L’ombra del razzismo nell’Italia di oggi
Nelle settimane che hanno preceduto il Giorno della Memoria i temi del razzismo hanno, purtroppo, continuato a occupare giornali e notiziari. Dapprima il candidato leghista alla Presidenza della Lombardia, Attilio Fontana, ha dichiarato che l’immigrazione mette a rischio la razza bianca, identificando per giunta in quest’ultima il fondamento della società italiana. Dopo aver detto che si era trattato di un lapsus (quindi un pensiero profondo) ha aggiunto che quella frase gli ha portato maggiori consensi, come se ci fosse da vantarsene.
Pochi giorni dopo, Mattarella ha nominato senatrice a vita Liliana Segre per l’impegno di testimonianza e trasmissione della memoria del genocidio nazista. Ricordando le leggi razziali italiane e la complicità del regime fascista nella deportazione verso i Lager, il Capo dello Stato si è opposto a qualsiasi rivalutazione del Ventennio e della sua azione liberticida.
Alla vigilia del 27 gennaio Salvini ha riproposto alla radio la distinzione del fascismo “buono” pre-1938, condendola con la nota fake news circa l’istituzione delle assicurazioni pensionistiche.
Niccolò BassanelloTra le domande di ambito politico di un’edizione passata dell’esame per ottenere una fellowship al prestigioso All Souls College di Oxford, ce n’è una che in poche parole solleva un interrogativo inquietante: «Can the UK Independence Party be accurately described as a fascist party?». Sono convinto che dalla risposta che daremo a domande come queste dipenda la possibilità che il nostro ordine istituzionale e la stessa idea di democrazia sopravvivano nell’immediato futuro.
Discutendone, due sono per me le direttrici da considerare nel ragionamento. Karl Polanyi, uno dei più grandi scienziati sociali del secolo scorso, ci dà nel suo capolavoro La grande trasformazione coordinate essenziali: «un paese che si avvicinava al fascismo mostrava dei sintomi tra i quali non era necessaria l’esistenza di un vero e proprio movimento fascista. Segni almeno altrettanto importanti erano la diffusione di filosofie irrazionalistiche, il culto estetico della razza, la demagogia anticapitalistica, opinioni monetarie eterodosse, critiche al sistema partitico, denigrazione diffusa del “regime” o di qualunque altra denominazione del sistema democratico esistente. […] La gente spesso non era certa se un discorso politico o un pezzo teatrale, un sermone o una parata, una metafisica o una moda artistica, una poesia o un programma di partito fossero fascisti o meno. Non vi erano criteri stabiliti del fascismo, né esso possedeva delle massime convenzionali».
Il fascismo si appoggiava al nazionalismo in alcuni Stati, in altri era antinazionalista fino al tradimento, come nel caso del collaborazionismo di Quisling. L’unico elemento comune ai movimenti fascisti, secondo Polanyi, era il loro sorgere e sparire nel nulla rapidamente, segno che la loro esistenza era strettamente legata alle condizioni materiali, vale a dire al malfunzionamento dell’economia capitalistica. A questo problema la “mossa” fascista offriva una soluzione drastica e degenerativa, consistente nella riduzione del sociale e dell’umano all’economico, e quindi nella degradazione fino all’abiezione dell’individuo e dell’individualità. Il fascismo, inoltre, aveva storicamente mostrato – nell’opinione dello scienziato sociale – una forza assolutamente sproporzionata rispetto alla sua misera consistenza numerica: la forza del fascismo, infatti, dipendeva strettamente dall’influenza delle persone ricche o potenti che finivano per appoggiarlo. A questo retroterra, che ha nei nostri tempi una sua inquietante attualità, aggiungerei un elemento “organizzativo”. I soggetti fascisti propriamente detti, in tutti i casi, più che alle funzioni tipiche dei normali partiti politici assolvono sistematicamente a funzioni di organizzazione del professionismo della violenza – verbale e/o fisica; la violenza illecita come mezzo per raccogliere potere, da usare al momento giusto per esprimere una violenza istituzionale. È questo che, secondo me, li differenzia da altri soggetti della destra radicale, prevalentemente partiti “di fascisti” ma non propriamente “fascisti”, in quanto a differenza di questi ultimi utilizzano esclusivamente (o quasi) mezzi leciti per raggiungere il potere e quindi esprimere una violenza istituzionale.
