L’Italia del settore turistico è pronta a ripartire e sono subito iniziate le lamentele degli imprenditori sulla mancanza di lavoratori stagionali che, a loro dire, preferirebbero stare a casa con il reddito di cittadinanza piuttosto che farsi la stagione lavorativa. L’abolizione del sussidio è vista da loro come unico modo per incentivare i “pigri” ad accettare un lavoro estivo. D’altro canto, gli stagionali denunciano condizioni di sfruttamento indecenti, con paghe bassissime e turni massacranti. Difficile accettare di lavorare spesso più di 12 ore al giorno per poche centinaia di euro.
Ma allora mancano i lavoratori o manca il lavoro di qualità?
Leonardo Croatto
Nel 2019 la soglia di povertà relativa per una famiglia di due persone era stimata dall’ISTAT in 1.094,95 euro. Una famiglia di due persone che spende ogni mese meno di questa cifra vive in condizioni di povertà, non riesce a provvedere alle proprie necessità minime.
Calcolando, sempre con gli strumenti disponibili sul sito dell’ISTAT, l’indice di povertà assoluta determinato per una coppia di due persone con un figlio o una figlia che frequenta la scuola primaria in una città metropolitana del centro italia, la cifra sale a 1330 euro. Questo numero misura il valore dei beni e servizi considerati essenziali: se la spesa mensile è inferiore la famiglia è considerata assolutamente povera.
Dati questi parametri non è difficile immaginare che l’offerta di un lavoro part-time di poche ore settimanali, magari facente riferimento ad un CCNL pirata, non rappresenti nemmeno lontanamente una possibilità di affrancamento dal disagio.
Se il degrado delle condizioni lavorative diventa epidemico, se, cioè, la maggior parte dei lavori disponibili sul mercato sono tali da non consentire ad una famiglia di stare sopra la soglia di povertà, è evidente che il problema riguarda l’intero sistema produttivo e il combinato delle norme che regolano le relazioni dell’impresa con lo stato e con i propri dipendenti. Serve molta ingenuità (o molta malafede) nell’immaginare che il reddito di cittadinanza possa avere un ruolo prevalente nell’incapacità delle imprese di offrire posti di lavoro di qualità.
La lista delle cause del fenomeno del lavoro povero è lunghissima, ma certamente queste non sono ignote; isolare tra queste il reddito di cittadinanza e attribuirgli una prevalenza è un’azione che serve a distogliere lo sguardo da altre ben più importanti: si colpevolizzano i soggetti più fragili per togliere dai riflettori le responsabilità della classe dirigente del paese.
E’ una forma di vittimizzazione secondaria: lo stato e i datori di lavoro sono responsabili dell’impoverimento del lavoro, ma sotto accusa finisce chi l’impoverimento del lavoro lo subisce. Ammesso che il fenomeno del rifiuto del lavoro esista davvero nelle dimensioni riportate dalla stampa in queste ultime settimane, chi sceglie di rifiutare un impiego che non gli consente di sopravvivere attiva un’azione di conflitto assolutamente legittima, che anziché essere condannata dovrebbe essere incentivata ed assistita.
Da quando rifiutarsi di lavorare, interrompere l’accumulo di capitale sul capitale, per rivendicare salario e diritti è diventato un disvalore?
Piergiorgio Desantis
Su quasi tutti i quotidiani campeggiano polemiche vuote circa la mancanza di camerieri e lavoratori pronti allo sfruttamento per la stagione estiva. È assai facile vedere che un salario pari a 3 o 4 euro all’ora sia assai poco invitante per chiunque, tanto più per 3 o 4 mesi. Il reddito di cittadinanza, provvedimento voluto dal M5s, che pure conteneva lacune e difficoltà ha scoperchiato il vaso di Pandora del lavoro in Italia. Un lavoro, tra i più precari in Europa, con i salari tra i più bassi. Il problema non è dunque il lavoro sfruttato e sottopagato ma sono i lavoratori. Facile capo espiatorio di una situazione drammatica economica e sociale che si affida al turismo per far finta di tornare allo status quo ante. Si avvertono tutti gli scricchiolii di una situazione difficilissima. Chissà che ci possa essere,prima o poi, un cambiamento di paradigma.
