Intervista a Ezel Alcu, militante curda, attivista in Italia e autrice del libro Senza chiedere il permesso.
Ezel è curda, della regione del Bakur (Kurdistan Turco), ha 28 anni e un luccichio negli occhi, lo stesso che Zerocalcare ha saputo catturare disegnando la sua versione a fumetti in Kobane Calling. Da nove anni vive come rifugiata politica in Italia e in questi mesi l’attraversa in lungo e in largo per presentare il suo libro Senza chiedere il permesso, edito da End.
La storia di Ezel inizia nelle carceri turche di Diyarbakir e Batman dove a 13 anni è stata rinchiusa
per aver lanciato un sasso contro il poliziotto che aveva fatto irruzione nella
sua casa per arrestare uno dei fratelli. «La mia famiglia è simpatizzante del
movimento, era un’abitudine alzarsi alle cinque del mattino con la polizia in
casa. Per me è un orario biologico ancora oggi.»
L’italiano di Ezel è fortemente comunicativo, proprio per via dalle regole che
trasgredisce sistematicamente. «Il kurdo non è mai stato la lingua di uno stato
nazione né del potere o della burocrazia. I termini che usiamo sono molto
diversi ed è difficile tradurli in italiano, la lingua della diplomazia.» È un
italiano privo di generi il suo, perché, mi spiega, «per me è importante
l’essere umano, non il genere». Le chiedo di raccontarmi della prigionia.
«Non mi piace chiamarlo carcere, perché la primissima rivoluzione curda è stata fatta nelle prigioni turche. Quindici anni fa non c’erano le carceri minorili, perciò dopo 40 giorni di isolamento, sono andata a stare con le compagne del movimento, le prigioniere politiche del PKK. Per me è stata un’accademia, perché lì ho imparato la mia lingua madre, il kurdo, e ho conosciuto la mia identità di donna. Allora avevo rasato i capelli, usavo vestiti da maschi, giocavo a calcio per poter restare fuori anche di sera, mi piaceva essere forte e per essere forte in quella società dovevi essere maschio. Così mi camuffavo, per essere libera. In carcere ho scoperto di non aver bisogno di nascondere la mia identità per esserlo, ma soprattutto ho conosciuto l’ideologia del Movimento Curdo.
«Sono entrata in carcere con la rabbia di una bambina, ma se il governo turco credeva di avermi spaventata e punita, quando invece sono uscita, a 14 anni, ho lanciato il secondo sasso e stavolta ho colpito in pieno. Dentro di me non c’era più solo la rabbia, ma anche la forza della coscienza politica. Da quel momento ho deciso di essere me stessa, ho capito che essere donna non significa essere una principessa, che essere libera non vuol dire aver bisogno di una figura maschile accanto né nascondersi nei panni di un maschio.
«Purtroppo oggi nelle carceri minorili i bambini vengono sfruttati e violentati, sono stata una bambina fortunata. Il governo turco mi ha presa dalla società in cui potevo crescere come una nazionalista o una religiosa e mi ha messa inconsapevolmente tra le braccia del PKK. In questo modo mi ha protetta, sono cresciuta con quella purezza e bellezza e ho acquisito la capacità di analizzare ciò che accadeva nella società.»
La narrazione occidentale sulle combattenti curde negli
ultimi anni si è nutrita principalmente di gallery fotografiche e di una
retorica omertosa che hanno ridotto la centralità delle donne nella rivoluzione
curda entro i margini dell’icona e del fatto di costume, privandola di ogni
significato politico. Ma la specificità di questa rivoluzione risiede nelle
differenze che vi convivono, concetto che mai più di ora sembra atterrirci, e
forse per poterla leggere e provare a comprendere nel profondo abbiamo bisogno
di ascoltarla dalle voci delle protagoniste e le storie personali.
Questa riflessione mi porta a chiederti, cosa significa per te essere donne
all’interno del PKK?
«È diverso, è indescrivibile. Noi donne in questo sistema capitalistico e patriarcale veniamo sfruttate in ogni campo, la nostra identità viene schiacciata e rifiutata. Essere una donna nel PKK vuol dire essere umana, sentirsi finalmente umana. Sei al centro di un progetto politico, di un sistema nuovo. In questo paradigma fondato sull’uguaglianza di genere, la donna è il perno di un sistema circolare dove tutto cresce con lei. Non siamo solo una “brigata delle donne”, è lo sguardo dell’Europa e dell’Occidente che ci classifica così. Abbiamo il partito delle donne, il consiglio delle donne e l’autodifesa, la cultura, le accademie, i villaggi delle donne, quindi la vita. Finalmente ti senti viva e senti riconosciuto il tuo valore. Ed essere madre terra ti dà una grande responsabilità, la stessa che una madre sente per il proprio figlio noi l’abbiamo per un grande territorio.
