Come è noto, nel 2021 ricorrerà l’anniversario dei settecento anni dalla morte di Dante, deceduto appunto nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Molte saranno infatti le iniziative culturali volte a celebrare il poeta nel prossimo anno: da Firenze a Ravenna, manifestazioni ed eventi d’arte e cultura realizzate tra i luoghi che hanno segnato la sua biografia, saranno dedicati al ricordo e alla promozione della memoria dantesca.
Ma, in fondo, ha ancora senso dedicarsi a Dante, e in generale ai classici della letteratura italiana e straniera, o non si tratta piuttosto di un anacronistico esercizio di stile?
L’insegnante e filologo Claudio Giunta, interrogandosi proprio sull’attualità della Commedia, inizia, nel suo saggio Perché uno dovrebbe leggere Dante?[1], partendo paradossalmente dalle tesi che avvalorano la prospettiva opposta, ovvero l’insensatezza di dedicarsi alla lettura di un testo lontano da noi per stile, per difficoltà formali e per l’abisso storico-culturale che ci separa da essa. Quella della Divina Commedia, afferma provocatoriamente Giunta, è ormai «una lettura per eruditi alla stregua… come tanti vecchi libri che fingiamo di amare perché ci hanno detto che è indispensabile amarli»[2] La stessa dimensione teologica-dottrinale di fondo dovrebbe portare il lettore moderno, caratterizzato, come ha affermato Charles Singleton, proprio da “un’indifferenza per la salvezza”, a un naturale distacco dal senso della Commedia.
Eppure, nonostante queste, legittime, premesse, l’autore riesce a ribaltarle e a proporne una visione alternativa per cui la Divina Commedia segna e permea visceralmente anche il nostro orizzonte di esperienza: il senso di smarrimento, di straniamento affascinante che coinvolge subito il lettore fin dai primi versi dell’opera, lo spinge ad addentrarsi nei suoi versi che gli rivelano che, tra le altre cose, prima ancora della Trascendenza, si trova davanti a sé, e quasi tocca con mano, il viaggio di un uomo pervaso da moti interiori, da umanissimi contrasti di ira e gioia mentre vaga in luoghi cupi o paradisiaci, tra gli abissi infernali o le vette celesti; il lettore, in questo modo riesce a percepire allora la storia di Dante non solo come allegorica, ma come umana e individuale, rimanendone coinvolto e appassionato.
È allora forse proprio questa identificazione segnata dalla distanza (appunto formale, temporale, dottrinale), che spinge ancor più chi legge dal desiderio di colmarla, di “trascendere “da se stesso per immergersi nella forza narrativa, ma anche nella difficoltà di un Poema che riesce ancora oggi a trascinare per la sua capacità immaginativa, per essere riuscito a dare corporeità realistica al simbolismo astratto, per aver dato vita a personaggi e situazioni che oltrepassano la lontananza temporale.
In quest’ottica Dante è attuale, e basti ricordare, oltre alle celeberrime illustrazioni fatte nell’Ottocento alla Commedia da Gustave Doré, che solo pochi anni fa (nel 2015), è uscito negli Stati Uniti addirittura un videogioco sull’inferno dantesco, chiamato appunto Dante’s Inferno, per non parlare di tutti i rimandi alla Commedia da parte della letteratura successiva (da Eliot a Pound per citarne solo alcuni tra i maggiori poeti contemporanei), al cinema, alle arti.
Come ci ricorda però Giunta, apprezzare Dante implica uno sforzo, non un automatismo per cui è possibile approcciarsi ad esso senza assecondare una tensione interiore che porta il lettore, come suddetto, a voler conoscere e capire certi aspetti (di forma e sostanza) che altrimenti gli resterebbero sconosciuti. E la medesima tensione conoscitiva, il medesimo stimolo a superare le difficoltà perché spronato dal piacere della lettura di un testo, il lettore lo ritrova nella lettura dei classici in genere.
Come scrive Italo Calvino nel saggio Perché leggere i classici[3], «un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso», proprio perché nello stesso tempo vi si scopre qualcosa che avevamo sempre saputo e contemporaneamente «quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti»[4]. Insomma, è classico ciò che permette al lettore odierno di avvertire, al di là dei riferimenti coevi all’opera e dunque per lui inattuali, «il persistere di un rumore di fondo anche dove l’attualità più incompatibile fa da padrona»[5].