Francesca Giambi
Sono ripartite le attività e soprattutto il turismo e sono nel contempo ripartite le polemiche contro il reddito di cittadinanza ed i giovani che non voglio lavorare… Ma di cosa stiamo parlando? Il problema del lavoro non è certo l’interesse maggiore di questo governo che ha avvallato tutte le scelte scellerate dell’era Renzi, tanto per non citare nessuno, abolendo i diritti e facendo diventare il lavoratore una mera merce di scambio… I sindacati non sono più seguiti… forse perché ritenuti ideologicamente del secolo scorso, di una ideologia che non “va più”…
Purtroppo assistiamo ad una guerra tra ceti bassi… ad una guerra tra tutelati e non tutelati.Aumenta il precariato, i contratti fittizi, aumenta il lavoro nero.
Ora se qualche persona attraverso il reddito di cittadinanza riesce a sopravvivere quale disagio comporta a chi guadagna molto bene con le sue imprese?
Il problema nodale è forse che gli imprenditori, i datori di lavoro sono a volte (spesso?) improvvisati… e non curano quelle che sono le sfide di questo millennio; puntano a guadagni facili non preoccupandosi della qualità del lavoro.
Il problema è che i giovani rifiutano 300 euro per 40 ore di lavoro? Si trova giusto questo? Qui a Firenze, patria del Rinascimento, ci siamo riempiti di locali e per i giovani forse a volte questo era l’unico lavoro da trovare. Un turismo fatto di sfruttamento.
Per non parlare delle guide turistiche, spesso sostituite da inventate cooperative.
Non ci stiamo preoccupando del lavoro e di quanto importante sia soprattutto per gli anni a venire…
Vogliamo continuare così? Vogliamo continuare, con cifre alla mano a discutere del blocco dei licenziamenti? Togliere l’articolo 18 è stato il primo gravissimo errore, ma non siamo diventati più smart e capaci… anzi la qualità dei prodotti e la qualità dei luoghi di lavoro sono rimasti gli stessi, se non a volte peggiorati.
Basta con stage gratuiti o tirocini, si deve arrivare ad un salario minimo per poter riprogrammare tutto il mondo del lavoro. Ci vogliono degli imprenditori “sani” che amino il loro settore e che non vogliano solo arricchirsi, che considerino le attuali proposte stagionali di lavoro come “indecenti”, “schiaviste”.
Basta sfruttamento e ancora di più basta lavoro nero!
Dmitrij Palagi
Ci può essere lavoro senza imprese? Un tempo la domanda non sarebbe suonata tanto assurda, nel dibattito pubblico, ma invece la Repubblica italiana sembra essere fondata sulla libera attività dell’economia privata.
Uno degli aspetti rimossi dal dibattito su chi preferisce stare sul divano senza fare niente è la condizione psicologica dei soggetti interessati da questa caricatura: davvero si pensa che una persona senza lavoro stia bene, nell’Italia di oggi, contornata da stereotipi e con uno stigma pronto a segnare la quotidianità?
L’incertezza del futuro e l’umiliazione in molti luoghi di lavoro sono una priorità di cui dovrebbe occuparsi la politica, o almeno una sua parte, accettando che tante realtà imprenditoriali non sono in grado di sopravvivere senza quel contesto di illegalità in cui si va avanti specialmente nel settore turistico e ricettivo.
Prendersela con la parte più debole della catena dovrebbe sempre essere una pratica inaccettabile: per adesso non ha grande visibilità la figura di chi preferisce lavorare a nero, rendendosi complice della parte datoriale. Esistono queste persone, che provano a mettere insieme le loro necessità con i pochissimi strumenti a disposizione.La narrazione del sistema è fastidiosa, riporta aspetti tra loro in evidente contraddizione: in queste ore stanno uscendo i dati sull’aumento dei costi degli immobili in affitto per il periodo estivo. Andare in vacanza è un diritto, si dice, così come andare a mangiare una pizza fuori: le piazze sono state attraversate da movimenti con queste parole d’ordine, con minore visibilità rispetto a quella che viene data a chi lotta per il diritto a un salario e un lavoro da svolgere con dignità.