«Io sono un po’ indisciplinata e a volte pensare tutta questa responsabilità sulle mie spalle è stancante, ma mi fa sentire forte e di poter camminare a testa alta. Questa responsabilità ti fa crescere, studiare, ricercare e sviluppare le tue capacità. Oggi ho una ricchezza ed unicità dentro di me di cui nessuno può privarmi. Se avessi tanti soldi, un giorno potrei anche perdere tutto: il capitalismo, prima ti dà e poi ti toglie tutto, ti abitua alla comodità e ti fa suo schiavo, uno schiavo moderno, ma pur sempre uno schiavo. Ma questa ricchezza non può togliermela nessuno, è solo mia. E questo ci fa sentire belle!»
Frequenti un collettivo femminista in Italia?
«Il mio collettivo sono tutti i gruppi alternativi. Sono nei No Tav, No Muos, No Tap e in tutte le lotte, perché sono una combattente internazionalista e non credo in una rivoluzione che sia solo a casa mia. Questo significherebbe buttare fuori la sporcizia e chiudermi in casa per non sporcarmi più. I concetti alla base del nostro paradigma valgono per tutto il mondo. Sento il dovere di combattere qui per l’ecologia, perché la stessa aria inquinata la respirano i miei nipotini in Kurdistan. Non credo nei confini, creati dagli stati nazione contro cui combatto, quindi ogni forma di ribellione che esiste è il mio movimento.
Ne discuto moltissimo con i compagni italiani, ma non ho ancora compreso, perché non rientra nella mia logica, tutte queste divisioni. Per me è una strategia del nemico che ci divide, ci guarda, ride e avanza. Vivo e lotto qui da nove anni, così come ho fatto in Kurdistan per sei anni, e per me l’Italia è sotto invasione e va liberata. Pongo la stessa critica al femminismo occidentale: dobbiamo rifiutare la mentalità dominante che impariamo dal maschio, non il maschio. Non dobbiamo trasformarci in quel potere patriarcale che critichiamo e combattiamo. Se questa è la strategia, abbiamo fallito. Preferisco quindi pensarla solo come una tattica sbagliata.
Il femminismo in Europa ha le critiche giuste al sistema, ma non ha creato l’alternativa e si è diviso diventando poi marginale. Mi dispiace tantissimo che il femminismo sia per un certo tempo una moda e poi si cambi idea. Per me essere femminista non vuol dire schiacciare il maschio per vendicare cinque miliardi di anni di sottomissione. Anche moltissime donne sono dominanti. Non è responsabilità di un singolo, ma dell’intero sistema.»
Quale alternativa hanno costruito le donne in Rojava, a proposito delle relazioni di potere?
«Soprattutto non abbiamo rifiutato la società. Non abbiamo formato un gruppo allontanandocene, questo avrebbe creato una rottura, una divisione. Le donne sono invece entrate nella società per cambiare altre donne che non assomigliano per nulla a loro. La mia rivoluzione si vede quando riesco a parlare con una donna che vive chiusa in casa e a far sì che scelga di buttare il suo velo ed entrare in assemblea. Devo cambiare la mia mamma così che mia sorella cresca come una donna, non come “una femmina”. Tutti arriviamo da quella società, quindi dobbiamo iniziare da lì. E la nostra piccola società è la famiglia.
«Ho un esempio bellissimo che riguarda la mia famiglia. A 13 anni quando qualcosa non andava bene, sbattevo al porta e andavo via. Questa era la mia grande ribellione. Un giorno la mia sorellina più piccola di 13 anni, e la mia nipotina di 12, sono andate dalla mamma e le hanno detto che bisognava convocare un’assemblea della famiglia perché avevano delle cose importanti da dire. La mamma si arrabbia, i fratelli e le sorelle le prendono in giro, ma alla fine viene organizzata questa assemblea. Le due prendono la parola e dicono che se da quel momento in poi in casa non si iniziava a vivere secondo la mentalità di una società etica e politica sarebbero andate via. La mia mamma, che è una donna dominante, urla e si arrabbia: “Dopo tutti questi anni io devo imparare l’etica da voi?”. Allora la mia nipotina le dice: “Nonna, non urlare, siamo in assemblea. Aspetta il tuo turno per parlare.» Ride. «Loro non hanno sbattuto la porta, si sono messe lì a discutere e risolvere. Questa è una cosa bellissima, significa che le nostre figlie crescono con questa nuova mentalità. Questa è la rivoluzione delle donne!»
Nel frattempo c’è anche la guerra. Per molte donne occidentali l’idea della lotta armata è lontana dall’esperienza quotidiana…
«Quando sei sotto bombardamento non hai la possibilità di rispondere spogliandoti e scrivendoti sul corpo “Erdogan assassino”. In Occidente abbiamo assunto la mentalità pacifista in modo superficiale. Le donne curde sono pacifiste, però devono abbracciare le armi. Lo so che le armi si imbracciano, però noi le abbracciamo per difendere il territorio e la nostra identità di donne. Se i cecchini uccidono mia figlia e sono costretta a nasconderla nel freezer, non potendo uscire a seppellirla perché fuori c’è il coprifuoco e resto chiusa in quella casa per ben 40 giorni… nessuno può venire a parlarmi di pacifismo. Difendersi è una cosa naturale, come lo è per il nostro corpo che si difende dall’attacco dei virus.