Quando chi legge si approccia a Anna Karenina, Delitto e Castigo, le poesie di Giacomo Leopardi, fino alle Epistole Morali a Lucilio di Seneca o all’Odissea, solo per citare alcune tra le maggiori opere che ancora oggi appassionano, avverte dunque il senso immortale di opere che parlano di noi sconfinando dal loro tempo, e che insieme richiedono, però, un implicito sforzo cognitivo e culturale per il loro essere, come dicevamo, da una parte fuori dal tempo e dunque sempre attuali, ma dall’altra pienamente inserite nella loro realtà storica: amare Anna Karenina, per fare un esempio, non significa per forza conoscere le vicende sociali della Russia dell’Ottocento, ma vuol dire trovare, grazie al piacere dato dalla lettura, lo stimolo per coglierne anche lo spessore storico-culturale.
Riallacciandosi a quanto suddetto per la Divina Commedia, insomma, il piacere dei classici porta con sé un desiderio di complessità, il bisogno di sconfinare dalla propria realtà immediata per afferrarne un’altra che sì ci fa da specchio, ma, allo stesso tempo, ci conferisce, involontariamente, un’attitudine alla profondità.
È allora forse proprio questo il senso ultimo del “perché leggere i classici”, ovvero il desiderio non di essere “altro da sé”, e dunque la pura evasione che letture più leggere possono portare, ma di essere “più di sé”: è proprio tale desiderio, desiderio freudianamente inteso come struttura, pulsione primaria che sta alla base dell’agire umano, che scardina la narrazione dell’uomo contemporaneo appiattito alla dimensione del consumatore che trova nell’orizzonte quotidiano la sua unica prospettiva di significazione.
Se infatti il consumatore, legittimato e condizionato dalla società liberista del proprio tempo, vede nell’oggi la sfera temporale primaria in cui esprimersi ed indirizzare i propri bisogni immediati, il lettore di classici riesce a sfatare l’appiattimento monodimensionale imposto dalla realtà storica e sociale in cui è chiamato a vivere, opponendogli un tipo di desiderio che trova appunto realizzazione esclusivamente nella tridimensionalità a cui lo conduce la lettura dei classici.
Come scriveva Zygmunt Bauman nel saggio Il disagio della postmodernità[6], parlando di quella attuale come di una società liquida, il principio di piacere, inteso come piacere consumistico e individuale, ha condotto a una crisi dei valori morali che fino all’avvento del liberismo sfrenato avevano rappresentato una cornice di senso per gli individui delle passate epoche storiche. Tale piacere, continuava però lo scrittore, si era però involuto su se stesso arrivando ad essere più una “coazione al piacere”, che non puro desiderio, ed auspicava infine il ritorno del principio di realtà come baluardo di difesa ad esso.
Facendo nostre le parole di Bauman, possiamo altresì aggiungere, tornando al discorso dei classici, che, oltreché ritrovare un principio di realtà morale che faccia da sovrastruttura a una struttura economica meno distorta e iniqua, la coazione al principio di piacere potrebbe essere sostituita, non tanto dal principio di realtà, quanto da un diverso e alternativo principio di piacere, ovvero appunto quello dell’amore per i classici. Tale tipologia di amore, scaturito ugualmente dal desiderio e dunque dal piacere, permetterebbe all’uomo di sentire come primario e naturale il desiderio non più dell’acquisto delle merce e dell’effimera soddisfazione derivata da esso, ma della conoscenza intesa come anelito alla complessità e alla tridimensionalità…
Tale tensione porterebbe l’individuo a sentire il bisogno di uscire da una cultura dell’oggetto fondata su un presente perenne e a ricercare una realtà socio-culturale che gli permetta di abbracciarsi nella sua storicità di persona inserita nel tempo, e non inghiottita da esso.
Il principio di piacere così inteso metterebbe quindi in crisi i presupposti che stanno alla base della società liberistica e contribuirebbe all’edificazione di una società che non solo potrebbe riscoprirsi etica, ma profondamente trasformata sul piano della sua struttura economica di stampo capitalistica, che “nientifica” l’individuo oggettivandolo, in quanto mossa alla base da un opposto anelito di soggettivazione, che non troverebbe più nel mero consumo la sua fonte di soddisfazione.
Ecco che, allora, il valore dei classici può essere proprio questo: ricordare all’essere umano quale sia il suo nucleo più autentico, attraverso una rielaborazione del proprio desiderio inteso nella sua accezione letterale, come “mancanza delle stelle”.
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Claudio Giunta, Perché uno dovrebbe leggere Dante?, su Internazionale, 15 marzo 2015 ↑
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Claudio Giunta, ibidem ↑
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Italo Calvino, Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991 ↑
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Italo Calvino, ibidem ↑
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Italo Calvino, ibidem ↑
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Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, Polity, 1997 ↑
Immagine: acquerello di William Blake per la Commedia di Dante, 1824 ca (dettaglio)
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.