Viviamo in un epoca in cui la crisi della coesistenza tra sociale ed economico è arrivata ad un punto di rottura. Nello specifico italiano, inoltre, i pericoli sono moltiplicati dallo scomparire progressivo degli ultimi partigiani e testimoni degli orrori del nazifascismo, e quindi dall’indebolimento degli anticorpi ai discorsi tossici fascisti. Mettere in evidenza queste ultime testimonianze ed insitere sul ruolo collettivo della memoria è certamente indispensabile, ma a lungo termine la messa in sicurezza delle nostre democrazie ha bisogno da un lato di una più energica azione di contrasto alle organizzazioni fasciste e alle collusioni ad ogni livello con la loro violenza e d’altro canto di una politica economico-sociale strutturalmente antifascista, in grado di superare l’impasse in cui si trovano le economie di mercato in senso progressivo, rimettendo l’economico al sostegno della sussistenza della dimensione umana e sociale. Anche questo, in fondo, è onorare la memoria.
Prima che mi addentri nel dibattito attuale su quanto sia ancora antifascista la Repubblica italiana mi permetto di fornire una banale, quanto essenziale, premessa. Tutta la retorica sul Giorno della Memoria nasce dalla risoluzione 60/7 delle Nazioni Unite che rievoca il giorno della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. Come è ovvio, in tempi postmoderni, cioè dopo il 1989, l’interpretazione di quella data è totalmente snaturata. I sovietici praticamente non esistono nella memoria di quel giorno. D’altra parte pensare che l’Onu abbia a cuore la memoria storica è semplicemente insensato, smentito dai fatti in cui agisce nel presente. Insomma, non poteva che esservi un’interpretazione distorta del passato ad uso giustificatorio delle peggiori nefandezze nel presente.
Detto questo è evidente che la politica italiana abbia assecondato questa deriva, anche se già esisteva una blanda legge per la memorialistica in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.
Si decide così di seguire la memoria selettiva, ricordando i singoli eventi di una guerra dimenticando i contesti in cui presero forma.
Si decide di enfatizzare solo alcuni aspetti, lasciando cadere la memoria su altri.
È evidente che la neutralità della compassione per la Shoah sgonfi il significato politico della Resistenza. L’operazione è dunque politica ed è portata avanti nientemeno che dal Presidente della Repubblica.
La società atomizzata ovviamente non ha le forze per reagire a questi attacchi e ormai, forse, neanche più la capacità di rendersi conto di ciò.
Sul tema dell’antifascismo e della memoria storica abbiamo già scritto più volte in questa rubrica.
Considerata come positiva la nomina di Liliana Segre a Senatrice a vita rimane un enorme problema del rapporto tra Italia e barbarie nazifascista. Ogni ricambio generazionale indebolisce il valore della Resistenza, dell’antifascismo e dell’antirazzismo. Si ritiene il presente troppo doloroso rispetto all’indignazione richiesta da una corretta lettura di ciò che fu il regime di Mussolini.
A Firenze persino un Presidente di Quartiere del Partito Democratico ha dimostrato quanto sia diffusa l’idea di un sistema istituzionale e accademico che esagera.
La Repubblica Italiana non ha anticorpi adeguati e sono pochissime le organizzazioni politiche consapevoli di questa urgenza.
La Lega Nord non è un presidio di irriducibili proletari accerchiati dai potenti. Governa importanti comuni e regioni, mentre permette che al suo interno si coltivino i peggiori sentimenti del Paese.
