L’ombra del Cremlino si allunga?
Il caso legato alla morte di Sergei Skripal è alla base di una non comune serie di espulsioni di personale diplomatico russo (e dalla Russia).
Sul contesto internazionale le nostre Dieci Mani si sono concentrate recentemente parlando della caduta di Afrin, confermando un ritorno del Cremlino negli scenari politici globali.
Quanto sia strumentale la denuncia della figura di Putin (recentemente rieletto senza grandi problemi) nel sistema di informazione europeo e occidentale? Siamo davvero di fronte a una nuova guerra fredda, come spesso si affrettano a scrivere, in modo anche superficiale, alcuni opinionisti?
Il mondo multipolare è l’ultima spina nel fianco che i Paesi non allineati e gli ultimi Paesi socialisti possono piantare nella belva imperialista, sperando di arrivare al ventre. Quest’ultima, ormai scatenata con Trump giunto alla politica dei dazi pur di non ammettere la sconfitta nella corsa alla globalizzazione con la Cina, è pronta a qualsiasi bassezza pur di invertire un gioco iniziato da lei ma rivoltosi contro di lei.
Infatti, se all’inizio la globalizzazione sembrava un’occasione per le multinazionali americane di incrementare i propri profitti inglobando nuove fette di mercato e producendo a costi ridotti si è poi rivelata un’arma a doppio taglio per gli imperialisti.
Negli anni Novanta i capitali dal centro dell’impero venivano drenati sempre più in Estremo Oriente dove oggi l’economia capitalistica viene riorganizzata in una forma di capitalismo di Stato molto più efficiente del classico laissez-faire Occidentale.
In Occidente si tenta l’estrema difesa del protezionismo per cercare di invertire la rotta. Questa politica economica è fallimentare non perché il protezionismo non funzioni, come vogliono farci credere i liberali di sinistra, ma semplicemente perché funziona fin troppo bene e chi ora ha il vento nelle vele dello sviluppo economico non si lascerà fermare. L’impazzimento dell’Occidente (leggi qui) ci farà assistere ad episodi ben più gravi di una guerra tra spie (vedi il caso Skripal) o a guerre commerciali (vedi dazi americani e contro-dazi cinesi, pronti persino a dismettere i titoli di Stato americani), possiamo starne certi.
La Russia di Putin, riconfermato con una maggioranza più che assoluta, è un alleato fondamentale della Cina, così come la Gran Bretagna di May è un alleato fondamentale degli Stati Uniti di Trump. Cina e Russia sono riuscite a guadagnare una posizione di favore nella globalizzazione, Stati Uniti e Gran Bretagna come dei bambini viziati hanno deciso di rompere il gioco che ha smesso di farli divertire. Viviamo in tempi interessanti, godiamoci lo spettacolo sperando di non farci troppo male.
Dmitrij PalagiUn nemico serve sempre in qualsiasi racconto. Se la politica quindi è anche narrazione, nel contesto internazionale occorre individuare il polo rispetto al quale si costruisce l’identità occidentale.
Finita la guerra fredda, prima dell’11 settembre 2001, sembrava circolare, a “fine della storia”, un racconto del blocco egemone impegnato a ripianare le ingiustizie, con quelli che venivano chiamati “paesi in via di sviluppo”.
Nuove tecnologie per l’ambiente, l’uguaglianza e un grande villaggio globale.
Così non è andata.
In sede di analisi il gusto narrativo in realtà non serve. Gli stati nazionali sono in crisi, ma nella dialettica con determinate logiche di mercato, non certo perché privi di un ruolo nelle relazioni tra aree geografiche.
In molti si erano impegnati a spiegare come con Trump ci sarebbero stati meno rischi rispetto ad una Casa Bianca con un’inquilina democratica. Oggi nessuno si permettere di felicitarsi pubblicamente della maggioranza repubblicana statunitense, nel campo degli “amici di Putin” (in realtà poco affollato e spesso utilizzato per nascondere quell’area di persone razionali, capace di capire che il problema della democrazia russa non coincide con presunti brogli elettorali).
