Ad appena un anno dal rilascio del disco solista e del film “Western Stars”, Bruce Springsteen torna a pubblicare un nuovo album. Già dopo un primo assaggio, mi ha trasmesso tanta voglia di lottare e di guardare avanti. Ogni volta che metto un suo disco, al termine dell’ascolto mi sento arricchito umanamente. Nella vita c’è sempre da imparare e nella musica del Boss questo succede ogni volta. Il primo vero messaggio che esce molto forte è davvero controcorrente: il vero tabù di oggi è parlare dell’età adulta e dell’invecchiamento. Bruce Springsteen invece ne fa il suo punto di forza. Un racconto musicale (quasi) senza filtri. Si parla di dubbi, paure, depressione, fantasmi del passato. Il rock non è solo quando sei giovane, ma per tutta la vita. Non è solo musica: è comunità, famiglia, condivisione, passione, amicizia e solidarietà. Quando nel 2002 venne pubblicato “The Rising”, fu l’antidoto dopo la botta dell’11 settembre 2001. Per molti è stata la scossa di cui avevamo bisogno. Oggi è diventato l’inno della campagna democratica alle prossime presidenziali americane. Springsteen sostiene Joe Biden. “Letter to you” è il disco di cui abbiamo bisogno oggi. Un antidoto contro la situazione generata dalla pandemia. Springsteen celebra, in momenti di grande isolamento, i momenti belli e quelli tristi della vita, i valori della condivisione e dell’unità. Il 23 settembre ha compiuto 71 anni, ma l’amore per la musica non lo ha mai perduto. E quelli come me che lo ascoltano ininterrottamente non possono che gioire. Questo disco è una “letter to you” fatta d’amore, dubbi, paure, gioia. Tutte emozioni umane che da sempre ci fanno apprezzare Bruce Springsteen.
Il Boss è come un ottimo vino: più invecchia, più aumenta di qualità. È ormai vicino ai 50 anni di carriera (l’anniversario cadrà nel 2023 se ci riferiamo al primo album pubblicato). A 71 anni sa fare ancora grande rock.
“Letter to you” è fresco, vitale, umano. È come riaprire un album di foto di quando eri adolescente e dentro trovi roba che non ti aspetti di trovare. Compresi i fantasmi del passato che ti passano vicino.
Se non ci fosse stata la pandemia, nel 2021 sarebbe partito il tour mondiale. Invece, stando alle parole del Boss, “penso che non si partirà prima del 2022. Sarebbe una fortuna perdere un solo anno di tour. Quando superi i 70, non ti rimangono tante tournée e anni da vivere e perciò è un problema se ne perdi uno o due. Anche perché ora la band ora è al top e io mi sento più vitale che mai. E invece non posso fare una cosa che è parte fondamentale della mia vita, la cosa che faccio da quando avevo 16 anni”. Questa dichiarazione, unita a diversi indizi sparsi lungo il disco, mi fanno pensare che probabilmente sarà uno dei suoi ultimi lavori (e il prossimo sarà l’ultimo tour).
Contemporaneamente all’uscita del disco, in esclusiva su Apple Tv è stato rilasciato anche il filmato sulla nascita dell’album (trovate qui il trailer). Una sorta di backstage con le registrazioni in studio con il Boss e la E-Street Band. Purtroppo ancora non sono riuscito a vederlo. Spero di farlo presto come ho fatto con l’emozionante film Western Stars.
Questo disco arriva 6 anni dopo “High Hopes”, di nuovo affiancato dagli storici stakanovisti della E-Street Band. “Letter to you” è nato nella sua sala di registrazione di Cold Neck (nel New Jersey) alla fine del 2019. La pandemia ancora non era arrivata. In appena 4 giorni dal vivo in studio l’album è stato ultimato, poi il quinto è servito per riascoltarlo e per fare qualche piccola modifica. E c’è anche un po’ d’Italia in questo disco: aldilà delle appurate origini italiane di Springsteen, sua moglie Patti e Steve Van Zandt, l’album è stato suonato con una chitarra fatta nel nostro Paese, donata al Boss da un fan durante il tour teatrale a Broadway. E lo stesso Bruce ha ringraziato i fan italiani mettendo nel video di “Ghosts” un breve fulmineo estratto da un concerto a San Siro, Milano.
