Karl Marx diceva (in una delle sue citazioni più conosciute e abusate) che la storia si ripete due volte, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Se per gli storici la domanda sulla ripetibilità della storia è sostanzialmente retorica e provocatoria, per i biologi evoluzionisti resta aperta, e fonte di un acceso dibattito.
La ripetibilità dell’evoluzione riguarda, ovviamente, l’intera evoluzione biologica fin dall’inizio della vita sulla terra, ma ha alcuni punti caldi – relativi in particolare all’evoluzione di organismi pluricellulari, alla sopravvivenza e diversificazione della linea filetica che ha condotto ai cordati come li conosciamo oggi (noi compresi) e all’evoluzione di una forma di vita senziente (anche se quest’ultimo elemento, che apparentemente sembrerebbe il più rilevante a livello esistenziale, ha trovato una risposta almeno parziale nell’identificazione di una varietà di livelli di autoconsapevolezza in numerosi animali, appartenenti a più linee filetiche di uccelli e mammiferi).
Per quanto verosimilmente non avremo mai una risposta completa, il dibattito è stato abbastanza infuocato, e almeno negli anni ’70 e ’80 polarizzato tra coloro che sostenevano che la maggior parte dei processi macroevolutivi era decisamente casuale, e in quanto tale imprevedibile e statisticamente irripetibile, e coloro che ipotizzavano invece una relativa prevedibilità dei processi evolutivi, ammesso di conoscere le condizioni ambientali in cui avvengono. Un esempio classico è relativo all’evoluzione della linea filetica che ha condotto ai cordati (il gruppo cui apparteniamo anche noi).
Nel Cambriano, circa 540 milioni di anni fa, si è assistito improvvisamente ad una rapidissima diversificazione degli organismi pluricellulari, con la comparsa di numerosi piani anatomici differenti; una parte di questi piani ha dato origine ad organismi attualmente viventi, ma altri sembrano non aver lasciato discendenti, ed essersi estinti poco dopo, pur essendo numerosi nel record fossilifero, e verosimilmente diffusi nei mari cambriani. L’esempio classico contrappone Pikaia, uno dei primi cordati noti, una creatura vermiforme dall’aspetto diafano e innocuo, all’enorme Anomalocaris, un superpredatore vicino agli artropodi che poteva sfiorare il metro di lunghezza ed era provvisto di massicce appendici per catturare le prede e una bocca provvista di placche sclerotizzate che lo trasformavano in una sorta di tritatutto sottomarino.
Se avessimo avuto la possibilità di vedere questi organismi nel loro ambiente naturale, argomentano i sostenitori della casualità come Stephen Jay Gould, avremmo senza dubbio scommesso sul successo evolutivo di Anomalocaris, e considerato poco Pikaia; eppure, Anomalocaris non ha lasciato discendenti, mentre i discendenti di Pikaia rappresentano da centinaia di milioni di anni un gruppo di estremo successo prima in mare, e poi negli ambienti terrestri. Il risultato dei processi evolutivi sarebbe quindi casuale, e in quest’ottica la comparsa sulla Terra degli esseri umani dovrebbe essere vista come un fenomeno assolutamente imprevedibile, ed estremamente improbabile.
Altri studiosi, come Simon Conway Morris, sostengono sulla base dell’evidenza di processi di evoluzione convergente, che la varietà degli adattamenti evolutivi sia abbastanza limitata, e conseguentemente i risultati dell’evoluzione siano piuttosto prevedibili; la conseguenza diretta è che, se la probabilità che una specifica linea filetica di mammiferi desse origine ad una forma senziente e provvista di cultura è piuttosto bassa, quella che in generale a un certo punto venisse fuori qualcosa con le nostre caratteristiche era piuttosto alta; quasi certa, sostiene Conway Morris.
Ovviamente, anni di dibattito hanno reso edotta la comunità scientifica che ambedue le posizioni sono estreme e, in quanto tali, probabilmente ambedue sbagliate. Ma la domanda su quanto la storia sia ripetibile – cioè, quanto sia ripetibile, e quindi prevedibile, un processo che ha una componente casuale decisamente forte – rimane aperta ed è uno dei temi centrali della ricerca in biologia evoluzionistica. Per questo, l’evoluzione convergente – il fenomeno per cui organismi non strettamente imparentati sviluppano indipendentemente caratteristiche convergenti – è estremamente interessante; ma ancora più interessanti sono i rari casi di evoluzione ripetuta, in cui, cioè, la stessa linea filetica ha dato origine più volte agli stessi adattamenti.
