Un quarto di secolo dopo “Boogie Nights”, Paul Thomas Anderson torna sul “luogo del delitto”: la San Fernando Valley degli anni 70. Il titolo prende spunto dal nome di una catena di negozi di dischi attiva fino al 1986 in California in cui il regista si recava spesso. Nel complesso però è un modo di indicare il vinile, i 33 giri.
Non a caso c’è il riferimento anche al discorso di Nixon dell’aprile 1973 che sentenziò la crisi petrolifera, causata dall’aumento dei prezzi da parte dei paesi produttori dell’area mediorientale. L’aumento dei prezzi del petrolio avvenne perché le grandi compagnie internazionali anglosassoni (le “sette sorelle”) che decidevano il prezzo del greggio dal 1914, non erano più in grado di controllare il mercato, a causa della sempre più evidente insufficienza petrolifera degli USA.
I vinili infatti si ottengono dal PVC, il più classico dei polimeri plastici ottenuti dal petrolio che viene sciolto insieme ad altri additivi. Poi gli si dà la forma di un dischetto da hockey. Durante il passaggio successivo vengono pressati, conferendogli la caratteristica forma, e poi incisi. Negli anni ’70 mettevi una monetina nel jukebox, ti partiva un disco e la tua giornata all’improvviso diventava un’altra. Il rock era indemoniato, c’era un clima che favoriva la proliferazione culturale e infatti nacquero tanti gruppi considerati ancora oggi di culto. L’esperienza di ascolto della musica e della visione del cinema oggi è individuale, all’epoca invece era collettiva. La vera differenza risiede tutta qui. Ecco perché oggi tutto sembra superato e tutto ci annoia.
La musica ha un ruolo importante nel film. Come sempre nelle opere di P.T. Anderson, la colonna sonora è fondamentale. Ed ecco che qui troviamo But You’re Mine di Sonny & Cher, Peace Frog dei Doors, Let Me Roll It di Paul McCartney e Life on Mars? di David Bowie (che figurava già nel trailer).
Finora difficilmente Paul Thomas Anderson ha sbagliato un film.
Ha sempre rappresentato in maniera unica i veri ostacoli all’amore: la difficoltà nel relazionarsi in Ubriaco d’amore, il delirio capitalista del protagonista del “Petroliere”, l’oppressione e il dominio di “The master”, la fine di un’epoca e di un sogno (Vizio di forma), il controllo ossessivo dell’altro (Il filo nascosto). L’amore per Paul Thomas Anderson è gioco di sguardi, chimica, gelosia, attrazione, distanza, repulsione, equilibrio, attacco e difesa allo stesso tempo. Ma l’amore è soprattutto movimento, sofferenza (fisica e psicologica), disperata felicità. Sono d’accordo con lui: amare non è una cosa semplice e richiede una gran dose di coraggio. Praticamente il cinema di Anderson è un flipper impazzito. In questo caso non solo non decolla, ma in sostanza è un film che non dice niente. Attenzione ciò non significa che sia un brutto film, però si specchia troppo. È un vero peccato perché non mancano momenti di buon cinema.
Per la prima volta non ha una trama ben definita, tutto è abbastanza prevedibile. La durata è eccessiva, il film non ha slancio e il finale potrebbe arrivare anche dopo mezz’ora. Non riesco a capire però perché tutta la critica osanni questo film. Il regista si prende troppa libertà, dilata i tempi e P.T. Anderson mostra troppo il suo ego da navigato maestro del cinema. La sceneggiatura, che è veramente poca cosa, ne subisce le conseguenze. Basta vedere il finale: è evidente fin dall’inizio che andrà a finire in quel modo, eppure il regista dilata tutto e ci mette pure il rallenty per farti assaporare il momento. Beh dopo 2 ore di attesa, anche basta.
È una cosa dura da digerire, visto che il cinema di Paul Thomas Anderson è sempre ricchissimo di dettagli, sfumature, ma c’è anche attenzione a ciò che si racconta. Qui purtroppo la storia passa in secondo piano.