Si sente pura energia musicale, come ai vecchi tempi. Questo album non è lontano dalle atmosfere di “Magic” (scritto ai tempi del secondo mandato di Bush). Ascoltando “Ghosts”, il Boss dice forte e chiaro “I’m alive and I can feel the blood shiver in my bones”. Tradotto: “sono vivo e posso sentire il brivido del sangue nelle ossa”.
“The river” ha appena compiuto 40 anni, ma questo disco è vitale come allora. È una sorta di rinascita, partendo però da pensieri mortiferi. Sembra un ossimoro, ma è così. Il sound della E-Street Band è di nuovo quello dei bei tempi: il piano del maestro Roy Bittan, il sax di Jake Clemons (nipote dell’indimenticabile Clarence), le chitarre di Steve Van Zandt e Nils Lofgren, i cori di Patti Scialfa, il basso di Garry Talent, l’organo di Charlie Giordano (che è entrato nella band dopo la morte di Danny Federici). Senza dimenticare la potente batteria del grande Max Weinberg.
C’è tanta storia di Springsteen in questo album. D’altronde per il Boss la musica è stato il suo lavoro dai 16 anni fino a oggi che ne ha 71. Prima di diventare una rockstar planetaria, negli anni Sessanta c’era un gruppetto di ragazzini terribili che si chiamavano Castiles. Si esibivano nei bar, nei locali notturni e si ispiravano al look dei Beatles. Il cantante era George Theiss, un cantante rubacuori. Fu lui a chiedere a un giovane Bruce ad entrare nella band come chitarrista solista (nella foto a fianco il Boss è il primo a sinistra in basso, Theiss è accanto a lui).
Lui e Springsteen erano amici e andavano a scuola assieme, ma poi divennero due galli nello stesso pollaio e si becchettavano di continuo. Anche Bruce voleva fare il frontman. L’ego dei due era grande. «Erano in competizione per lo stesso ruolo nella band», ha spiegato a “Rolling Stone” la vedova Theiss, Diana. «George si sentiva minacciato». I Castiles si sono sciolti nel 1968. Uno dei due cantanti è diventato Bruce Springsteen, l’altro no. A 20 anni, Theiss ha sposato Diana, ha trovato impiego come carpentiere, ha continuato a fare musica per hobby nei club del Jersey Shore. Quando Springsteen ha scritto The River pensando alle vite della sorella e del cognato, Diana pensava che dentro ci fosse anche George.
Per Theiss non è stato facile vedere l’ex compagno passare da un trionfo all’altro. Qualche anno fa, a una festa a cui era stato invitato nella proprietà di Springsteen, non si è alzato per partecipare a una jam nonostante fosse stato invitato a unirsi al gruppo che suonava. «Non gli piaceva il ruolo di quello che non ce l’ha fatta», spiega Diana. «Non significa che la sua vita sia stata deludente, anzi». Secondo Diana, Springsteen lo capiva. «Ho sempre immaginato che vedesse in lui il suo alter ego». Poi nel 2018 quando Springsteen scoprì che Theiss aveva un cancro ai polmoni, prese un aereo per stargli vicino prima che morisse. Era il periodo del tour teatrale di “Springsteen a Broadway” e fu proprio in quel momento che la scrittura del Boss risentiva dei pensieri mortiferi.
«Finisci inevitabilmente per pensare alla tua morte», disse Bruce. «Per una ragione o per l’altra, buona parte dei membri della band sono morti giovani, alla fine restavamo solo George ed io». Poi anche lui se n’è andato ed è rimasto solo Bruce.
“Last man standing” parla dei Castiles e delle esibizioni davanti al pubblico nei bar. Mentre rimembra il passato, il Boss ammette che “il tempo fa il conto di chi se n’è andato”. Ma questa storia è alla base anche del pezzo più bello del disco: “Ghosts”, canzone che riecheggia Badlands, No Surrender, Land of hope and dreams e The ghost of Tom Joad. Springsteen rivede i fantasmi del passato, cercando di andare avanti. Tra questi spiriti, oltre a George Theiss, ci sono anche Springsteen senior (il padre che non voleva che il figlio diventasse un musicista) e due componenti della E-Street Band che se ne sono andati: Danny Federici e Clarence Clemons (rimpiazzati rispettivamente da Charlie Giordano e dal nipote di Clarence, Jack).
