Ok, vediamo un po’ di ricordare… Sapete come è? Dopo un po’ la memoria comincia a far brutti scherzi e sommi fatti, anni, eventi in anni sbagliati o del tutto inventati.
Facciamo così, avevo dodici anni, sto parlando del 1988. Dodici anni, sissignore. Già allora mi annoiavo, prestavo poca attenzione, ero un mix micidiale di goffaggine e deconcentrazione. Guardavo spesso fuori dalla finestra della mia classe. Non che ci fosse qualcosa di bello o giusto da vedere nella strada sottostante. Non c’è nulla di bello e giusto in certe zone dabbene e laboriose. Tanta noia, un dio brontolone, la paura del diverso e del vicino. Non dico siano cose terribili da sostenere, ci puoi vivere benissimo. Una vita dignitosa, produttiva, ordinaria. Una vita di conti e conti in banca. Questo è quanto, uomo.
Tuttavia a quei tempi c’era anche la possibilità che una normale giornata scolastica ti potesse aprire tutto un mondo nuovo. Così distante, diverso, lontano… Che posso avere in comune, io, con gli afro americani? Potreste rispondermi nel modo più semplice possibile: «Assolutamente nulla.» Vero, come darvi torto. Be’, e allora quanti di voi/noi sono sottoproletari che vivono nella miseria più profonda, in posti terribili a pochi passi da quella parte della città dove i padroni e i loro servi vivono una vita di benessere e decadentismo sfacciato? Pochissimi, ma per molto tempo ci siamo battuti per i più poveri e gli oppressi. Questo significa essere comunisti. Non una battaglia per forza pacifica ma nemmeno praticare violenza a casaccio. E cosa ha distrutto dopo dodici anni di grandi lotte operaie e del proletariato la nostra rivoluzione? La repressione della polizia, dei servizi segreti e le divisioni. Quelle ce le teniamo ancora oggi visto che per il comunista italico, il nemico non è tanto il liberale o il fascista ma il compagno di un partito diverso. Ebbene, cosa ha distrutto l’esperienza straordinaria dei compagni afro-americani delle Black Panthers? Le stesse medesime cose.
In ogni caso, scusate se divago sempre così tanto, torniamo a quel ragazzino di dodici anni che stava a fissare una finestra immaginando chissà cosa. Be’, a un certo punto la professoressa fa leggere alla classe una parte di un romanzo che il ragazzo non aveva mai sentito nominare: Ragazzo Negro di Richard Wright.
Il romanzo è l’autobiografia di uno dei più importanti ed influenti scrittori afroamericani, appunto Wright, in cui si narra l’infanzia e la gioventù di un “ragazzo negro” nel Sud degli Stati Uniti d’America. Una storia piena di violenza e oppressione dove i bambini o i ragazzini sono vittime delle pressioni e della frustrazione degli adulti. Il giovane protagonista è testimone della violenza quotidiana dei bianchi contro la sua gente ma anche dell’oppressione che si scatena all’interno delle famiglie dei poveri afro americani. I bambini sono un mezzo per sfogare la rabbia. In modo particolare in questo romanzo Wright denuncia il bigottismo religioso, il suo fanatismo, una catena per la causa dei neri. Quelle parole, quei personaggi, accompagnarono il ragazzino bianco e brianzolo durante un periodo di operazioni agli occhi. Il tutto reso ancor più semplice e facile per via dell’età del giovane protagonista.
L’educazione serve a questo, dare ai giovani strumenti adatti a farsi un’idea della società e decidere dove stare, come reagire. Passa poco tempo, la storia magnifica di Ragazzo Negro batte come una batteria jazz nel cuore del giovane fanciullo che – con sua immensa gioia – si ritrova di nuovo gettato all’interno della storia degli afro americani attraverso una meravigliosa poesia di Langston Hughes, un poeta, scrittore, drammaturgo e giornalista americano, che esattamente come Wright descrive la vita degli afro americani prima dei movimenti per i diritti del popolo nero in America.
