Dopo i social forum ed il breve periodo di fama dell’ALBA ancora una volta il Brasile, uno Stato immenso e attraversato da profonde contraddizioni, si trova al centro dell’attenzione della politica mondiale, ma purtroppo non in positivo. Le presidenziali hanno infatti visto affermarsi un candidato dichiaratamente autoritario e nostalgico della brutale dittatura militare. Nulla hanno potuto la rimonta del candidato PT Haddad e le mobilitazioni sociali degli ultimi giorni. Delle nubi che si addensano sul Brasile e sull’America Latina in generale parliamo questa settimana, a più mani.
L’eredità della micidiale campagna anticomunista che nel XX secolo ha insanguinato l’America Latina è come un incubo da cui non sembra dato svegliarsi. Bolsonaro, fino a poco tempo fa un parlamentare conosciuto principalmente per le sue dichiarazioni contro sostanzialmente chiunque non sia maschio e di estrema destra, un trasformista transfugo di un numero impressionante di partitelli, nel suo personaggio grottesco non sorprende, specialmente in un clima già avvelenato dalla rimozione di Rousseff e dalle difficili condizioni economiche in cui versa il Paese.
Sorprende di più, o almeno dovrebbe, la persistenza dell’ottuso autolesionismo della sinistra istituzionale e diffusa a livello internazionale (e degli eredi del liberalismo in generale), incapace di non invischiarsi in massacri fratricidi per questioni oscure ai non addetti ai lavori, anche quando si tratta di costruire una massa critica per la mera democrazia (salvo svegliarsi in extremis). Non è raro trovare nella produzione culturale brasiliana di sinistra di questo ultimo decennio, addirittura in quella minima parte che è stata tradotta in italiano, critiche distruttive nei confronti del PT e dei governanti da questo espressi, critiche che ancora più facilmente si ritrovano nelle ultime annate di stampa progressista italiana. Meno semplice trovare una realistica consapevolezza di come le cose potrebbero essere altrimenti, di come, oltre e all’opposto delle dispute parrocchiali tra rossi, rossoverdi e rossissimi e tra questi e le piazze esista un male ben più radicale, in attesa di un vuoto da colmare.
In un Continente come il nostro, in cui il dramma assume toni forse un po’ più di farsa, d’altronde, si è arrivati, per inseguire nomi e simboli mummificati, alla demolizione delle stesse basi comuni di un campo della sinistra…
Tira una brutta aria nel mondo. Non sono timidi refoli ma sono raffiche di vento che vengono da destra. La ricetta è sempre la stessa: conservatrice e reazionaria nei diritti civili, liberista in economia.
Dall’Europa agli Usa passando per l’America Latina ci sono solo conferme a questo trend. L’ultimo caso, in ordine di tempo, è il Brasile con il nuovo presidente Bolsonaro che è il più autorevole rappresentante del vecchio che avanza. Ex militare, razzista, favorevole alla tortura e, quindi, naturaliter nostalgico della dittatura militare (con inquietanti e continue invettive su cui è meglio sorvolare). Come da tradizione dei Chicago boys allineatissimo a una politica economica che si fonda, ancora una volta, sul mercato e sulla libertà dei capitali.
Sono lontani i ricordi dei governi Lula, capace di portare fuori dalla povertà milioni di suoi concittadini.
Probabilmente, si trattava di un processo contraddittorio e segnato inevitabilmente da corruzione. Una crisi economica devastante ha contribuito a precipitare la situazione e chissà se erano realmente veritieri quei sondaggi che davano Lula in testa, se avesse avuto la possibilità di candidarsi. Sta di fatto che è chiuso in un carcere, dopo quello che è stato definito giustamente, un vero e proprio golpe.
Non c’è certo bisogno di essere Hobsbawn per vedere delle analogie tra la crisi del ’29 e quella del 2007/2008 (forse quest’ultima è peggiore), così come tra gli anni ’30 e i tempi attuali. Ci sono gli stessi elementi di quegli anni esplosivi: crisi (in tutte le molteplici forme: economica, sociale, culturale), avanzata delle destre e sinistra spappolata e divisa. Tuttavia, siamo di fronte a sconfitte che storicamente hanno fatto bene, almeno dal punto di vista teorico e dell’elaborazione, per la Sinistra, ben più delle vittorie. Bisognerebbe ripartire proprio da lì.
Gli accostamenti tra quanto avviene in America Latina, periferia dell’impero, e l’Europa sono alquanto impropri.
La differenza contestuale dovrebbe essere evidente, ma a giudicare dai commenti politici dei populisti europei non lo è. Il populismo in America Latina è un fenomeno che ha storicamente attraversato la Sinistra che oggi i Bolsonaro vogliono affossare. Un esempio su tutti il Venezuela, contro il quale Bolsonaro si è già scagliato violentemente. Non si escludono nemmeno interventi militari contro quello che è definito senza mezzi termini il “regime” venezuelano.
Siamo ben lungi da qualsiasi proposta di cambiamento in favore del popolo e lo si dovrebbe intuire anche solo dando uno sguardo alla situazione politica brasiliana profondamente sconvolta dall’arresto di Lula, la deposizione del Governo in carica e la sostituzione con Temer. A un golpe segue l’elezione di chi ha appoggiato quel golpe, si vedano le dichiarazioni di Bolsonaro in merito che ha subito anche un’accoltellamento lo scorso settembre per aver sostenuto il golpe di Temer. Davvero nulla di populista e molto di reazionario nella figura di Bolsonaro che arriva dalle peggiori élite economiche, legate alla lobby delle armi e alla grande finanza.
