Il lavoro, come tutto, è stato impattato pesantemente dalla pandemia con conseguenze ancora non del tutto chiare. Probabilmente ci vorranno molti anni per capire con profondità tutti i risvolti. Comunque, di fronte a questo tema così importante e vasto iniziamo a rifletterci grazie al Dieci mani di questa settimana.
Leonardo Croatto
I numeri di questo periodo di parziale allentamento della morsa della crisi sanitaria sono impietosi: i lavoratori dipendenti a tempo determinato sono aumentati del 5,4% solo nell’anno ’21 rispetto al ’20; ad oggi sono oltre 3 milioni i lavoratori con contratto a termine, prevalentemente donne e giovani, e il dato è già adesso, all’inizio della ripresa, più alto del periodo pre-pademia. Tutto questo a fronte di un 2021 che ha chiuso con una crescita del 6,2%.
I dati non sono ancora chiari sugli effetti che la crescita avrà sull’occupazione, e che conseguenze avrà la cessazione di alcune misure di stimolo o di tutela ad oggi in atto, come il 110% per le ristrutturazioni o il blocco dei licenziamenti attivo fino alla fine del 2021.
Il precariato diffuso ed il lavoro povero sono caratteristiche endemiche del mercato del lavoro del nostro paese, ma, ad oggi, non sembrano essere in cantiere misure di correzione. Il ministro Orlando, in una recente audizione al CNEL, ha denunciato la fragilità della contrattazione collettiva nell’assicurare condizioni di lavoro dignitose, promettendo un intervento legislativo “imminente”: è da tempo che le organizzazioni sindacali chiedono un sistema di certificazione della rappresentanza per stroncare il fenomeno dei contratti pirata, ma ad oggi non sembra che sia in lavorazione niente del genere.
Ugualmente, era promessa una riforma degli ammortizzatori sociali che si è concretizzata in una minima estensione delle protezioni ad oggi esistenti, senza nessun intervento veramente innovativo.
I segnali, quindi, spingono tutti a immaginare che il mercato del lavoro del dopo pandemia sarà poco diverso da quello precedente alla pandemia, e il “ne usciremo migliori” anche su questo frangente resterà una promessa non mantenuta.
Piergiorgio Desantis
Non è sufficiente osservare i dati per capire dove va il lavoro in Italia. L’oscillazione verso una nuova esplosione di contratti a termine e la conseguente contrazione, ancor più significativa che in passato, dei contratti a tempo indeterminato fa comunque riflettere. L’utilizzo ipertrofico del part time, spessissimo volontario, segna la vita di tante persone in maniera radicale lasciandole nell’indeterminatezza economica. Perciò non appaia strano il balzo delle dimissioni volontarie aumentate nel 2021 del 37% (in Lombardia si parla, ad esempio, di 100000 casi). Segno di una forte crisi ma anche di una volontà di non rassegnazione e, forse, anche di ricerca di contesti dove meglio sviluppare le proprie inclinazioni e gratificazioni. Nel panorama a tinte fosche che ci appare non più all’orizzonte, ci possiamo aggrappare a questo segnale di ripresa di coscienza, seppur individuale, che fa emergere una vitalità comunque insperata.