Non
sorprende, quindi, che un
recente articolo scientifico sull’evoluzione dei rallidi del genere Dryolimnas nell’Oceano Indiano
occidentale abbia causato un certo scalpore. Poiché, a differenza delle altre
volte, stiamo parlando di organismi poco noti al grande pubblico, è forse il
caso di fare una breve digressione per inquadrarli.
I rallidi sono una famiglia di uccelli acquatici di medie dimensioni che
comprende circa 150 specie tra viventi ed estinte in tempi storici, tra le
quali le più comuni in Italia (spesso anche in parchi urbani) sono la folaga,
la gallinella d’acqua e il porciglione. Nonostante molte specie abbiano una
vaga somiglianza con delle anatre, i rallidi se ne distinguono per le zampe con
dita non unite da una membrana e sono imparentati con le gru; la somiglianza di
cui sopra è dovuta a simili adattamenti ad un ambiente acquatico (evoluzione
convergente).
Il genere Dryolimnas ricorda un po’ il porciglione europeo e comprende ad oggi una sola specie, il rallo di Cuvier o rallo golabianca (Dryolimnas cuvieri), suddiviso in tre sottospecie, una in grado di volare diffusa in Madagascar, una in grado di volare ma solo per brevi tratti diffusa un tempo sull’isola di Assumption, e oggi estinta, e una incapace di volare limitata all’isola di Aldabra, a volte considerata come una specie separata. In aggiunta al rallo di Cuvier, tuttavia, sappiamo dell’esistenza in tempi storici di altre due specie incapaci di volare, che vivevano sulle isole di Réunion e Mauritius. È abbastanza chiaro cosa sia avvenuto: dal Madagascar, gli antenati volatori del rallo golabianca sono arrivati su diverse piccole isole dell’Oceano Indiano in cui, in assenza di predatori terrestri, hanno perso la capacità di volare (scontandola il più delle volte in seguito con un’estinzione causata dall’introduzione di ratti, gatti, cani e maiali seguita alla colonizzazione umana).
Lo studio di Hume e Martill aggiunge un tassello a questa storia: per quanto Aldabra sia stata completamente sommersa nel Pleistocene superiore (circa 125.000 anni fa), con la conseguente totale scomparsa della sua fauna terrestre, abbiamo dei fossili di ralli del genere Dryolimnas incapaci di volare, da strati più antichi. È evidente che i ralli di Aldabra attuali non possono discendere da quelli fossili, eppure la somiglianza è fortissima, e l’adattamento è il medesimo. Abbiamo, quindi, un rallo incapace di volare che si è evoluto due volte, indipendentemente, sulla stessa isola, cioè uno di quei rari casi in cui possiamo provare che la storia, in effetti, può ripetersi.
Possiamo
però fare anche qualche osservazione ulteriore, intorno a questo caso. La prima
riguarda l’evoluzione di uccelli incapaci di volare, che sono comunque discendenti
di specie capacissime di volare (persino casi apparentemente controintuitivi
come struzzi e simili, che hanno l’aria di essere dei velociraptor in
incognito). Uccelli incapaci di volare
hanno perso tale capacità in tempi molto antichi, prima di essere oggetto di
una pressione predatoria e competitiva insostenibile da parte dei mammiferi,
all’epoca piuttosto piccoli e marginali, oppure sono associati ad ambienti
confinati in cui l’assenza di grandi predatori terrestri ha permesso di
sviluppare questa capacità (e di risparmiare contestualmente un bel po’ di
energia in ambienti non ricchissimi di cibo, dato che volare è decisamente
dispendioso).
Possiamo aspettarci uccelli incapaci di volare principalmente su isole di
piccole e medie dimensioni (con alcune eccezioni come la Nuova Zelanda, che pur
essendo piuttosto grande era storicamente abitata da due mammiferi nativi, una
foca e un pipistrello, ambedue ininfluenti per gli uccelli, e in cui le nicchie
ecologiche tipicamente occupate da mammiferi erano occupate da grandi uccelli
erbivori e incapaci di volare, e un paio di enormi rapaci come principali
predatori).
La seconda osservazione riguarda l’evoluzione di specie incapaci di volare nei rallidi. I rallidi non sono dei grandi volatori, anche se alcune specie sono migratrici anche ad ampio raggio: volano anche per lunghi tratti, ma in maniera evidentemente “faticosa” e sono in grado di contrastare pochissimo i venti; per contro, trenta specie su centocinquanta note (cioè un quinto) sono incapaci di volare. La maggior parte di queste specie si è evoluta in ambienti insulari, e praticamente ogni isola del Pacifico ha (o aveva) la sua specie endemica di rallo incapace di volare.
