Riflettendo sulla proposta del ddl Fiano
Il 25 luglio Macron ha annunciato la stipula di un accordo, a Parigi, tra al Serraj e il generale Haftar, mostrando un rinnovato protagonismo francese nello scenario mediterraneo dopo la fallimentare presidenza Hollande. Lo stesso giorno i quotidiani italiani riportavano la notizia che i militari francesi in Niger chiudono da anni gli occhi sul traffico di esseri umani nella tratta Africa-Europa. Il 27 luglio, dopo aver già disconosciuto gli accordi dell’era Hollande con Fincantieri, l’esecutivo francese ha infine annunciato la nazionalizzazione dei cantieri Stx.
In pochi giorni dunque i rapporti italo-francesi sono stati sottoposti a forti tensioni, nonostante le coordinate ideologiche apparentemente comuni a entrambi i governi. L’esecutivo italiano è apparso soffrire l’attivismo di Parigi su tutti i fronti, anche se le inconsistenze dell’accordo libico hanno poi portato Macron a coinvolgere Gentiloni, smentendo altresì l’istituzione in Libia di punti di identificazione per i migranti a gestione francese.
Il polverone nazionalistico che in questi giorni è stato sollevato da stampa e politica italiane (“orgoglio” e “dignità” nazionale sono concetti che si rincorrono in articoli e post social di giornalisti riscopertisi idoli delle masse) attorno alla vicenda Stx ha in gran parte coperto un lato profondo e oscuro che a mio modesto parere avrebbe meritato un po’ più attenzione. Non sono bastate infatti nemmeno le uscite di giornali assolutamente mainstream e sdraiati sulla narrazione dominante come Repubblica a riportare l’attenzione dell’opinione pubblica su quella che – fosse andata in porto – sarebbe stata pur sempre una colossale e profittevolissima operazione di espansione di quel settore industriale-militare italiano a partecipazione statale, di cui Fincantieri è una costola assieme alla consorella Leonardo, che magari al momento può essere interessato alle navi da crociera, ma punta sempre un occhio alle portaerei. Una dimenticanza abbastanza sintomatica dell’attuale fase terminale dell’agonia del movimento pacifista italiano, incapace ormai di analizzare e pensare, oltre che di agire.
La narrazione degli italiani bravi a fare innocue navi da crociera ha – in mancanza di voci dissonanti – completamente eclissato la realtà dei miliardi e miliardi di commesse militari per conto degli stati maggiori di mezzo mondo, compreso un Paese canaglia come il Qatar a cui Fincantieri è stata ben contenta di fornire una marina militare, che le aziende francesi e italiane si sono contese in questi anni. Affari in un settore che non conosce crisi, in cui lo stato italiano risulta direttamente – attraverso le partecipazioni in aziende come Leonardo e Fincantieri, unite da una collaborazione proprio nel settore difesa – o indirettamente – attraverso le decine di fiorenti imprese private italiane operanti nel campo degli armamenti – tra i leader mondiali in quanto a giro d’affari, con l’aspirazione non troppo celata di conquistare posizioni di mercato fino ai limiti del monopolio. Affari che molto probabilmente sono al centro della querelle surreale tra il nostro Paese ed i cugini d’Oltralpe, che infatti dopo il bastone della nazionalizzazione sono stati prontissimi ad offrire la carota della cooperazione militare. Dignità nazionale da difendere non pervenuta.
E così dopo aver visto gli ultimi governi italiani svendere ogni settore industriale strategico e averli visti acquistare solamente debiti bancari, scopriamo che non siamo troppo portati nemmeno per gli affari. Certo, non è una grande scoperta, ma la notizia è un’altra. Infatti, quando Fincantieri si muove all’estero per acquistare, i Paesi esteri fanno in modo sacrosanto i propri interessi evitando di svendere i propri settori strategici. Poco importa il cappello sovranazionale europeista quando si parla di interessi, infatti nell’affaire Stx-Fincantieri la Francia si è opposta all’acquisizione da parte dell’Italia di un’azienda che in termini monetari vale circa 80 milioni di euro. Da quando è sorta l’Unione, cioè nell’ultimo ventennio, lo shopping francese in Italia è stato pari a 101,5 miliardi di euro. Un vero saccheggio che non è avvenuto solo ad opera dei francesi, ma da cui hanno tratto beneficio tutte le nazioni forti del continente. D’altra parte che l’Unione Europea abbia aumentato le disuguaglianze non è certo un’affermazione difficilmente dimostrabile, anzi è suffragata praticamente da ogni dato socio-economico comparato.
