Il blocco dei licenziamenti è uno dei temi che più segna il dibattito politico e istituzionale: la fine di giugno è la scadenza in cui dovrebbe esaurirsi il provvedimento, la cui proroga è richiesta in modo deciso da parte delle organizzazioni sindacali.
Posizioni diverse convivono all’interno dello stesso governo, dove per adesso sembra comunque prevalere il “mito del metodo Draghi”, con cui arrivare costantemente a sintesi che si prospettano sempre più difficili, con il proseguimento della campagna vaccinale e la percezione di uno stato di emergenza destinato a mitigarsi. Ne parliamo nella rubrica a più mani di questa settimana.
Leonardo Croatto
Se qualche anno fa ci avessero detto che un governo sarebbe intervenuto attraverso la legge per impedire i licenziamenti per qualsiasi ragione di natura economica, fatta salva la chiusura dell’azienda, nessuno di noi ci avrebbe scommesso una lira.
E’ servita una pandemia per spingere un paese a sperimentare un lungo blocco dei licenziamenti che – ed è l’elemento di maggior interesse – ha per fine la salvaguardia dell’economia del paese, non solo e non tanto la tutela dei singoli lavoratori.
Purtroppo questo lungo momento di ribaltamento del senso comune – che licenziare liberamente fa bene all’impresa e fa bene al paese – non ha prodotto una riflessione più generale rispetto all’architettura del mercato del lavoro.
Altri ragionamenti si sono messi in moto, indotti dall’eccezionalità del contesto, che riguardano argomenti affini, ma non pare si sia colta né che si coglierà l’occasione per un complessivo ripensamento della tutela del lavoro nelle relazioni d’impresa e sul ruolo dello stato nei suoi compiti di vigilanza e tutela.
Al nostro paese manca un sistema di ammortizzatori sociali in costanza e in carenza di rapporto di lavoro che tutelino realmente dalla perdita di reddito – CIG e FIS compensano porzioni miserabili del salario, il décalaga della NASPI la rende inutile dopo i primi mesi – e che includano i lavoratori autonomi; manca un sistema di formazione continua che consenta la crescita culturale durante tutto il corso della vita; manca un sistema di controllo del rispetto delle norme e dei contratti di lavoro, specialmente in quei settori notoriamente predisposti alla loro violazione; manca una riflessione sui minimi salariali per evitare il fenomeno del lavoro povero; manca una norma che renda realmente democratica la rappresentanza sindacale e elimini il fenomeno dei sindacati gialli; manca un intervento contro la precarietà “immotivata”, specialmente nella pubblica amministrazione.
E’ curioso che ad alcuni di questi problemi sembrava stesse per dare risposta il governo Conte I (quello con la Lega dentro!), mentre gli ultimi governi definiti “di sinistra” si sono caratterizzati invece per una spinta verso un peggioramento delle tutele del lavoro.
Dmitrij Palagi
In modo astratto è difficile governare.
Sul piano dei principi oggi mancano forze politiche capaci di affermare nel dibattito pubblico il punto di vista delle classi lavoratrici, perché si dà per scontato che attaccare le logiche del profitto privato implichi condannarsi a una situazione di residualità. La richiesta delle organizzazioni sindacali appare corporativa e inabile a ottenere qualcosa di più rispetto a un mero slittamento del problema.
Di che tipo di ripresa parla chi ha gli strumenti per agire sul piano delle politiche attive per il lavoro e sugli investimenti industriali? Questo Governo rappresenta la sintesi di chi prima della Covid-19 aveva un minimo di influenza nei meccanismi decisionali: si tratta di un Parlamento da cui è da tempo espulsa ogni istanza di alternativa di società.In un’Italia in cui mezzo sistema politico è cresciuto a suon di antiberlusconismo non fa più scandalo neanche l’affermazione del Sindaco di Firenze di immaginare una grande coalizione che vada “da Forza Italia a LEU”. Alle spalle abbiamo il governo Monti e la resistibile ascesa del Partito Democratico di Renzi, centrali nel rafforzare l’idea che le generazioni passate si siano godute troppi diritti.
Non ci sono lavoratrici e lavoratori a parità di condizioni, così come non tutte le imprese sono simili: sembrerà una banalità, ma il metodo da seguire dovrebbe definire quale parte si vuole difendere, per poi procedere con interventi specifici, settore per settore (per fasce d’età, ambito produttivo, dimensioni aziendali e così via).Il Presidente del Consiglio ha detto che questo è il momento di dare e non di chiedere, invece è il contrario. Questo è il momento di chiedere indietro tutta quella ricchezza di cui una minoranza si è appropriata in questi ultimi decenni, in Italia, a danno del debito pubblico. Suona populista, ma solo perché manca una lettura di classe che lo renda dicibile nel sistema di informazione, al di fuori di semplificazioni eccessive.
