La guerra in Ucraina ha visto l’assenza di una protagonista attesa: l’Europa, che non è stata capace di agire come soggetto unito in nessun fondamentale. I singoli stati membri hanno gestito autonomamente la propria politica estera, economica e militare. Ma allora, che senso ha il progetto dell’Europa unita?
Leonardo Croatto
In questi giorni si sono tenute le elezioni presidenziali in Francia. La vittoria di Macron è stata vissuta come un successo per la tenuta del progetto dell’unità europea, mentre alla Le Pen era stata attribuita la patente di antieuropeista.
Eppure, quella di Macron (e della maggior parte dei politici francesi) è una strana idea di unità: l’Europa deve essere un’appendice della Francia. L’Europa deve, secondo la lettura della politica francese, servire agli interessi nazionali del paese, lasciando però ampia autonomia nella gestione delle dinamiche interne ed estere.
Questo concetto di “autonomia strategica”, così come questa lettura dell’Europa strumento di abilitazione per le politiche nazionali e non come soggetto autonomo riassumente gli interessi di stati nazione diversi, è condiviso in maniera più o meno esplicita da tutti i paesi membri: un sostanziale protezionismo nei confronti degli interessi economici del proprio stato e una totale autonomia nel definire gli assetti di politica interna ed estera.
La crisi Ucraina ha reso evidente l’insussistenza politica europea, dimostrando quanto sostenuto da tempo dai critici: l’Unione Europea è uno spazio commerciale provilegiato per soggetti politicamente autonomi, i cui interessi divergono. L’Europa come spazio di unione dei popoli è ancora ben lontana.
Jacopo Vannucchi
La crisi ucraina ha radici lontane, come minimo risalenti alle elezioni presidenziali del 2004, ma il suo periodo armato si trascina da otto anni sotto tre diversi Presidenti degli Stati Uniti. Tutti e tre, a differenza dei predecessori, hanno dovuto far fronte al relativo indebolimento della capacità statunitense di dettare l’agenda geopolitica globale e tutti e tre hanno avuto in mente un ruolo preciso per la NATO: presidiare una frontiera ormai di secondaria importanza. Di qui il crescente fastidio per gli affari europei e l’altrettanto crescente richiesta ai membri europei di aumentare il contributo al bilancio dell’organizzazione.
Ciò che però gli Stati Uniti non sono disposti a fare è lasciare agli europei anche la determinazione della politica militare nello scacchiere europeo. Ciascun Presidente ha agito a suo modo: Obama ha fatto ricorso prevalentemente all’appeal ideologico-culturale, Trump prevalentemente alla minaccia (ne sanno qualcosa il Presidente francese e le sue dichiarazioni su NATO e UE del 2018), Biden a una combinazione di entrambe avendo lanciato una crociata internazionale in grande stile che propone una dicotomia fra democrazia e autocrazia – e risultando di fatto il più prossimo alla linea neo-conservatrice.
Agli Stati Uniti, beninteso, la permanenza in vita dell’Unione Europea conviene: purché essa si limiti ad essere un libero mercato capitalistico in continua espansione. In questo modo i grandi fondi multinazionali, che in Occidente sono in prevalenza esterni all’Unione Europea, possono trarre profitti facili da un’area in cui la continua espansione consente di ribassare costantemente il costo del lavoro. A diciotto anni dall’allargamento ad Est, basta il minimo accenno di convergenza salariale (ma il salario medio polacco è ancora un terzo di quello italiano!) perché si chieda di comprimere ulteriormente il valore sociale del lavoro facendo entrare la Moldavia o l’Ucraina; non dovremmo stupirci se esauriti i Balcani si passasse a considerare l’ingresso della Turchia, e poi quello del Marocco.
È chiaro che un’Unione di questo tipo è doppiamente fiaccata al proprio interno: dalla divergenza salariale e dalla divergenza culturale; e non può certo essere una minaccia alla supremazia statunitense sulla sponda orientale dell’Atlantico.
Sembrerebbe dunque paradossale che la maggiore resistenza a questo andazzo venga da Stati-nazione come Francia e Germania, mentre le istituzioni comunitarie si pieghino, in un modo imbarazzante anzitutto per chi le rappresenta, al vento di Washington. Ma ciò è proprio la conferma di quanto l’Unione Europea nella sua conformazione attuale non sia all’altezza degli obiettivi che proclama di voler realizzare: dopo aver contestato per anni il governo di destra polacco (altra barzelletta, perché un governo che viola lo stato di diritto e che favorisce omofobia e antisemitismo deve essere sanzionato, non semplicemente rimbrottato) oggi ne sposa ardentemente la politica estera – che del resto esso, come già negli anni 1920 e ’30, svolge anche per conto terzi.
Ci sarà uno scatto del nucleo franco-tedesco? Più che dalla rielezione di Macron, che è un fatto formalmente compatibile con la volontà statunitense UE = MEC, qualche speranza la si trae dal saldo posizionamento di industrie e sindacati tedeschi contro l’embargo alla Russia. Ma è una speranza rischiosa, poiché anch’essa è compatibile con un progetto oggettivamente anti-europeista: la continuazione di una Machtpolitik tedesca autonoma.
Alessandro Zabban
Molti analisti hanno sottolineato l’unità dell’Occidente e quindi anche dell’Unione Europea nel sostegno all’Ucraina. L’Europa tutta però, più che agire con un intento comune, è parsa seguire in blocco gli Stati Uniti e i suoi più stretti alleati anglosassoni nell’imporre sanzioni e mandare armamenti.
Il problema è che gli interessi di Europa e USA non coincidono affatto. Washington ha tutto l’interesse a mantenere in vita il conflitto per impegnare la Russia sul fronte occidentale con l’obiettivo di indebolire il principale alleato della Cina e obbligare allo stesso tempo l’Europa a riarmarsi. L’Europa invece è economicamente legata alle forniture energetiche russe e non ha nessun interesse strategico a contrastarla. Un conto è denunciare la guerra di Putin, altra cosa è diventare di fatto nazioni cobelligeranti inviando armamentari pesanti e cercare di escludere la Russia dalla comunità internazionale.
Una lettura meno ideologica di quanto accaduto dal 2014 in Ucraina, riconoscendo le legittime aspirazioni del Donbass (aspirazioni di vivere in pace, prima ancora che di autonomia), avrebbe potuto permettere di leggere i fatti di oggi in maniera più equilibrata, senza rompere completamente le relazioni diplomatiche con una potenza nucleare che ha tante colpe ma anche legittime richieste di sicurezza.
Questa situazione invece mostra tutta la cronica sudditanza europea nei confronti di Washington. La politica estera comune dell’Unione Europa resta una politica eterodiretta in cui pare impossibile trovare una linea autonoma e coerente con i propri interessi e obiettivi. L’unità è solo quella di tirarsi la zappa sui piedi, anche se alcuni paesi sono poco restii a compiere il proprio suicidio economico definitivo, temporeggiando sulle sanzioni alle forniture energetiche russe.
La rottura con Mosca, se non verrà in qualche modo ricucita almeno in parte, avrà delle conseguenze gravi e tutta l’area dell’Europa orientale, a prescindere dagli sviluppi bellici sul terreno ucraino, vedranno un considerevole incremento di situazioni potenzialmente destabilizzanti. Spetterebbe all’Europa provare a spegnere l’incendio che si è propagato alle sue porte, ma sta invece seguendo Washington nel gettare ulteriore benzina sul fuoco.
Immagine da openclipart.org
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