Anche stavolta si ha di fronte un “viaggio” di formazione, un incontro tra due giovani che sono costretti a relazionarsi, vedersi anche quando non vorrebbero. È una pellicola “sensoriale”: se lo spettatore riesce a unirsi ai due giovani protagonisti, il gioco è fatto.
Le 3 nomination agli Oscar (film, regia e sceneggiatura) mi sembrano eccessive. Le uniche cose degne di questa pellicola sono la fotografia (chiaramente in pellicola 35mm, come se il film fosse stato girato negli anni ’70) e la colonna sonora.
Veniamo alla trama.
1973. Il quindicenne Gary (Cooper Hoffman, figlio di Philip Seymour) conosce la venticinquenne Alana (Alana Haime) al liceo. Lui è un attore in rampa di lancio, lei un’assistente fotografa. Tra i due nasce un legame, ma non è amore. Lui si innamora subito di lei, ma quest’ultima lo respinge perché è parecchio più grande. Alana è una tosta, perennemente insoddisfatta e perfino un po’ stronza. A tratti è veramente insopportabile, ma è anche vero che la famiglia non è da meno. Però perlomeno lei è credibile.
Lui invece è un bonaccione, a tratti ingenuo, che sa attendere il suo turno come uno scafato giocatore di scacchi. Il suo personaggio risente anche di un difetto di sceneggiatura non da poco. L’attore che lo interpreta, Cooper Hoffman (classe 2003), all’epoca delle riprese era già maggiorenne. Chi è che a 15 anni va in giro a fare l’imprenditore, vestendosi in giacca e cravatta, sentendosi così sicuro di sé? Figuriamoci i quindicenni di oggi, dopo due anni di Covid.
Gary sussurra ad Alana: “io non ti dimenticherò e tu non dimenticherai me”. Il film è tutto qui. Prima amanti molto silenziosi, poi diventano colleghi per vendere materassi ad acqua. I due si incontrano, si separano, si rincontrano, si riseparano, litigano, fanno la pace, condividono bei momenti insieme, si aiutano nei momenti difficili (Gary che la soccorre quando cade dalla moto guidata dal divo del cinema Jack Holden, interpretato da Sean Penn). Sembra di rivedere “Harry ti presento Sally” in fase giovanile, ma senza comicità e senza la scena dell’orgasmo alla tavola calda.
Siamo distanti anni luce da “Il filo nascosto”, qui siamo nel presente più che negli anni 70. Prendiamo la scena della festa di Capodanno de “Il filo nascosto”: quando il party è finito, i palloncini sono in terra, tutti sono fermi, ma Daniel Day-Lewis e Vicky Krieps sono abbracciati, si amano e rappresentano un’alternativa a quel mondo inerme, immobile. Qui è l’esatto contrario: in una scena, i due giovani sono sdraiati su un materasso ad acqua. Lui vorrebbe toccarla, lei sta per addormentarsi. Lui si trattiene per via della rigidità di lei. Stavolta però non c’è gioia e nemmeno la voglia di combattere assieme. Non che i due stiano fermi (assolutamente no), ma come diceva Venditti “fanno giri immensi e poi ritornano”. Sullo sfondo, oltre alla musica, ci sono grandi nomi in veste di comparse: da uno scatenato Bradley Cooper (che ha la scena più estrema della pellicola) a un autoironico Sean Penn, passando per il cantante Tom Waits e John C. Reilly.
LICORICE PIZZA ***
(USA 2021)
Genere: Commedia, Drammatico, Sentimentale
Regia e Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson
Cast: Alana Haim, Cooper Hoffman, Sean Penn, Bradley Cooper, Tom Waits
Durata: 2h e 13 minuti
Fotografia: Michael Bauman, Paul Thomas Anderson
Prodotto da MGM
Distribuzione: Eagle Pictures
Nei cinema da marzo
Budget: 40 milioni di dollari
Candidato a 3 Premi Oscar (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura originale)
Trailer Italiano qui
La frase: io non ti dimenticherò e tu non dimenticherai me
Fonti: Comingsoon, Cinematografo, Sentieri Selvaggi, My Movies, Movieplayer
Regia ***1/2 Film *** Interpretazioni *** Musiche **** Fotografia ***1/2 Sceneggiatura ***
Immagine da ilmanifesto.it
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.