A questo
punto la risposta alla domanda “la storia si ripete?” risulta più sfumata, ma
anche più interessante. Sì, la storia può ripetersi. Ma quanto sia prevedibile dipende da altri
elementi, riguardo ai quali la nostra comprensione è limitata.
Sappiamo che nelle isole è plausibile che si sviluppino specie di uccello
incapaci di volare; sappiamo anche che i ralli del genere Dryolimnas hanno già dato origine indipendentemente a più linee
incapaci di volare, in varie isole dell’Oceano Indiano, presumibilmente a
partire dalla medesima sorgente, una specie volatrice presente in Madagascar.
Sappiamo, e questa è la cosa più importante, che i rallidi, per qualche motivo, sono
un gruppo particolarmente incline a dare origine a specie incapaci di volare:
un sesto dei rallidi viventi o vissuti in epoca storica ha perso la capacità di
volare, per contro sulle quasi quattrocento specie di pappagallo, solo il
kakapo della Nuova Zelanda è attero, e sulle quaranta specie di cormorano, solo
una (il cormorano delle Galapagos) è incapace di volare.
I rallidi sono quindi un gruppo in cui per qualche motivo possiamo aspettarci con una certa frequenza un adattamento nella direzione dell’incapacità di volare, e il motivo più probabile è che già non sono dei grandi volatori quando sono capaci di volare – volano, cioè, soltanto se strettamente necessario, e svolgono la maggior parte della loro vita a terra o in acqua. È chiaro che, in queste condizioni, la perdita della capacità di volare è abbastanza semplice da acquisire, e dipende principalmente dall’assenza di predatori; per altri uccelli, in cui anche altri tratti del ciclo biologico sono strettamente legati al volo, smettere di volare è evidentemente più difficile e anche in condizioni propizie accade molto di rado.
L’impressionante caso di una specie che si è evoluta due volte in maniera indipendente nello stesso luogo, quindi, non ci dice tanto che la storia si può ripetere, ma quando è più probabile che si ripeta. Saremo, cioè, avvantaggiati se puntiamo il nostro denaro su un organismo che ha già alcuni tratti ecologici e morfologici che lo avvantaggiano in una specifica direzione, e che ha dato prova di vari processi evolutivi in quella direzione. In altre parole, quante più volte un organismo ha evoluto un determinato tratto nel corso della storia, tanto più probabile è che lo sviluppi di nuovo. Un rallide incapace di volare è in un certo senso qualcosa di quasi ovvio – qualcosa che è prevedibile accada, se gliene viene data la possibilità; un cormorano o un pappagallo incapaci di volare sono molto meno plausibili, nonostante esistano, e faremmo meglio a non scommettere sulla loro evoluzione ripetuta.
Per tornare alla domanda di apertura, quindi, abbiamo una risposta, sia pure temporanea. Sì, la storia può ripetersi. Ma si ripete in forma paragonabile ai casi precedenti tanto più questi casi precedenti sono numerosi. In altre parole, applicandola alla nostra specie, abbiamo numerosi dati che ci suggeriscono che forme di autoconsapevolezza siano frequenti in almeno due gruppi di vertebrati, e in linee filetiche non direttamente imparentate. Possiamo ragionevolmente concludere che lo sviluppo dell’autoconsapevolezza sia un fenomeno abbastanza prevedibile. Allo stesso modo, anche se meno diffusi, l’uso di strumenti e la trasmissione culturale sono presenti in diverse linee filetiche. Per contro, un tratto che ha avuto un ruolo centrale nella nostra evoluzione, ossia la possibilità di trasmissione culturale attraverso numerose generazioni, sembra limitato alla nostra specie, e al tempo stesso ci caratterizza.
Avevano ragione (e torto) tanto Conway Morris quanto Gould: sì, la maggior parte delle caratteristiche che ci contraddistinguono erano grossomodo prevedibili. Ma quelle che ci rendono unici, che ci rendono esseri umani, restano in un certo senso un miracolo contro le leggi della probabilità.
Immagine di David Stanley (dettaglio) da commons.wikimedia.org
Joachim Langeneck, assegnista di ricerca in biologia presso l’Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell’ambito dell’etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.