Sono loro i protagonisti del pezzo iniziale One Minute You’re Here e del pezzo finale I’ll See You in My Dreams. Sicuramente una scelta non casuale confermata da un estratto di “Ghosts”: “alzo il volume e mi lascio guidare dagli spiriti / ci rivedremo, fratelli e sorelle, dall’altra parte”.
Nonostante “The rising” sia stata scelta per la campagna presidenziale di Joe Biden, c’è poca politica in questo disco.
L’unico pezzo che parla di Trump è sicuramente “Rainmaker”. Qui un truffatore offre di un demagogo che offre false speranze ai contadini (sulla scia del capolavoro “The ghost of Tom Joad”). Ma se ascoltiamo bene “House of a Thousand Guitars” c’è un piccolo riferimento a Trump, definito un clown criminale che ha rubato il trono. La canzone parla di altro, ma il riferimento non sembra casuale. Nell’intervista a Rolling Stone però non manca di dire la sua, politicamente parlando:
“Se vogliamo vivere nell’America che sogniamo, serviranno cambiamenti seri e sistemici. Abbiamo abbandonato i nostri amici, fatto amicizia con i dittatori, negato la scienza e il cambiamento climatico. È terribile e straziante, una totale distorsione dell’idea americana. La prima cosa da fare è mandare via l’amministrazione Trump e ricominciare da capo.
Non ci sarà alcuna società post razziale. Non ci sarà mai. Ma credo che una società in cui tutti si considerano semplici uomini e donne, americani, è possibile. Il black lives matter un movimento che porta grande speranza, è un gruppo incredibilmente diverso di giovani che manifestano nelle strade. È la storia che lo chiede”.
Non a caso la celebre canzone “American Skin (41 shots)” è diventato l’inno della lotta dei neri contro la polizia e il suprematismo bianco. La durata della canzone rappresenta gli ultimi attimi di vita di George Floyd prima di morire soffocato (vedi qui).
Da segnalare che nell’album “Letter to you” (uscito il 23 ottobre per Columbia Records, etichetta inglobata ormai nella Sony) ci sono tre singoli del passato mai pubblicati. Nella scaletta sono incluse tre vecchie canzoni composte dal cantautore prima della registrazione del suo album di debutto, Greetings from Asbury Park, N.J., del 1973. Molti fan puri del Boss le conosceranno per via dei bootleg dei concerti. “Janey Needs a Shooter “ fu composta nel 1972, ma fu scartata dall’album The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle (1973). “If I Was the Priest”, composta tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971, era stata eseguita da Springsteen in versione acustica il 2 maggio 1972 alla Columbia Records. Grazie all’ascolto della demo, il giovane cantautore Springsteen fu ingaggiato dall’etichetta discografica. “Song for Orphans” fu anche presa in considerazione per essere inclusa in Born to Run uscito nel 1975. Dimenticata per oltre trent’anni, venne rispolverata nel 2005 al “Devils & dust tour” in alcuni concerti. Adesso analizziamo l’album canzone per canzone.
One minute you are here
L’apertura del disco è affidata al solo Bruce. E’ una classica ballad lenta, una meditazione sognante sulla morte. “Un minuto sei qui, il minuto dopo non ci sei”. Canzone che sembra uscita da Roy Orbison, autore di canzoni come Pretty Woman. E’ la solitudine dell’esistenza, la fragilità dell’uomo ai tempi del Covid.
Letter to you
È il primo singolo passato nelle radio che ha anticipato il resto del disco. Dopo 6 anni, rientra in scena la E-Street Band. Quando ho sentito questa canzone la prima volta, non mi ha fatto molto effetto. Ma poi riascoltandola si è insinuata sotto pelle. La titletrack è il senso della poetica di Springsteen: una lettera in cui il Boss ha «cercato di invocare tutto ciò che credo sia vero». Un inno autentico alle persone, ai legami duraturi, alla comunità e ai valori fondanti. Sono con certe qualità possiamo uscire da questo momento difficilissimo. Questa canzone ricorda molto “Shame of the moon” di Bob Seger. Il video ufficiale lo potete vedere qui.
Burnin’ train
La batteria di Max Weinberg di questo pezzo ricorda l’epica “Candy’s room”. Un martello. Assolo di chitarra fiammeggiante come quello dei vecchi tempi. Sembra il Bruce di fine anni 70. Una tra le migliori canzoni del disco. Take me on your burnin’ train.
