto di non voler far chiarezza su una vicenda che potrebbe portare allo scoperto retroscena in grado di mettere in serio imbarazzo la Missione ONU in Colombia. Dall’altra, le stesse autorità colombiane non hanno nessun interesse a portare a galla una verità che potrebbe mettere in luce i rapporti torbidi fra narcos, paramilitari e politica.
La Colombia è per molti aspetti uno Stato fallito, ma Washington e i suoi alleati hanno la necessità di propagandare un immagine positiva, democratica, liberale e sicura della Colombia. Il paese è infatti da anni il principale e più affidabile baluardo conservatore contro i governi di sinistra in America del Sud ed ha un ruolo decisivo in chiave anti-venezuelana. Sono per citare un recente fatto eclatante, l’ “operazione Gideon” del 3 maggio scorso, un incursione di mercenari in stile Baia dei Porci che aveva l’intento di rapire con un blitz il Presidente Maduro, è stato pianificato e organizzato in territorio colombiano. La Colombia rappresenta l’imprescindibile testa di ponte per muovere la guerra economica e destabilizzare con incursioni paramilitari il confinante Venezuela.
Se l’Egitto non poteva rischiare di essere destabilizzato, la Colombia appare proprio intoccabile. Scavare sulle circostanze che hanno portato alla morte di Mario Paciolla significherebbe con ogni probabilità portare in superficie gli intrecci di potere che hanno dato vita a un delicato equilibrio politico fondato sul caos controllato e sulla violenza endemica. Implicherebbe mettere in luce l’ipocrisia di una classe politica che si è presa le lodi da ogni angolo del mondo per gli accordi di pace con le Farc ma che non ha nessuna intenzione di implementarli, lasciando alla mercé di sicari e paramilitari ex combattenti e leader sociali che non possono più difendersi. Significherebbe in sostanza creare un danno all’immagine di un paese che deve essere visto come alternativa positiva e vincente al modello venezuelano. La verità sulla morte di Mario Paciolla si scontra contro il muro di granito della realpolitik.
Immagine da napoli.repubblica.it
[1] https://www.tpi.it/esteri/mario-paciolla-ucciso-perche-reportage-da-colombia-20200726641116/
[2] Per una breve disamina sulla violenza in Colombia ieri e oggi: https://www.ilbecco.it/la-guerra-alla-societa-in-colombia-ieri-e-oggi/
[3] Vedi https://www.lavocedinewyork.com/onu/2020/07/27/morte-mario-paciolla-in-colombia-le-tante-domande-e-il-silenzio-dellonu/
[4] Come illustra schematicamente Gennaro Carotenuto http://www.gennarocarotenuto.it/28646-perche-ai-media-non-interessa-mario-paciolla/
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.