Come nel caso dell’articolo 18, il blocco dei licenziamenti sarà anche simbolico (e non lo è affatto), ma i simboli hanno la loro parte nel definire le politiche da portare avanti per il cambiamento che stiamo attraversando in tutto il mondo, in modo particolare in Europa.
Jacopo Vannucchi
Il blocco dei licenziamenti è stato una misura adottata dal governo italiano a febbraio 2020 per tutelare i lavoratori da uno shock improvviso e imprevisto. Analoga ratio stava dietro i ristori per gli esercenti. Nonostante la processione barocca degli “Stati generali” di Villa Pamphilj esattamente un anno fa, il governo Conte II giunse alla propria estinzione senza aver mai ridiscusso gli strumenti emergenziali, anche quando lo shock ormai non era più né improvviso né imprevisto.
Prorogare sine die il blocco dei licenziamenti o i ristori agli esercizi commerciali e di impresa significa ingessare il sistema economico italiano. L’altolà di Renzi a maggio 2020 (“no alla sovietizzazione dell’Italia”) acquista un nuovo significato: col blocco totale delle riforme economiche fra 1965 e 1988 in URSS i prezzi restavano calmierati dallo Stato, ma la produttività crollava e con essa i consumi, mentre cresceva il numero di lavoratori che passavano le proprie ore-lavoro in coda ai negozi. Un circolo vizioso infine spezzatosi con conseguenze drammatiche.
Ovviamente togliere il gesso a un paziente richiede una successiva riabilitazione. La vera tematica non è, come secondo Cofferati il defunto Epifani avrebbe chiesto al PD, «fermare i licenziamenti», bensì incentivare tanto la produttività quanto il potere d’acquisto.
A questi fini sono necessarie due strategie: una industriale e di politiche attive, per creare lavoro e crescita; l’altra di stato sociale, per proteggere chi il lavoro l’ha perso o lo perderà. Il comportamento delle maggiori forze politiche del Paese, che si avvitano su una discussione unicamente legata allo sblocco dei licenziamenti (sì, no, sì ma non per chi riceve la CIG, ecc.), è eufemisticamente miope. Non una, ma due travi si trovano nei loro occhi: l’ipocrisia della segregazione occupazionale, che non protegge affatto i lavoratori a termine e gli stagionali; il lassismo con cui si lascia che imprese impossibilitate a licenziare chiudano, lasciando senza reddito il 100% dei loro occupati quando invece avrebbero potuto continuare l’attività a prezzo del licenziamento di una parte del personale.
Le ragioni del lavoro nella battaglia politica sui licenziamenti sono fortissime, ma purtroppo mal rappresentate.
Alessandro Zabban
Il blocco dei licenziamenti è stata una misura ideata per evitare l’esplodere di una situazione sociale drammatica nel mezzo della pandemia. La motivazione non è stata di natura etica (non è giusto che le persone perdano il posto di lavoro per colpe non loro) ma come sempre di tipo strumentale/elettorale. Non stupisce dunque che il ragionamento sullo sblocco sia ridotto ad un calcolo numerico: se sono pochi che perdono il lavoro alla fine va bene, non dovrebbero causare un incremento significativo del conflitto sociale.
Con questa logica politica, Confindustria ha campo aperto per imporre la sua agenda, che non è una ricetta per far uscire il Paese dalla crisi, ma propaganda per far prevalere i suoi interessi particolaristici sul bene comune. Nella sua visione, assecondata politicamente da praticamente tutte le forze parlamentari, i sussidi vanno tolti solo se vengono dati al lavoratori, mentre quelli alle aziende vanno bene; la flessibilità, l’incertezza e la precarietà deve essere qualcosa a cui i lavoratori si devono abituare e se lo Stato interviene per correggere queste dinamiche è una pericolosa deriva socialista ma viceversa se lo Stato non aiuta le imprese ad uscire dalla crisi è perché è inefficiente o non ha visione.
Senza una politica in grado di contestare diffusamente nella società questa visione distorta della realtà, le misure di sostegno alla pandemia saranno solo a favore delle imprese, con conseguente decrescita degli stipendi, fuga di cervelli all’estero, bassi consumi interni: tutte cose su cui si piangono lacrime di coccodrillo ma su cui non si fa nulla per invertire il trend.
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