Serve un cambio di paradigma da parte delle sinistre, saper tradurre le giuste posizioni in una contemporaneità complessa e dove da non poco tempo l’anticomunismo è diventata una priorità “a reti unificate”.
In questa campagna elettorale avrebbe senso lasciare da una parte la dinamica su chi sia più o realmente antifascista di altri: sarebbe interessante capire chi è interessato a operare concretamente e quotidianamente in questo ambito, coordinando una strategia e una tattica che tolgano agibilità tanto alle formazioni dichiaratamente nostalgiche e anticostituzionali, quanto a chi coltiva il terreno di queste prime in mono meno esplicito.
Rimane il dubbio che tra i principali protagonisti della politica italiana sia radicata la certezza che tutto sommato razzismo e fascismo siano solo marginali riflessi di problemi più gravi (crisi economica, flussi migratori, abbandono delle periferie, ….) anziché opzioni politiche a cui togliere tutto l’ossigeno possibile.
Il 25 gennaio alcuni giovani leghisti hanno dato alle fiamme, in piazza San Giovanni a Busto Arsizio, due fantocci raffiguranti Laura Boldrini e Paolo Gentiloni.
Presente in città il 28 gennaio, la Presidente della Camera ha commentato le dichiarazioni di Simone Di Stefano, leader di CasaPound, che ha promesso di picchiare qualche ministro se, superando il 3%, la sua formazione entrerà in Parlamento. Il commento è stato poco più che una moral suasion fondata su wishful thinking e ripetizione dell’ovvio: “noi non abbiamo nostalgia di quel periodo”, “i ceffoni non appartengono al metodo democratico”, “dobbiamo sempre avere in mente la memoria”, “penso che gli italiani siano abbastanza lungimiranti da non fare questo errore”.
Nessun accenno, invece, a concrete modalità di lotta alla violenza fascista.
Come sarebbe possibile, del resto, visto che la formazione politica di Laura Boldrini vuole accreditare ogni giorno come interlocutore democratico il Movimento 5 Stelle, che da anni e anni predica odio e violenza? Ricordiamo tutti le minacce di stupro rivolte alla stessa Boldrini. Bersani, che anni fa intervistato da La Padania dichiarò che la Lega non era razzista, può essere un antifascista credibile?
Lo stesso giorno del rogo di Busto Arsizio, ricordando la politica razzista del regime fascista italiano, il Presidente della Repubblica ha negato con decisione la possibilità di evidenziare parti “buone” della dittatura, se non addirittura interi periodi. Nell’elenco dei crimini fascisti reso da Mattarella è possibile scorgere, punto per punto, gli intenti programmatici che il M5s proclama apertamente da anni. Citando testualmente: «aver soppresso i partiti, ridotto al silenzio gli oppositori e sottomesso la stampa, svuotato ogni ordinamento dagli elementi di democrazia».
La condanna formale che il Movimento Giovani Padani ha dato del rogo di Busto Arsizio è l’ennesimo esempio della politica mimetica adottata dalla dirigenza Salvini: sobillare il fascismo pur condannandolo a parole – una strada già battuta per giustificare l’opposizione alla pdl Fiano e alla legge Mancino.
Di converso l’impressione è che a sinistra, al di là della pregiudiziale antifascista verbale che non costa niente e fa sentire la coscienza a posto, non vi sia la piena consapevolezza del pericolo. A dar retta ai sondaggi, il M5s e la Lega conterebbero complessivamente sul 40-45% dei voti (quelli presi da Hitler nel 1933, per un raffronto).
Soffermarsi sui pesci piccoli come CasaPound o Forza Nuova significa non avere alcuna capacità di lettura reale: e sì che diventa difficile ostinarsi alla cecità quando Salvini propone «mani libere alla Polizia», «pulizia di massa via per via, quartiere per quartiere», una «Guardia nazionale antimigranti». I toni del M5s contro le istituzioni democratiche sono stati anche più violenti.
Immagine liberamente ripresa da upload.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.