«Ci viene imposto un modello femminile secondo cui le donne non possono alzare la voce, non devono correre, non devono usare la forza perché sennò si comportano da maschi, ma io rifiuto questo schema. Sono umana e se devo difendermi, uso anche la forza. Odiamo la guerra. Però c’è e non possiamo negare questa realtà. Non possiamo vivere spensierate e con la testa tra le nuvole perché il nostro cielo è chiuso dai bombardamenti. Io non vado in spiaggia a leggere il libro di Rosa Luxemburg, io leggo Rosa Luxemburg in trincea. Quindi è diverso ciò che capisco io, da quel che capisce chi la legge in spiaggia.»
Perché l’ecologia è un aspetto fondamentale di questa rivoluzione?
«Per ecologia intendiamo rispetto per la natura. Noi umani ci siamo allontanati dalle nostre radici, non abbiamo più rispetto per la natura e così non possiamo averne nemmeno per noi stessi. Vivere in un territorio che viene sfruttato fa di me stesso uno sfruttato. Se io rispetto la terra, me ne prendo cura, la terra mi darà tutto ciò di cui ho bisogno. In Rojava ci sono più di duemila pozzi di petrolio, è una terra sfruttata dal regime. In questa regione lunga 911 km che si sviluppa sul confine tra Turchia e Siria, da Derik fino ad Afrin, si poteva coltivare solo il famoso grano siriano e l’ulivo ed estrarre il petrolio. Era vietata qualsiasi altra coltura: le famiglie nelle loro case non potevano avere un orto. Dei duemila pozzi che prima venivano controllati dalle multinazionali, ora che la produzione si basa solo sulle nostre necessità e non sulla vendita, ne utilizzavamo cinque fino al 2014. Forse in futuro dopo la guerra, ce ne servirà anche meno. Perciò perché sfruttare il territorio? Quante persone che vivono lì sono morte di cancro, quanti bambini nati lì hanno problemi di asma o muoiono per via di malformazioni? La natura è vita e noi vogliamo vivere.»
Dicevi che l’Italia va liberata…
«Sono molto delusa. Non da Salvini, perché non si può essere delusi dal proprio nemico. Sono delusa per chi gli ha consegnato l’Italia. L’Italia è nata partigiana ed ora è di nuovo nelle mani dei fascisti, perché il sistema di voto non è democratico. Tutti i martiri italiani hanno combattuto contro il fascismo e anche per il diritto di votare. Oggi i figli di quei partigiani hanno riconsegnato l’Italia ai fascisti. Bisogna prima unire le energie per sconfiggere il nemico e poi discutere, affrontare tutti i problemi interni.»
Quindi secondo te il voto è l’unica strada?
«No, assolutamente. Se non vogliamo votare, allora vogliamo fare una scelta molto più radicale. Sono pronta, voi siete pronti? Non ho un legame di sangue con i martiri italiani, ma crediamo nelle stesse idee, quindi il loro sangue è stato versato anche per me. E con questa coscienza, sono pronta. Ma sappiamo cosa non ci sta bene, cosa stiamo criticando e cosa vogliamo cambiare? Vogliamo fare la rivoluzione? O, se questo termine ci spaventa, vogliamo “cambiare” l’Italia? L’Italia è casa mia, ci ho vissuto tutta la mia giovinezza e questa cosa la sento profondamente, sono in debito con chi mi ha lasciato questo territorio perciò non posso voltare le spalle e andare via. Io sarò qui e resisterò.
«Noi curdi abbiamo la testa molto dura, non abbiamo paura di morire, ma di vivere senza la libertà. Non speriamo, ma pratichiamo ciò che vogliamo realizzare. Si pensa che rivoluzione significhi buttare giù qualcosa per costruire qualcos’altro, ma rivoluzione significa evoluzione. Forse non ne vedrò la realizzazione completa, ma so che i miei nipoti vivranno in quella rivoluzione e ne sono orgogliosa.
«Una volta mio padre ha tentato di fermarmi, come tutti i genitori cercava di proteggere la figlia, e io gli ho detto: “Papà, se avessi fatto tu tutto questo prima di me, oggi staremmo a casa a guardare un film. Ma tu non l’hai fatto e allora devo farlo io.” Sentirsi dire quelle cose gli ha fatto male, perché lui ha pagato care le sue posizioni politiche, anche con la tortura. Quando ho visto la sofferenza negli occhi di mio padre ho pensato che non voglio sentirmi dire la stessa cosa dalle mie sorelle o dalle mie nipoti. Voglio poter dire che io almeno ci ho provato.»
Immagine © Zerocalcare/End Edizioni (dettaglio)
Sono nata e cresciuta in Puglia. Mi sono laureata in Lettere a Bari e poi in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale a Bologna. Ho collaborato con Radio Città del Capo e il Manifesto. Attualmente vivo sui treni che fanno spola tra Bologna e le città dell’Alta Murgia e mi occupo di comunicazione. Mi interesso di media, immagine, cinema, ambiente. Lotto per un mondo libero dal capitalismo, dal fascismo, dal patriarcato e dal razzismo. Cerco di dare voce a storie e persone che non ne hanno e di proporre analisi critiche della realtà che possano aiutarci a costruire una nuova idea di futuro.