Janey needs a shooter
Prima delle tre canzoni degli anni 70 che Springsteen non ha mai pubblicato. Grazie anche a questa canzone presentata come demo, la Columbia Records fece un contratto discografico al giovane Bruce (all’epoca aveva 24 anni). La canzone parla di Janey che ha bisogno di qualcuno che gli stia accanto (shooter) prima di una visita ginecologica. Pochi anni, nel 75, dopo arrivò il successo con la pubblicazione di Born to run. Questa versione in studio rende giustizia alla canzone rispetto alla versione acustica dei bootleg. C’è perfino l’armonica stile The River. Il riferimento è ancora Bob Dylan. Interessante esperimento: il testo è di un Bruce poco più che ventenne, la musica aggiornata a pochi mesi fa.
Last man standing
Come ho detto in precedenza, parla dei concerti dei Castiles e dei locali dove suonavano nel weekend. La prima band di un giovanissimo Springsteen e di George Theiss. Erano tempi in cui si esibivano nei bar con look alla Beatles. (“Knights of Columbus e il Fireman’s Ball / venerdì sera alla Union Hall / I club in pelle nera lungo la Route 9”). Dopo aver rimembrato i bei tempi, gli ardori giovanili, Bruce ripensa che tutti gli altri della band sono morti. E’ rimasto solo lui. Questa canzone fa da prologo a “Ghosts”.
Grande assolo di sax di Jake Clemons e la batteria di Max Weinberg cresce alla distanza. Questo pezzo, insieme a quello successivo, musicalmente sono quasi gemelli.
The power of prayer
È una ballata rock stile “None but the brave” e “Radio Nowhere”. Sembra il gemello di “Last man standing” a livello musicale. C’è il pianoforte di un ottimo Roy Bittan che traina la canzone insieme all’organo di Charlie Giordano. Il potere della preghiera, questa la traduzione della canzone, va a ricordare, senza citarli, Danny Federici e Clarence Clemons, defunti membri della E-Street Band. Tant’è che nel finale è il sax del nipote Jake Clemons a prendersi la scena. Una delle più belle canzoni del disco.
House of a thousand guitar
Questa canzone è incentrata sul piano di Roy Bittan. Quando questo succede, spesso finisce per essere un gioiello (Backstreets, Jungleland, Something in the night sono esempi illustri). Parte piano, ma è un crescendo e lentamente decolla. La classica rock ballad di Springsteen a tempo medio. Parla di un ipotetico futuro in cui nel mondo regna la fratellanza tra umani. Un Eden rock sulla terra dove la musica non finisce mai. Un mondo spirituale ideale in cui vivere. C’è anche un riferimento a chiese e prigioni che non può che richiamare alla mente una delle pietre miliari del Boss: la micidiale Jungleland.
E’ una delle canzoni di punta del disco, molto orecchiabile. Parla anche delle prossime elezioni americane: Springsteen rincara la dose su Trump. “Il pagliaccio criminale ha rubato il trono, ruba ciò che non potrebbe mai possedere”. E preannuncia una riscossa popolare alle elezioni di novembre: “dagli stadi ai bar delle piccole città, illumineremo la casa delle mille chitarre”. La casa delle mille chitarre è quel mondo dove “all good souls from near and far” si rinchiudono tutti assieme per qualche ora, ai concerti. Speriamo di poterci tornare presto. A me mancano terribilmente.
Rainmaker
È una canzone contro il populismo e la demagogia. L’unica canzone politica del disco. Parla di un truffatore/demagogo che offre false speranze a persone che stanno soffrendo. Ricorda molto “The ghost of Tom Joad” che traeva spunto dal romanzo Furore di Steinbeck. Springsteen dice che ha scritto la canzone prima che Trump andasse alla Casa Bianca. Tuttavia questa canzone mostra che stava scrivendo un disco politico. Poi ha cambiato idea, pensando che sarebbe stato prevedibile e noioso. Probabilmente dopo l’uscita di questo album ci saranno altre sorprese? Chissà…
If I was a priest
Seconda canzone ritrovata nei cassetti delle canzoni dimenticate. Realizzato attorno al 1972, era una delle demo che il Boss aveva presentato alla Columbia Records per avere un contratto discografico. E’ una canzone “sacrilega” visto che in questa canzone la Vergine Maria distribuisce palloncini benedetti e Gesù indossa una giacca di daino. Ma c’è un Cristo che chiama tutti alla lotta contro il malaffare “perché già troppa brutta gente gira qui intorno”. Ballata stile Bob Dylan con potente assolo di armonica e della chitarra di Steve Van Zandt. Questa versione è decisamente migliore di quella dei bootleg. D’altronde è la magia di Springsteen con la E-Street Band.
