55 anni fa, in Indonesia, iniziava il più grande massacro anticomunista della Guerra fredda. Fra la fine del 1965 e lungo tutto il 1966 un numero compreso fra i 500.000 e i due milioni di comunisti o presunti tali venne sterminato. L’atroce repressione non risparmiò nemmeno le altre organizzazioni della sinistra, i gruppi femministi e le minoranze etniche Abangan e cinese.
Dal Brasile all’Argentina, Dal Cile al Nicaragua, le numerose atrocità commesse dai regimi sostenuti da Washington durante la Guerra Fredda sono state spesso messe in secondo piano, minimizzate da gran parte del sistema di informazione occidentale rispetto alla sovraesposizione mediatica dei massacri attribuiti ai comunisti. Da questo punto di vista i fatti del ’65-’66 in Indonesia sono i più tristemente rappresentativi di questa storiografia selettiva, tanto per la scarsissima conoscenza diffusa che se ne ha, almeno in Occidente, quanto per le dimensioni del fenomeno, tali da renderlo uno degli eventi più tragici del Novecento. Qualche breve cenno storico dovrebbe chiarirne meglio il contesto.
Il Partito Comunista Indonesiano (PKI), formato nel 1914, è stato il più antico partito comunista asiatico e nel Dopoguerra era il terzo partito comunista più grande al mondo dopo quello cinese e dell’Unione Sovietica. Si trattava di una forza politica fondamentalmente riformista, che non ricercava la rivoluzione nell’immediato ma la inquadrava in una prospettiva storica di lungo corso. Coerentemente con questa visione, dopo la resa giapponese e dopo che i Paesi Bassi avevano definitivamente deciso di rinunciare a controllare la loro ex colonia, il partito si propose come forza parlamentare all’interno del fragile sistema democratico guidato dal presidente Sukarno, eroe dell’indipendenza e impegnato in un difficile lavoro di stabilità e pacificazione fra le varie fazioni politiche e comunità etniche del paese.
Proprio le difficoltà a consolidare la stabilità politica spinsero Sukarno nel 1957 a virare verso un regime più autocratico chiamato “Democrazia Guidata”, nato sotto lo slogan “Nasakom” (nazionalismo, religione, comunismo) che si prefiggeva la costruzione di una società armoniosa appoggiandosi sulle tre principali forze del paese: l’esercito, i gruppi islamici e i PKI. A partire da questo momento, Sakarno orientò la sua politica estera maggiormente verso una prospettiva da lui stesso definita anti-imperialista nell’ottica di un rafforzamento delle relazioni con Mosca e Pechino. Sebbene nel sistema politico riformato i comunisti non rivestissero significative posizioni di potere, vedevano sempre più legittimato il loro ruolo istituzionale e la loro influenza e popolarità era in continua ascesa. Nel contesto della Guerra Fredda, Washington era profondamente preoccupata dagli sviluppi politici di un paese considerato del massimo valore strategico nel Sud Est asiatico.
Il pretesto per schiacciare la presenza comunista arrivò il 1° ottobre del 1965 quando un tentativo di colpo di stato da parte di alcuni sottufficiali fallì[1] per l’intervento del generale reazionario Suharto che in breve tempo prese il controllo di tutto il paese e impose di fatto una dittatura militare e una svolta politica autoritaria e atlantista che prenderà il nome di “Nuovo Ordine”. Sukarno, in un primo momento ridotto a pupazzo nelle mani dei militari, verrà due anni dopo estromesso definitivamente dal potere. I comunisti vennero immediatamente accusati del tentativo di golpe e ben presto furono vittime di una tanto grottesca quanto feroce campagna propagandistica di odio nei loro confronti. Appoggiati dagli Stati Uniti, che fornirono logistica, mezzi ed intelligence[2], la giunta militare di Suharto, appoggiandosi a gruppi paramilitari di estrema destra come Pemuda Pancasila, iniziò uno dei più cruenti stermini nella storia del Novecento.
Come ci ricorda Vincent Bevins, corrispondente nel Sud Est Asiatico per il Washington Post e autore del libro “The Jakarta Method“, in una recentissima intervista concessa a Jacobin[3], lo sterminio in Indonesia non è solo un episodio terribilmente cruento della Guerra Fredda ma è un vero e proprio punto di svolta negli equilibri di potere nel sud-est asiatico, tale da generare conseguenze geopolitiche più ampie nel lungo termine. Il mondo in cui viviamo è stato plasmato anche dalle atroci violenze inflitte ai comunisti e lo sterminio indonesiano ha rivestito da questo punto di vista un ruolo cruciale.