Jacopo Vannucchi
Si sta aprendo la terza estate da quando è entrato in vigore il reddito c.d. “di cittadinanza” (in realtà una forma estremamente blanda di reddito minimo garantito). Tornano, come sempre, le polemiche sul lavoro che non si trova e sugli stagionali che preferiscono avere qualche centinaio di euro in meno piuttosto che lavorare.Il male è che solitamente si odono soltanto due voci. Il mondo imprenditoriale, con annessi referenti politici, piange senza troppo pudore la carenza di manodopera a basso costo. Un altro gruppo dai contorni meno nitidi, ma non sempre meno sguaiato, plaude invece al sussidio. Perché plaude? Una minoranza forse ritiene davvero che alla lunga vi sarà un effetto di rialzo dei salari (“alla lunga siamo tutti morti”, per citare Keynes). Per la maggioranza, però, l’impressione è che si tratti di un’esultanza istintiva, una piccola esplosione di soddisfazione per un atto di ribellione sociale.
Una ribellione da jacquerie, s’intende: evito di spaccarmi la schiena per una paga umiliante e con quei pochi soldi che mi passa lo Stato (magari arrotondati con qualche lavoro nero) resto a galla per la stagione estiva.
Ciò che manca in tanti schiamazzi è una voce che rappresenti degnamente il lavoro. Alcune attività se non riusciranno a trovare manodopera semplicemente chiuderanno, tanto più dopo il terribile 2020. Estendendo queste dinamiche negli anni a venire, e specialmente con la durissima competizione iniziata fra le grandi potenze economiche, l’Italia sarebbe ridotta a una sorta di repubblica delle banane (agricoltura, turismo, criminalità organizzata), però con la piramide demografica rovesciata.
La voce del lavoro è assente, ahimè, anche dal dibattito sul blocco dei licenziamenti. Sentiamo solo due alternative: cassarlo, ognun per sé e il mercato per tutti; tenerlo noncuranti del depauperamento produttivo. Pressoché nessuno si pone il problema di creare lavoro riavviando il ciclo economico e costruire maggiori tutele per chi il lavoro lo ha perso o lo perderà.Nel capitolo XXXIV de “I promessi sposi” uno dei monatti che hanno fortunosamente salvato Renzo dal linciaggio esulta sulla carretta dei cadaveri con un fiasco di vino e le parole «Viva la morìa, e moia la marmaglia!». Il rischio è che questo grido diventi lo slogan di ciò che un tempo si chiamava sinistra.
Alessandro Zabban
È davvero nauseante sentire gli imprenditori lamentarsi di non trovare lavoratori da sfruttare. Abbiamo assistito a datori di lavoro che se la prendono con gli stagionali che al colloquio di lavoro hanno l’insolenza di chiedere quale sia la paga o l’orario. Per molti padroni le paghe da fame devono diventare una nuova normalità e chi se ne lamenta è perché preferisce rimanere un parassita dei sussidi statali. Ma se molti lavoratori preferiscono il reddito di cittadinanza è perché hanno la dignità di dire di no a condizioni di lavoro umilianti e a compensi spesso persino più modici del reddito di cittadinanza stesso. Per ripartire l’Italia punta ancora sul basso costo del lavoro e sullo sfruttamento invece che sulla qualità del lavoro e sullo stimolare la domanda interna. Poi si lamentano anche che i giovani vogliono lasciare l’Italia alla ricerca di condizioni lavorative migliori. Proprio per invertire la rotta e per interrompere la piaga sociale del lavoro in condizioni semischiavistiche, occorre non solo rilanciare ed estendere il reddito di cittadinanza ma soprattutto legiferare su una misura di civiltà che la nostra classe politica non ha ancora voluto partorire: un salario minimo decente che elimini quantomeno le forme più evidenti di sfruttamento e che porti a un necessario aumento dei salari nelle fasce medie e basse della scala sociale.
Immagine da www.flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.