Poche settimane fa, nelle sale italiane, proiettavano un film dal titolo Red Sparrow. C’è tanta retorica da secondo dopoguerra inoltrato, nonostante sia ambientato in epoca contemporanea. L’unica battuta felice è che nei film le russe sono sempre belle, mentre i russi… Per il resto è un condensato di miopia e luoghi comuni (chi scrive è un amante dei film d’azione, oltre a saper apprezzare la propaganda di qualità, anche quando non la condivide).
Il Dieci Mani rischierebbe di allungarsi troppo, quindi a rischio di perdere in chiarezza provo a concludere sulle recenti notizie che ci hanno interessato.
Le scelte diplomatiche, soprattutto nel continente europeo, sono sintomatiche di una politica del tutto inadeguata e incapace. Buttarla sulle esportazioni e sugli interessi economici italiani (come fa la Lega) è apparente buon senso, ma si limita a una visione altrettanto inadeguata.
Occorre una visione strategica, che non insegue un caso di spionaggio ricostruito sulle pagine dei quotidiani, capace di misurare il reale peso degli stati nazionali nei processi globali.
La partita in Medio Oriente vede la Russia al centro di un riassestamento che le testate di area cattolica italiana non hanno mancato di evidenziare, in modo anche strumentale.
Ci sarebbe da scegliere la pratica del multilateralismo e della diplomazia internazionale come scelta caratterizzante, in cui discutere anche dell’assetto economico e della distribuzione di risorse (e ricchezze).
Quella parte che a fine ’90 veniva cantata dalla star di turno, mentre la politica reale si distaccava sempre di più da ogni processo di rappresentanza, scongiurato il pericolo sovietico. Il problema è che non bastano un paio di concerti e una dichiarazione di buona volontà per risolvere i problemi.
Perché finisce che viene violato il buon senso, ma nessuno riesce a indignarsi per i buoni motivi (il problema non è quanto parmigiano esportiamo all’ombra nel Cremlino, per quanto l’argomento possa essere propedeutico a raggiungere la questione reale).
Barcamenandosi nel tentativo di riconfigurare, sperabilmente con qualche successo, la propria posizione internazionale, il governo britannico ha dato il via a una serie di espulsioni di diplomatici russi presto imitata da numerosi Paesi occidentali. Neppure quelli più propensi ad affermare la necessità del dialogo con la Federazione Russa – Germania e Italia in primis – hanno potuto sottrarsi a questo compito, succubi evidentemente ai vincoli atlantici.
Certa propaganda antirussa in Occidente farebbe sorridere chi avesse l’intelligenza di arrivare a decostruirla – per dirne una: se in Russia il Presidente viene rieletto con il 77% mentre in Italia le forze antisistema superano il 50%, siamo sicuri che il problema sia dei russi e che siamo nella posizione di poter ironizzare?
Ma, al netto di facilonerie che potrebbero essere anche peggiori (come i cani, anzi no, leoni, che avrebbero sbranato lo zio di Kim), ciò che interessa rilevare è la contraddizione tra la competizione militare e il potere di attrazione culturale. Le potenze maggiormente impegnate nella prima sono naturalmente gli Stati Uniti e la Russia; questi, però, risultano in realtà privi di una reale proposta egemonica sul piano ideale. Il topos della «land of the free» sembra di colpo molto appannato dal discredito di Trump; la Russia ha indubbiamente rilanciato il patriottismo al proprio interno ma, nei confronti dell’estero, si affida più che altro a interlocutori parziali in una funzione negativa nei confronti dell’accerchiamento Nato.
Chi invece un potenziale culturale può averlo sono una o due potenze attualmente in disparte. In primo luogo la Cina, che ha mostrato e mostra la possibilità di uno sviluppo diverso da quello capitalista e in grado di sopravvivere nelle acque agitate del mercato globale. Gli investimenti interni in istruzione e formazione, gli aiuti allo sviluppo al Sud del mondo, il tentativo di costruire una nuova rete internazionale di partiti progressisti pongono Pechino in grado di costituire un polo attrattivo su scala mondiale.
In secondo luogo l’Unione Europea. Questa potrebbe, da un lato, raccogliere il tema illuminista delle libertà oggi abbandonato dagli USA; dall’altro, far valere un patto sociale e di welfare non facilmente eguagliabile da altre zone del mondo. Non pare che grandi passi avanti siano stati fatti sul piano della completa integrazione. Prodi anni fa ricordava che anche il suicidio fa parte della vita; resta ora da vedere se l’Europa sceglierà effettivamente questa opzione e, meglio ancora, resta da lavorare perché ciò non accada.
