La scarsa partecipazione dei lavoratori agli scioperi, così come degli elettori al voto, insieme al crollo delle iscrizioni ai partiti, sembra disegnare un sistema democratico in cui sembra venir meno l’interesse di cittadini e lavoratori alla partecipazione diretta e attiva alla vita politica: un rafforzamento forte della delega e un indebolimento della militanza. Ma se il delegato delude, è immaginabile che la democrazia, oltre che “voice” e “loyalty”, consenta anche l’opzione “exit” senza collassare?
Leonardo Croatto
Che le democrazie liberali “all’occidentale” fossero l’apice della tecnologia della rappresentanza politica è un postulato molto in voga, che solo pochi sembrano in grado di mettere in discussione. Eppure, dopo il grande slancio del dopoguerra, il meccanismo di grande partecipazione rappresentato dai partiti di massa, dalle elezioni di parlamenti locali, nazionali e sovranazionali e dalla strutturazione delle organizzazioni sindacali semba aver terminato la sua fase di crescita e aver avviato il suo ciclo di decadenza.
Mentre i partiti si sono trasformati da luogo di militanza diffusa a comitato elettorale per un ceto politico sempre più professionalizzato; i sindacati non riescono più a svolgere una funzione attivativa nei confronti dei lavoratori, i quali sempre più intendono il loro rapporto con l’organizzazione sindacale come dinamica di natura commerciale: si paga il sindacato perché agisca in propria vece per risolvere i propri problemi sul lavoro, potendo in questo modo evitare di doversene occupare personalmente.
La delega a un rappresentante è di per sé un atto imperfetto: genera uno scarico di responsabilità da parte del delegante, che si alleggerisce di una parte del proprio dovere di esercizio della politica attiva. A questo trasferimento delle agibilità politiche dai cittadini verso i propri delegati ha concorso però anche un’intensa attività pedagogica messa in atto dalla politica, dalla stampa e da alcune organizzazioni sindacali volta a convincere i cittadini che la rappresentanza è un’attività professionale che deve essere svolta solo da personale specializzato.
E’ del tutto evidente che dietro a questo lavoro di “privatizzazione” della rappresentanza politica c’è la volontà esplicità di sottrarre agibilità politiche comprimento in maniera morbida le libertà democratiche: Ai liberali è sempre stata molto a cuore la propria libertà, un po’ meno quella di chi non la pensa come loro.
Se non è più immaginabile agire, nei paesi nord-occidentali, riducendo la democrazia con l’esercito, sembra, purtroppo, anche troppo facile arrivare allo stesso risultato con la persuasione.
Jacopo Vannucchi
A giugno 2016 D’Alema, già con un passo fuori dal PD, disse che i democratici avevano perso a sinistra elettori che in passato li votavano “per spirito civico o per legame con il partito”. La colpa, ça va sans dire, sarebbe stata di Renzi.
Tale dichiarazione può essere analizzata su due piani: uno, che qui non compete, è la demitizzazione delle ragioni che legavano il PCI al consenso di massa dei suoi settori sociali di riferimento; l’altro, invece, riguarda l’indebolimento della fedeltà elettorale al partito.
Banalmente, gli elettori si mobilitano e votano se ritengono che l’espressione del voto sia utile a loro necessità. In un’arena che non vede un reale potere di incidenza dei partiti nei confronti delle forze di mercato l’utilità percepita del voto diminuisce e con essa l’affluenza alle urne. L’impotenza dei partiti verso le forze economiche diviene addirittura subalternità quando si interviene abolendo il finanziamento pubblico e aumentando i costi delle campagne elettorali – senza vergognarsi, a quest’ultimo fine, di modificare addirittura la Costituzione (tanto il popolo non capisce e vota Sì).È chiaro che in una simile condizione non resta che battersi per motivazioni di cartapesta identitaria, con la destra che si qualifica per la difesa dello sciovinismo straccione e la sinistra (?) per il cosmopolitismo delle élites.
C’è però un’altra soluzione, ossia tramutarsi in organizzazioni di tendenza lobbistica. Questa è la strada scelta, con diverse sfumature e tattiche, dai sindacati confederali, che difatti nell’ultimo ventennio sono riusciti a mantenere stabile il proprio numero di iscritti. Il peso degli iscritti (pensionati, dipendenti pubblici, dipendenti di grandi aziende private) condiziona profondamente la linea dei sindacati e li rende, non certo da oggi, ampiamente disinteressati alla sorte di altre condizioni lavorative.
Alessandro Zabban
La crisi delle democrazie contemporanee deve essere letta alla luce delle riorganizzazione neoliberista e mondialista dell’Occidente. Ci si è resi conto che il neoliberismo non è solo una dottrina economica ma anche un progetto politico volto alla promozione dell’individuo come impresa individuale in perenne concorrenza con gli altri. Il vecchio patto sociale, quella della fase di accumulazione fordista basata sul Welfare State, che legava i diritti democratici non solo ai valori liberali classici (soprattutto diritti politici e diritti civili tradizionali) ma anche ai diritti economici, è stato eroso e al suo posto si è imposta una concezione vuota della democrazia, puramente formale, basata sul voto e su diritti di espressione e di partecipazione totalmente astratti, che ai cittadini interessa avere per sentirsi liberi ma a cui non interessa più di tanto esercitare.
La sensazione che la politica non risolva nulla, non promuova visioni del mondo, ma che si limiti ad amministrare più o meno bene la normalità, si traduce non in rabbia politica ma in disaffezione e lontananza. Il sistema mediatico, un vero e proprio oligopolio nelle mani di grandi magnati che oltre a giornali e televisioni controllano imprese più influenti e potenti di interi stati, trova nella Cina e negli altri paesi che non cedono ai ricatti dell’Occidente un nemico da denigrare con ogni mezzo, rendendo complesso ogni tentativo di controinformazione e di far passare l’idea che alternative possono esistere ed essere realizzate.
Non stupisce così che la crisi del sindacato e dei partiti sia cronica e difficilmente invertibile, anche se gli scossoni del Covid e delle turbolenze economiche e finanziarie potrebbero iniziare a trasformare anche le idee di cosa sia e debba essere la politica e la partecipazione. Ma verso quale direzione, è presto per dirlo.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.