Significative sono due sue opere (ma vi consiglio di cercare in totale autonomia altro materiale di questo straordinario intellettuale), mi riferisco al romanzo Piccola America Negra e alla poesia I Too. Questa poesia colpì profondamente il ragazzino malinconico e malaticcio sperduto nelle ordinate lande brianzole per la potenza e musicalità delle parole e della lingua. In poche frasi l’autore descrive l’orgoglio di essere un nero. A testa alta dice che i bianchi non potranno nulla contro di lui, perché dovranno comprendere che anche lui è americano.
I, too, sing America.
I am the darker brother.
They send me to eat in the kitchen
When company comes,
But I laugh,
And eat well,
And grow strong.
Tomorrow,
I’ll be at the table
When company comes.
Nobody’ll dare
Say to me,
“Eat in the kitchen,”
Then.
Besides,
They’ll see how beautiful I am
And be ashamed—
I, too, am America.
Queste parole sono la prima scintilla di quello che sarà poi l’immenso incendio dell’autodeterminazione dei movimenti afro-americani per la loro libertà dal razzismo in America. Non dimentichiamo che il razzismo non è solo il suo aspetto più esplicito di supremazia di una razza contro altre persone di etnie diverse. Ma è strettamente legato al sistema politico, economico, sociale e culturale di un paese. Scrittori come Wright e Hughes gettarono le basi per dar a una larghissima parte della popolazione delle basi comuni su cui partire. Cosa che ha impedito che i neri facessero la stessa terribile fine dei pellerossa.
Leggere i libri degli scrittori afro americani, come ascoltare la loro musica o vedere i film che parlano della loro storia, significa comprender la nazione americana oltre all’immagine fabbricata per convincere il mondo che gli Stati Uniti siano un paese sottomesso alla libertà delle persone e delle opportunità. Certo ora la storia sarà più dura o a volte scenderanno verso compromessi non del tutto accettabili, ma nessun bianco potrà tirarsene fuori. Questi scrittori, musicisti, registi non parlano solo dei neri americani, ma dei popoli africani devastati dal colonialismo, celebrano quelle straordinarie lotte anche feroci e violente, come ogni rivoluzione concreta dovrebbe essere, per la libertà degli oppressi. Gli oppressori e le quinte colonne non se ne andranno pacificamente dopo aver bevuto una tazza di tè con i rivoluzionari.
Per questo credo che sia un dovere di ogni compagno e cittadino unire quelli che consideriamo stranieri nella vita attiva del partito, far politiche anche spicce e concrete per consolidare una comune battaglia contro il nostro nemico, che non è come dicono i rossobruni il fantomatico esercito di riserva ma il capitalismo nazionale e internazionale. La lotta contro il razzismo non è dunque una perdita di tempo che ci distrae sulla sorte dei lavoratori, ma proprio il rilancio totale di quelle lotte per e dei lavoratori contro il peggior regime – quello del capitalismo senza nemici che lo combattano.
Certo, come ben sappiamo, anche quel movimento è stato distrutto. Uccisero Martin Luther King per alzare la posta del gioco contro le avanguardie rivoluzionarie delle Black Panthers, giustiziarono Fred Hampton e altri attivisti, fino alla scomparsa definitiva del movimento. Tuttavia oggi c’è ancora una voce che reputo libera e importante per apprendere cosa sia rimasto di quel periodo e come sia la condizione dei neri oggi. Il suo nome è Ta-Nehisi Coates.