Nel mondo globalizzato di oggi fatto di interconnessioni, delocalizzazioni, tecnologie digitali e gestita da sistemi di governance liquidi e da una classe di capitalisti transnazionali, è facile dimenticare che gli stati nazionali sono ancora vivi e che le vecchie dinamiche e linee di conflitto sopravvivono ancora oggi. La logica politica non ha mai smesso di radicarsi in quel tipo di razionalità peculiare che è la ragion di stato, anzi questa tendenza è rafforzata dalla globalizzazione: si è spinti a coltivare e rafforzare il più possibile il proprio orticello (a danno di quello altrui se necessario) proprio per sopravvivere nella lotta senza quartiere della competitività e competizione mondiale che sempre di più riguarda anche le autorità statuali.
Siamo di fronte a uno scontro molto diverso da quello fra visioni del mondo contrapposte tipico della Guerra Fredda. Qua non ci si scontra sul modello di società migliore, ma ci si giocano le risorse da sfruttare e le fonti di profitto da ricavare. E per queste cose, lo scontro può essere molto più spietato. Il modello della globalizzazione neoliberista è nato ed è stato imposto dall’Occidente. Paesi come Russia e Cina ci possono anche sguazzare dentro, ma non accetteranno mai che la direzione di questo movimento sia totalmente a guida occidentale. Per loro sarebbe un terribile gioco a perdere: si lotta per decidere chi fa le regole e chi detta legge nella governance mondiale (che resta in ogni caso dominata dalle leggi di mercato, pur con l’ambiguità di Pechino, approdata al liberismo più per realismo che per effettiva convinzione e le cui scelte politiche nel lungo periodo potrebbero portare a una revisione significativa della dottrina Deng Xiaoping/Xi Jin Ping che comunque resta attualmente una necessità).
In questo agone mondiale in cui ci si gioca il predominio economico, all’Occidente interessa ben poco il regime politico in vigore in Russia, Cina, Corea del Nord o Iran, tutti e quattro profondamente diversi fra di loro. Questo non significa che non usino le caratteristiche di questi paesi per i classici giochi ideologici di propaganda: il regime teocratico di Teheran, Il Grande Fratello di Pechino, Lo Zar di Mosca, il matto di Pyongyang e una galleria di personaggi da Commedia dell’Arte degne del Goldoni più ispirato. Putin in particolare, per l’occidente rappresenta una ferita aperta ed è per questo bersaglio delle critiche più dure e stereotipate insieme: dopo aver vinto a durissimo prezzo la guerra fredda (= aver dovuto concedere diritti e salari alti ai lavoratori, perdendo posizioni nella lotta di classe pur di vincere la “terza guerra mondiale”), le borghesie occidentali si sono lasciate sfuggire l’occasione di ridurre la Russia a colonia obbediente dominata dalle loro multinazionali. In questo processo Putin ha avuto un ruolo decisivo e il consenso di cui gode e che non smette mai di stupire e irritare l’occidentale medio, si comprende anche alla luce dell’aver riscattato la sua nazione dall’umiliazione di una controrivoluzione iniziata come tragedia e conclusasi come una farsa (l’auto-bombardamento del parlamento, le tragicomiche uscite dello sbandato alcolista Boris Eltsin, ecc.). Per la maggioranza dei russi Putin è considerato alla stregua di un eroe di liberazione nazionale e non del tutto a torto.
Chiaramente, questo non deve portarci a vedere in Putin un modello da esportazione o un esempio da seguire. Non staremmo meglio sostituendo una globalizzazione a guida americana con una a guida russa. Detto questo, dato che la storia ci ha mostrato che dalla fine della guerra fredda i più feroci e letali aggressori sono stati gli occidentali, gli unici a scatenare guerre imperialiste di ampia portata in Africa e Medio Oriente, anche se ad essere additato come il provocatore e l’aggressore per eccellenza è Putin, forse dovremmo quantomeno dirci che un mondo multipolare è preferibile a uno dominato dall’imperialismo occidentale.
Immagine di copertina liberamente ripresa da pixabay.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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