Pubblicato per la prima volta l’8 gennaio 2016
Le persone leggono meno libri, vanno meno ai musei, ma sicuramente continuano ad ascoltare tantissima musica. La loro vita è circondata dalla musica. La musica si trova nei negozi, nei supermercati, nelle piazze. Nelle nostre abitazioni, poi, abbiamo sempre più dispositivi tecnologici che ci consentono l’accesso alla musica e la riproduzione di brani musicali. Il numero di persone che si accosta a uno strumento musicale è in continua espansione. Inoltre, nonostante la crisi del mercato discografico, la musica è ancora il settore dell’industria culturale, insieme al cinema, con maggiori potenzialità di business.
Ma dietro queste immagini di superficie, non è difficile notare la grande scollatura fra musica e contesto sociale, divario che è sembrato acuirsi sempre di più negli ultimi anni. L’ascesa della musica popolare nella prima metà del Novecento non ha significato solo una democratizzazione nella produzione e nell’ascolto della musica, ma ha anche significato una attenzione al contesto sociale e alle questioni politiche, tale per cui la musica è diventata uno strumento di lotta e un veicolo per il cambiamento come mai prima di allora.
Il connubio fra musica (suonata e rivolta a un pubblico) popolare e l’attenzione alle questioni sociali ha una chiara connotazione nera: sono gli afroamericani che suonando jazz e blues mettono in musica la loro angoscia e la loro frustrazione rispetto a una condizione che li ha visti essere la classe sociale, con chiara demarcazione etnica, più svantaggiata nell’ordine capitalista della giovane nazione statunitense. Anche dopo l’abolizione della schiavitù, la musica nera canta le condizioni di estrema povertà e marginalità con cui ogni afroamericano deve fare i conti ogni giorno.
Dalla seconda metà del secolo scorso, la nascita del rock’n’roll segnerà la svolta definitiva verso una musica vista come strumento di espressione delle componenti più dinamiche e progressiste della società. Anche le musiche bianche del folk e del country, tradizionalmente conservatrici e nostalgiche di un passato agreste in decadenza, diventano, mescolandosi col rock, una forza orientata al cambiamento e alla denuncia sociale (grazie anche alle geniali innovazioni di artisti quali Dylan e Young).
Col jazz prima e il rock successivamente, si ha la definitiva trasformazione della musica popolare da forma di ribellione giovanile, da modalità espressiva di una minoranza o sottocultura ad arte consapevole. Si coniano nuovi canoni stilistici e si offrono gli strumenti per superarli. La musica popolare diventa arte quando una volta fissati nuovi parametri artistici, si creano le condizioni per immaginare un “oltre” artistico e il continuo superamento del canone definito. Col rock, in particolare, si ha la definitiva alleanza della musica popolare di ispirazione americana con l’avanguardia modernista di origine europea. Emerge l’idea che l’arte è un conflitto fra istinti di conservazione e forze volte a rovesciare il già suonato e il già sentito. Creando una proprio stile, una propria iconografia, dei propri rituali, il rock crea anche le condizioni di possibilità per andare al di là di se stesso, di mettere in continua discussione quegli stessi canoni, rendendo così possibile immaginare l’avanguardia e il superamento continuo.
Se da una parte dunque abbiamo l’esigenza di trasformazione sociale di una nazione, quella americana, già piena di contraddizioni che pullula di una nuova generazione vogliosa di immaginare un mondo diverso, dall’altra c’è lo spirito di sovversione artistica mutuato dal clima modernista e avanguardistico dell’epoca, profondamente disilluso e critico di fronte ai concetti di ordine, unitarietà, coerenza e progresso del pensiero illuminista e borghese. Con stili e secondo sfumature diverse, le opere pittoriche di Picasso, Matisse, Duchamp, Klee, Kandinsky, quelle musicali di Stravinskij e Schoenberg, o quelle letterarie di Proust, Mann, Garcia Márquez, Joyce, Woolf diedero un impulso decisivo a legittimare ogni forma di espressione artistica interessata a sovvertire le chiuse e ottuse regole accademiche.
Fondendo la possibilità di trasformazione sociale, che veniva dalle componenti più progressiste dell’America, con lo spirito avanguardistico e di trasformazione del canone estetico, nella nascente scena rock’n’roll c’era dunque libertà di esplorare, sovvertire la regola e dunque anche stupire, meravigliare, scuotere, scandalizzare. Si arriva così a definire un ruolo socio-culturale ben preciso per la musica, che non deve limitarsi all’espressione puramente estetica ma che ha anche il compito di sancire un binomio ferreo fra arte e realtà: le trasformazioni stilistiche, lungi dall’essere dei meri esercizi di stile, devono rispecchiare le esigenze di trasformazione sociale.