Questa settimana c’è però un’altra vicenda con la quale occorre confrontarsi: la Libia. Abbiamo la spartizione delle ex-colonie in un’ottica di neocolonizzazione in cui i nuovi Stati egemoni in Europa vengono a dettare legge sui territori devastati dal caos. Così troviamo l’italia impegnata in missioni militari, e sottomessa al punto da sobbarcarsi tutti costi della colonizzazione libica per lasciare i benefici energetici sempre al medesimo soggetto, la Francia. Infatti l’opera di Macron rivolta alla promozione della pacificazione tra Sarraj e Haftar è tutta nell’ottica di proseguire la pacificazione del Paese libico nell’era post-Gheddafi assumendo nuove aree d’influenza. Quando si tratta poi di appoggiare le richieste italiane si decide di approvare lo stanziamento di ulteriori fondi alla Libia, proprio al fine di drenare risorse. I governanti italiani da Padoan a Gentiloni appaiono titubanti, a voler essere generosi.
La verità è che da buoni servi di questo sistema europeista restano totalmente spiazzati dai ceffoni gratuiti che questo riserva loro dopo decenni di cieca fedeltà, senza il coraggio nemmeno di dialogare con un altro attore come la Russia. Mosca sostiene Haftar e gioca un ruolo forte in Libia, sarebbe fondamentale incidere sulle trattative sostenendo Haftar, ma questo comporterebbe sbilanciamenti e soprattutto uscire dalla logica da imperialismo da straccioni che contraddistingue da ormai oltre mezzo secolo il nostro paese. È ormai chiaro che servire supinamente il padrone atlantista non ci porterà più alcun beneficio, eppure i nostri governanti si ostinano a seguire la via del sacrificio estremo in nome della fede, sulla pelle d’altri però. In tutto questo emergono i buoni consigli degli scherani dell’impero americano che tornano alla carica per fagocitare una colonizzazione militare della Libia, in ripicca alla Francia, con eserciti di occupazione di centinaia di migliaia di uomini come unica alternativa al caos creato finora (vedi qui).
Assistiamo al declino dell’impero americano e una nuova alba non si riesce ancora ad intravedere.
La storia non ha trovato ancora una propria dimensione della riflessione pubblica all’interno del mondo globalizzato. Altrimenti si potrebbe aprire una riflessione sulla perdita di rilevanza dell’Unione Europea per gli Stati Uniti, facendo riferimento alla politica internazionale nell’area del Mediterraneo. Ha molto più peso la scelta dei Governi di Tel Aviv di quanto possa dichiarare la “nostra” Mogherini in sede comunitaria.
Tra i paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, dopo la Brexit, è rimasta la sola Francia, pienamente responsabile dell’ultimo destabilizzazione libica e tutt’ora interessata a giocare un ruolo di rilevo nei nuovi assetti economici (e quindi di potenza). L’Italia a malapena balbetta dei propri interessi, mentre la Germania conquista l’etichetta di paese “antipatico” agli occhi dei più, perché tenace nel voler giocare un ruolo relativamente autonomo.
Il modo in cui Renzi ha accettato il passo indietro di Macron su STX spiega molto delle diverse priorità tra chi vuole vincere le elezioni e chi vorrebbe almeno pensare in termini di politica industriale (non che sia il caso dell’esecutivo Gentiloni, ma certo un i ministri attualmente in carica male potevano accettare senza almeno fingere qualche polemica).
Non c’è nessun intervento dello stato in economia nella scelta di Parigi. Nella concorrenza al ribasso i sud coreani potevano andare, gli italiani no, soprattutto in tempi di crisi.