Se ancora esistesse un movimento dei movimenti, dovremmo chiamarlo a riflettere sugli esiti problematici a cui sono arrivate le positive istanze di partecipazione nate nel passaggio al nuovo millennio.
La resistenza alla globalizzazione capitalista aveva assunto forme molto diverse. Presunta permeabilità dei palazzi per quanto riguardava la galassia il principale partito comunista europeo dei primi anni 2000 (Rifondazione Comunista), movimento di popolo per una presa diretta del potere in America Latina (con forti accenti populisti e un ruolo particolare delle forze armate).
Il Brasile di Lula era un interlocutore tanto per la socialdemocrazia occidentale quanto per i sostenitori del socialismo del XXI secolo. Rappresentava un modello criticato ma amichevole per molte realtà. L’assenza di un cambiamento governato è problema diffuso a tutta la sinistra di classe (dai tempi di Lenin almeno) e in questo caso ancora più evidente. In caso di ricandidatura del già Presidente la sconfitta della peggior destra brasiliana sarebbe stata certa, ci dicono sondaggi e analisti.
Quanto è fragile il cambiamento? Quanto è forte il blocco del capitale? Consapevoli di questa realtà, quanto può continuare a essere ingenua o impotente l’alternativa alla barbarie? Descrivere quanto sia nero il nuovo governo brasiliano ci racconta solo di quanta responsabilità storica abbia chi si colloca in quello spazio un tempo occupato dal movimento dei movimenti.
Jacopo VannucchiIl risultato delle presidenziali brasiliane era di fatto scontato dopo una stagione golpista durata due anni e mezzo, che ha visto la deposizione della Presidente Rousseff, il riavvio del trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, l’incarcerazione di Lula e la prepotente ripresa della scena politica da parte dei militari.
Il consenso di Lula, che era stato del 61% in entrambe le sue elezioni (2002 e 2006) si era ridotto per Dilma Rousseff al 56% (2010) e poi al 52% (2014) in quella che fu considerata l’elezione più divisiva e contrastata nel Paese dopo la fine della dittatura militare nel 1985. All’epoca, con le classi deboli saldamente schierate per Dilma e i ceti ricchi inquadrati dalla candidatura di Neves, l’ago della bilancia fu il comportamento della classe media e, in particolare, di quella formatasi recentemente proprio grazie al generale miglioramento delle condizioni economiche.
Nel 2014 Dilma ottenne 54,5 milioni di voti contro i 51 di Neves; oggi, Bolsonaro ne raccoglie quasi 58 a fronte dei 47 di Haddad. Vi è quindi stato uno spostamento netto di circa 7 milioni di elettori che, a giudicare dai primi dati aggregati, appaiono concentrati a Rio de Janeiro e Minas Gerais. Ossia quelle aree che all’inizio della presidenza Lula avevano un indice di sviluppo umano medio, non basso come quello del nordest, non alto come quello di San Paolo.
Lo spostamento verso destra delle zone socialmente medio-alte del Paese è del resto un fenomeno già evidenziato nelle presidenziali 2010. Si dovrebbe dunque concludere che Bolsa Familia e Fome Zero abbiano creato le basi sociali della propria rovina?
Penso piuttosto che la questione sia un’altra e riguardi anche la sinistra europea e del Nordamerica, come del resto Berlinguer prese avvio dal golpe cileno per definire la proposta di compromesso storico. In un mondo che le conseguenze della crisi economica spingono sempre più verso l’alternativa tra regimi popolari e fascismo, il campo di battaglia fondamentale è il consenso del centro e della piccola borghesia.
La lenta agonia del regime neoliberista produce mostri sempre più inquietanti. Il risentimento che la crisi sistemica del 2008 ha generato ed esteso a dismisura, viene, in mancanza di un progetto di società alternativo che né la cultura liberale né quella socialista/comunista hanno saputo riaffermare, incanalata politicamente entro un programma che fa dell’odio verso il diverso la sua bandiera. Il carattere dei nuovi fascismi si delinea, dopo i successi di Orban, Trump, Salvini e ora Bolsonaro, con sempre maggiore chiarezza. Non è alternativa, non è riscatto, non è un’idea diversa di società, sono solo le vecchie dinamiche di sopraffazione e dominazione che dalla metafisica del mercato vengono trasposte e duplicate nella mistica della nazione e della purezza, nel feticismo dell’ordine, nel disprezzo della diversità.
Per questo ciò che vediamo, non è un “ordine nuovo” ma – banalità del male – una decadente forma di liberismo autoritario, un ibrido politicamente raccapricciante e moralmente disgustoso. Le intenzioni e dichiarazioni di Bolsonaro danno un’idea di questa aberrazione: attacchi xenofobi, omofobi, misogini, esaltazione delle forze armate, nostalgia per la dittatura militare e un “ambizioso” piano di privatizzazioni delle imprese pubbliche. Non è purtroppo una novità storica: il liberismo può apparire (formalmente) democratico finché la sua ideologia ha presa sulle masse, ma quando ciò non avviene più, per salvarsi deve mostrare il suo vero volto autoritario.
Molti benpensanti liberal di Washington e Bruxelles non saranno magari particolarmente contenti dell’esito elettorale in Brasile ma – c’è da scommetterci – già da domani lavoreranno non certo per frenare le deriva fascista in Brasile, quanto piuttosto per destabilizzare il ben più politicamente ingombrante Venezuela, ovviamente sempre in nome della democrazia, della libertà o dei presunti “diritti umani”.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.pt.m.wikipedia.org
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