Jacopo Vannucchi
La pandemia di Covid-19 ha soltanto accelerato trasformazioni organizzative e tecnologiche che si sarebbero comunque verificate, oppure è stata l’occasione per manovre datoriali che altrimenti non si sarebbero così scontatamente imposte?È più probabile la prima opzione, se non altro perché, con il presente rapporto uomo-ambiente, una pandemia si sarebbe comunque verificata. Certo non si può non registrare la disinvolta mutazione nell’atteggiamento degli employers: dall’offshoring più smodato a tentativi di riassestarsi sul nearshoring, dal telelavoro come dorato benefit al telelavoro come modalità standard dell’esecuzione lavorativa.Ma finora l’impressione è che la pandemia abbia arricchito i ricchi e indebolito i deboli. Sul primo punto vi è poco da discutere. Sul secondo punto, basti pensare al fenomeno delle “Grandi Dimissioni”, come l’hanno definito negli Stati Uniti. La vulgata è che le persone lascino in massa il proprio lavoro perché durante il lockdown hanno riscoperto la necessità di contatto con se stessi e con le proprie aspirazioni morali. Questo può essere pure vero, in due sensi. Il primo senso è che tale abbandono di se stessi a una vita priva di lavoro tenda a tentativi di re-impiego come influencer sul web: un fenomeno poco indagato, forse pour cause, viste le conseguenze tragiche che la sovraesposizione al pubblico online produce sulla salute mentale e talvolta sulla stessa permanenza in vita. Ma un fenomeno perfettamente compatibile con il mito dell’autoimprenditorialità con cui si incolpano i poveri per essere poveri, si beatificano i ricchi per essere ricchi e si etichetta un fallito in ogni persona che si toglie la vita. Il secondo senso è che tale abbandono a una vita senza lavoro abbia il senso dell’auspicio del monatto manzoniano: «“Viva la morìa, e moia la marmaglia!” […]; e, con questo bel brindisi, si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt’e due le mani, tra le scosse del carro, diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: “bevi alla nostra salute.”». Inutile dire quali siano le conseguenze di entrambi questi sensi sulla forza del movimento dei lavoratori.Proprio per questi due diversi orientamenti ideologici – quello anarco-capitalista e quello neo-luddista –, in realtà perfettamente collimanti, tornando alla domanda che apre questo trafiletto vi è da ritenere che le manovre datoriali per rendere la forza-lavoro ancora meno costosa non avrebbero incontrato grossa resistenza, anche senza la pandemia.Più interessante semmai è come uscirne. Lasciando a parte la Cina, in cui l’aumento dei salari avrebbe probabilmente favorito il reshoring occidentale anche senza Covid-19, negli Stati Uniti il governo Biden sta tentando in ogni modo, contro l’ostilità delle imprese, di sostenere il costo del lavoro e il potere d’acquisto di salari e stipendi. Vi è cioè una scissione tra le forze che dominano il mercato da un lato e i poteri dello Stato dall’altro, ovvero l’emergere di un’autonomia dello Stato dal grande capitale. Si tratta di un fattore che non dovrebbe essere derubricato dalla sinistra.
Alessandro Zabban
La pandemia poteva essere l’occasione per ripensare la centralità del lavoro all’interno delle nostre società. Il vecchio paradigma della piena occupazione e delle 40 ore a settimana è venuto meno per scelte politiche ed economiche di chi, in alto, aveva tutto l’interesse per smantellare tutale e “rigidità”.
Ma rimpiangere il fordismo appare assurdo, anche perché la pandemia ha riportato all’attenzione della politica il problema dell’alienazione. Pur in una situazione di totale incertezza, sono tantissimi, soprattutto giovani, che rinunciano a un lavoro mal retribuito, spesso stressante e frustrante perché consapevoli che la vita non possa essere spesa così.
Il vecchio motto “lavorare meno, lavorare tutti” ritorna così di prepotente attualità. I pochi esperimenti fatti che vanno in una direzione nuova, come l’accorciamento della settimana lavorativa a 4 giorni, hanno avuto ottimi risultati, ma incontrano l’opposizione di chi ha paura di rimetterci. Al di là di queste nobili e sporadiche eccezioni, la flessibilità e gli orari ridotti restano strumento non a disposizione del lavoratore ma nelle mani del datore di lavoro che lo usa (legittimamente) per i propri obiettivi di profitto. Servirebbe invece una politica che rendesse il part-time un’opportunità per tutti, anche per i lavoratori di vivere una vita più bilanciata e meno stressante, in cui poter avere tempo per dedicarsi a se stessi.
Ma per fare questo servirebbero delle precondizioni che sono carenti in tutto il mondo ma che sono particolarmente deficitarie in Italia. Penso soprattutto alla retribuzione oraria, che in Italia è al palo da almeno un decennio. Se sono tanti i working poor che hanno un full time, è evidente che molto spesso un part-time non permette nemmeno di pagarsi l’affitto o il mutuo.
Si assiste dunque a un sempre più forte rifiuto per i modelli di lavoro del passato, sia quelli più rigidi che quelli in cui la flessibilità a calata dall’alto. Ma il malessere non pare essere incanalato politicamente e ciò lo rende atomizzato e dunque più facilmente controllabile.
Immagine da flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.