Egli a mio avviso riprende il discorso che negli anni ‘80 artisti come Spike Lee e i Public Enemy avevano riportato in scena negli anni del reaganismo e del riflusso. La cosa che amo di costui è che non è il nero di casa, il buon selvaggio, l’uomo gentile che viene a reclamare diritti al padrone aspettando che egli sia buono con lui. Non scrive per i bianchi e infatti un libro come Tra me e il mondo è una lettera piena di orgoglio, rivendicazione “black” senza cercare di attirare il consenso della popolazione bianca. Mi piace questa cosa anche se come bianco occidentale potrei risentirmene e dire: «Ehi, portami rispetto che se non hai il mio sostegno col cavolo che diventi presidente degli Stati Uniti.» Tuttavia rimango sempre il ragazzo che a dodici anni ha scoperto la causa afro americana, poi quella irlandese e quella palestinese e per questo non ha importanza che costoro abbiano parole buone per me. Conta la loro storia e la loro rabbia.
Tra me e il mondo è un libro che urla rabbia, un libro che educa il figlio quindicenne di Coates a comprendere che come nero ha sempre più possibilità che qualcuno arrivi a derubarlo del suo corpo, piegandolo alle leggi della giungla e delle gang o per mano degli sbirri o in mille altri modi. Il tema del corpo è centrale in questa opera. L’autore rammenta la sua infanzia nella parte più degradata di Baltimora, della violenza insita anche nella comunità, il linguaggio della strada, il difficile rapporto con i genitori, e la paura che una pallottola vagante, uno sguardo di troppo, l’intervento degli uomini in divisa possano sottrargli la sua egemonia sul suo corpo, cioè sulla sua vita.
La lettera si sofferma molto sulla sua formazione scolastica e umana, rammenta a tutti che dove prima c’erano le torre gemelle in tempi antichi si compravano gli schiavi. E spende lacrime e dolore per la morte di un suo amico. Una persona importante assassinata in modo brutale dalla polizia, come capita a molti neri. Un libro importante, che ho amato tantissimo (ringrazio mia moglie di avermelo regalato) proprio per quella rabbia tagliente e lucida che anni di innocui comici pareva aver sotterrato per sempre.
Coates è anche autore di uno splendido saggio, Otto anni al potere, costituito da otto saggi sulle tematiche più calde e pressanti che colpiscono la comunità afro americana. Otto anni perché a far da contorcano a queste ballate tragiche c’è l’America che vanta un presidente di colore: Barak Obama. Il libro mette in evidenza quanto di buono ha fatto il presidente del “Yes, we can”, i giochetti dei repubblicani per screditarlo (metodo e merito degni dei leghisti), l’errore assoluto di credere che bastassero quegli anni a sconfiggere un candidato impresentabile come Trump; ma non dimentica nemmeno le sue debolezze: il voler prender la distanze dalla causa razziale quando poteva diventar scottante, un certo moderatismo che è solo debolezza e non strategia.
Coates parla di schiavitù e guerra civile, dei conflitti interni alla comunità come certi movimenti che se la prendono con i cattivi ragazzi della comunità nera e non dicono nulla contro il sistema capitalista gestito dai bianchi che porta quei giovani a perdersi nel crimine; si sofferma sulla difficoltà per un nero di poter aver una casa sua. Un libro forse più completo e complesso rispetto al precedente ma fondamentale per poter capire cosa succede a livello di risposta anche solo intellettuale tra gli afro americani.
Nel prossimo articolo parleremo del cinema e della causa dei diritti per gli africani. Fino ad arrivare a un capitolo finale dedicato alle Pantere Nere. Vi auguro buona lettura, brothers and sisters!
Immagine: dettaglio della copertina di Black Boy ed. Signet Books
Davide Viganò nasce a Monza il 24/07/1976: appassionato di cinema, letteratura, musica, collabora con alcune riviste on line, come per esempio: La Brigata Lolli. Ha all’attivo qualche collaborazione con scrittori indipendenti, e dei racconti pubblicati in raccolte di giovani e agguerriti narratori.
Rosso in una terra natia segnata da assolute tragedie come la Lega, comunista convinto. Senza nostalgie, ma ancor meno svendita di ideali e simboli. Sposato con Valentina, vive a Firenze da due anni