Al contempo fa sorridere chi si scandalizza per il presunto reato di lesa maestà sulla Libia. Non è un paese nostro. Se sul piano internazionale non abbiamo niente da offrire, è facile che qualcuno ci passi sopra, anche invitando la NATO a bombardare impianti ENI…
Nella sua recente intervista a la Repubblica Berlusconi ha definito storicamente colbertista la politica economica francese, ricordando implicitamente quale fu l’orientamento dei suoi governi e del ministro Tremonti, ad esempio nell’ostacolare la fine dell’italianità di BNL. Berlusconi, che alle europee del 2009 chiese un voto per difendere gli interessi dell’Italia in sede Ue, mostra quindi di concepire come insuperabili le politiche di potenza nazionali, delle quali la Ue sarebbe soltanto l’arena di scontro.
Diverso l’orientamento di Renzi, per cui la Ue non è tanto il campo di battaglia quanto il premio stesso. I protagonismi nazionali nella sua ottica possono solo servire come stimolo per forzare la rotta delle istituzioni comunitarie. Di ciò testimonia la storia dei mille giorni del suo governo.
Il peso politico dell’Italia in sede Ue si è ovviamente ridimensionato a seguito del prevalere del No nel referendum costituzionale, mentre, di converso, l’elezione di Macron ha fornito nuovo slancio alle ambizioni francesi. La descrizione di un Macron nazionalista e protezionista, che rivelerebbe un europeismo solo di facciata, risulta però inesatta. Semplicemente, per l’inquilino dell’Eliseo se l’unico attore possibile è l’Unione Europea questa non può che consolidarsi con una forte direzione francese. In questo la sua lettura non è affatto dissimile da quella di Renzi. Se oggi Macron appare in grado non tanto di dettare la linea (l’accordo Serraj-Haftar si è presto sgonfiato) quanto di mantenere l’iniziativa, chi lamenta la passività del governo italiano potrebbe ricordare come ha votato il 4 dicembre: per indebolire l’Italia?
Detto questo, l’esecutivo di Roma non è affatto assolto dei suoi ritardi sulla questione libica, in un territorio nel quale gli interessi italiani dovrebbero giocare un forte ruolo a Paese stabilizzato. La scelta, condizionata evidentemente da più influenti partners internazionali, di appoggiare Serraj si è rivelata non solo un ulteriore fattore di allontanamento dall’Egitto (altro attore regionale di importanza rilevante per l’Italia) ma anche un errore tattico in quanto il governo “ufficiale” si rivela molto debole sul campo.
La defenestrazione di Gheddafi voluta da Sarkozy nel 2011 si rivelò fin subito come un madornale errore geopolitico. Non stupisce che ora Macron voglia provare a rientrare nello scacchiere libico con una strategia diversa ma con la medesima finalità neocolonialista di sfruttamento delle risorse energetiche locali. In realtà l’accordo stretto nei pressi di Parigi fra il presidente del Consiglio presidenziale di Tripoli Fayez al-Sarraj e il comandante dell’esercito nazionale libico Khalifa Haftar è per ora puramente simbolico e la pacificazione della Libia resta un miraggio, ma intanto Macron ha ottenuto il suo obiettivo: quello di rivendicare una vittoria diplomatica di un certo rilievo e di imporsi come un attore decisivo in un contesto tanto complesso quanto appetitoso.
C’è chi si è meravigliato per l’apparente contraddizione fra un Presidente a parole europeista e nei fatti sciovinista ma in realtà non c’è nessuna incongruenza fra l’imperialismo nazionale e questa Unione Europea pensata senza una politica estera condivisa e nata per fare gli interessi delle multinazionali delle nazioni più forti (come ben dimostra la politica economica tedesca e le sue strategie di “investimento” nell’est Europa e in Grecia). Macron ha semplicemente capito in fretta le regole del gioco e non si vuole far sfuggire l’opportunità di allargare la sfera di influenza francese sull’Africa del nord anche alla Libia, divisa e ricca di petrolio, contrapponendosi agli interessi dell’Italia che ha tradizionalmente un rapporto privilegiato con la sua ex colonia. La sensazione è che il nuovo protagonismo francese, piuttosto che ricercare la pace, rinvigorisca la concorrenza fra le due potenze in declino e acceleri la corsa al saccheggio di una Libia la cui stabilità e unità è sempre stata subordinata alla questione della concessione dei giacimenti.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.