Ghosts
La canzone perfetta del disco. La più sentita dal suo autore. Si sente l’influenza di Steve Van Zandt nella creazione della melodia. Il suono ricordo molto Tom Petty e gli Heartbreakers. Non è un caso che il titolo di questo articolo prenda in prestito alcune parole dal testo: I can feel the blood shiver in my bones. E’ quello che succede quando ascolto le canzoni di Springsteen. Sento le emozioni, la pelle d’oca, il brivido del sangue sulle ossa. “Alzo il volume, lasciando che gli spiriti mi facciano da guida”.
Un atto d’amore per la musica e per la vita di comunità (la band). Una pura ballata in stile Springsteen dei bei tempi. Un perfetto mix tra Badlands, Land of hope and dreams e No surrender degli anni che stiamo vivendo. Al centro di questa canzone ci sono tanti fantasmi “moving through the night”, come in un sogno: sono il padre, i defunti musicisti della E-Street Band (Federici e Clemons), gli ex compari dei Castiles (su tutti George Theiss). Queste le parole di Springsteen sulla canzone: “Ghosts è un brano che fa emergere la bellezza e la gioia di essere in una band, e il dolore che scaturisce dalla perdita di qualcuno a causa di una malattia o del tempo. Ghosts cerca di parlare direttamente allo spirito della musica, qualcosa che non appartiene a nessuno di noi ma che può solo essere scoperto per poi essere condiviso insieme. Questo spirito risiede nell’anima comune della E Street Band, alimentato dal cuore”. Nel video ufficiale (lo trovate qui https://www.youtube.com/watch?v=Lo5QNcFioZ4) c’è anche spazio per l’Italia, con un breve passaggio di un concerto allo stadio di San Siro, a Milano (al minuto 3 e 59 secondi). Negli arrangiamenti si sentono tutti i componenti della E-Street Band: soprattutto il sax di Jake Clemons alla fine, il piano di Roy Bittan e la chitarra di Steve Van Zandt. A livello tecnico è apprezzabile “l’overdrive”: in gergo chitarristico è l’effetto di portare la chitarra oltre i limiti. Il suono che si sente è perfetto e genera un rock cristallino e perfetto.
Song for orphans
Terza canzone ritrovata nei cassetti delle canzoni dimenticate. Pezzo di fine anni ’60 che risente della musica di Bob Dylan. Riflette il disincanto di Springsteen in quegli anni. La canzone doveva far parte di “Born To Run”, proprio perché quel disco parlava della distanza tra il sogno americano e la realtà. Ma poi fu scartata. Nel 2005 fu suonata durante il Devils & dust tour dopo una lunghissima attesa. Una canzone che sembra uscita dalle storie di Western Stars.
I’ll see you in my dreams
La canzone che chiude il disco riassume i temi precedentemente affrontati. C’è uno Steve Van Zandt in grande forma e si sente. È un commovente ricordo di Danny Federici e Clarence Clemons della E-Street Band, ma anche di George Theiss dei Castiles.
“Ci incontreremo, vivremo e rideremo di nuovo”. Noi fan invece speriamo di rivedersi presto sotto al palco.
Fonti: Rolling stone, Rockol, pinkcadillacmusic.it, Buscadero, Corriere della sera, Repubblica, Fatto Quotidiano, Manifesto, La stampa
LETTER TO YOU ****
Tracklist:
1. One Minute You’re Here
2. Letter to You
3. Burnin’ Train
4. Janey Needs a Shooter
5. Last Man Standing
6. The Power of Prayer
7. House of a Thousand Guitars
8. Rainmaker
9. If I Was the Priest
10. Ghosts
11. Song for Orphans
12. I’ll See You in My Dreams
Ascolta l’intero disco qui https://radioningunaparte.es/letter-to-you
Tutti i testi delle canzoni con le traduzioni in italiano le trovate qui.
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Immagine da www.metacritic.com
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.