Nonostante l’ampio consenso storiografico sulle atrocità compiute, sulle responsabilità e il coinvolgimento dei paesi occidentali in Indonesia, le amnesie storiche, le omissioni e la crescente parzialità con cui nelle scuole e nel dibattito pubblico si parla degli episodi della Guerra Fredda, mostrano come non sia sufficiente avere la possibilità di reperire individualmente le informazioni sugli eventi storici, ma serve una cultura politica più ampia che produca letture alternative rispetto a quelle dominanti del nostro passato e che orienti il dibattito storico e politico nel porre interrogativi diversi da quelli ora egemonici: le immagini che plasmano l’immaginario collettivo della Guerra Fredda, complice anche la debolezza della sinistra, sono schiacciate sulla pericolosa dicotomia fondamentalista dell’occidente libero e dell’oriente tiranno, immagine tanto più forte quanto più è flebile la memoria collettiva su atrocità come quelle compiute in Indonesia.
Dove invece lo sterminio del ’65-’66 ha subito un vero e proprio processo di sistematica censura è nella stessa Indonesia, i cui governi, anche dopo la fine della dittatura di Suharto, hanno cercato, a seconda della situazione, di coprire tutto, minimizzare o giustificare più o meno velatamente l’operato dell’esercito e dei vigilantes in ragione della presunta minaccia nazionale rappresentata dai comunisti.
L’oblio storico che ancora oggi attanaglia l’Indonesia rispetto al suo recente passato è espresso magistralmente nel pregevole e atipico documentario del 2012 The Act of Killing di Joshua Oppenheimer dove ai carnefici direttamente coinvolti nel massacro, viene chiesto, a distanza di diversi decenni, non solo di raccontare ma anche di mettere in scena, avvalendosi di un vero e proprio set cinematografico, le uccisioni, le torture e le atrocità che avevano perpetuato.
Da questa attività creativa deriva un processo di riflessione su se stessi e un occasione per ripensare il proprio passato. Mettendo in scena le atrocità perpetuate, i torturatori vengono messi di fronte alle loro responsabilità, senza più poter ricorrere alle scuse che hanno sempre accampato per giustificarsi, ma trovandosi piuttosto da soli di fronte a un male universale che non accetta più relativismi. In un doloroso processo introspettivo che scalfisce le loro certezze, i carnefici stessi arrivano a sentire l’esigenza di assumere il ruolo delle loro vittime nelle scene di tortura che vengono girate. Si compie così un’epifania impensabile, un’immedesimazione nell’altro che significa provare per la prima volta quel terrore e quell’angoscia che prima era stata solo inferta.
Ma questa capacità di fare i conti con la propria storia avviene solo a livello individuale, sotto forma di una nausea che è sia fisica che esistenziale e che si contrappone a una società, quella indonesiana, che persiste ancora nel negare uno dei lati più oscuri della sua storia, creando un effetto di distorsione, come quello immortalato nella surrealistica immagine della locandina del film. Ed è forse perché questa angosciante scoperta non può rimanere intrappolata entro i confini del singolo, che uno dei carnefici protagonisti del documentario sente l’esigenza di mostrare ai nipotini proprio la scena in cui assume il ruolo del torturato, come necessità intima di rendere consapevoli le nuove generazioni di quanto accaduto e che si traduce nel riattivare la memoria storica come disperato tentativo di redenzione, individuale ma anche collettivo.
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Esistono molte teorie e versioni sulla natura del movimento di ribellione che ha provato a prendere il potere il 1° ottobre 1965. la versione ufficiale è quelle che vede negli insorti degli ufficiali legati al PKI ma secondo molti storici e giornalisti si è trattato di un finto golpe montato ad arte con l’aiuto dei paesi occidentali per liberarsi dei generali fedeli a Sukarno e incolpare dell’accaduto i comunisti. ↑
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https://indonesiaatmelbourne.unimelb.edu.au/telegrams-confirm-scale-of-us-complicity-in-1965-genocide/ ↑
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https://jacobinmag.com/2020/05/anti-communist-massacres-indonesia-brazil-communism ↑
Immagine di Davidelit (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.