Il momento in cui urgenza di trasformazione artistica e sociale si mescolano e fecondano vicendevolmente nella maniera più completa avviene col grande movimento psichedelico fra anni sessanta e settanta. Nel contesto della nascita della Beat Generation e degli Hippie, la musica diventa il veicolo per la trasmissione di nuovi stili di vita: il rifiuto della società perbenista e patriarcale, la critica al razzismo dilagante e alla guerra in Vietnam, a una esistenza materialista e schiava del profitto. La musica psichedelica di quella stagione riscopre il bisogno della ricerca, che è investigazione sia individuale e spirituale (la ricerca di nuove dimensioni mentali e fisiche tramite l’amore e la sperimentazione di sostanze stupefacenti), sia sociale e politica fondata sull’urgenza di comunicare la propria avversione nei confronti di un mondo gerarchico, autoritario e guerrafondaio. Il veicolo privilegiato con cui la controcultura indirizzerà, tramite la musica, i suoi messaggi filosofici e politici più radicali saranno i festival (in particolare quelli di Woodstock e all’isola di Wight), che all’epoca più che dei concerti erano delle vere e proprie manifestazioni, più che dei raduni degli eventi collettivi catartici e dirompenti in grado di gridare al mondo l’avversione di un intera generazione per lo status quo.
Mai come in quell’epoca il legame fra realtà sociale e musica è stato tanto forte. La musica era uno strumento di lotta. Il musicista era una guida spirituale e intellettuale: a lui si non si chiedeva solo di suonare, si chiedeva di adottare un comportamento etico ed estetico preciso, si chiedeva di svelare la verità e di farsi leader di un processo rivoluzionario. Le trasformazioni dei canoni stilistici procedevano di pari passo con quelle della realtà sociale.
Impossibile in questo contesto ricostruire nella sua interezza la densa interconnessione di eventi e avvenimenti che, a partire dagli anni Ottanta, hanno portato a una decisiva rottura rispetto a una situazione di forte sinergia fra avanguardismo sociale e musicale. Qua ci limitiamo a richiamare sinteticamente il fatto che concorrono a questa ritirata della musica dalla sfera dell’impegno sociale le grandi trasformazioni dell’economia capitalista di quegli anni di riflusso e di ritorno al privato promosso dalle politiche tatcheriane e reaganiane, in un contesto di disillusione nei confronti di tutti quegli esperimenti di alternativa politica e sociale al modello capitalista imperante che si erano affermati nel Novecento.
L’avvento del neoliberismo ha portato a un cambiamento anche nella sovrastruttura delle società occidentali che, facendo proprie alcune delle componenti più individualiste della controcultura, apre le porte per una logica culturale di tipo postmoderno che predilige la frammentazione e il precario ed estetizza il contraddittorio e l’evanescente. Ciò si riflette direttamente anche nella sfera dell’arte (il termine stesso di postmodernità è nato inizialmente nell’ambito dell’architettura) e in particolare della musica popolare.
È stato fatto notare da più parti che la cultura postmoderna (o meglio, tardomoderna), radicalizzando ed acutizzando quel disagio delle avanguardie rispetto ai concetti chiusi, alla gerarchizzazione elitaria, all’ordine razionale, impone una trasformazione epocale che concerne il ruolo del musicista che da faro generazionale e modello di vita diventa mero erogatore di un servizio estetico o di una merce culturale, la dissoluzione fra cultura alta e cultura bassa proprio in virtù di una generale insofferenza verso ogni forma gerarchica e ordinativa, un apprezzamento snodato per il collage, il pastiche, la giustapposizione caotica di frammenti, influenze, elementi come strumento per raggiungere una qual forma di originalità.
Tutte queste considerazioni hanno dei loro fondamenti di verità. Quel che interessa però, in questa sede, è mettere in evidenza un altro aspetto, a parere di chi scrive decisivo nel comprendere la mutazione del rapporto fra musica col suo contesto socio-culturale.
Si è accennato precedentemente al ruolo che le avanguardie hanno avuto nel trasmettere al rock quell’impulso di trasformazione orientato al superamento delle sue stesse categorie, rimettendosi sempre in gioco, cercando sempre di superare i confini del modus operandi tradizionale.
Nel suo carattere assolutamente ambivalente (vi si possono riscontrare elementi sia positivi che negativi), il tardomoderno ha sancito la dissoluzione di ogni canone stilistico: se nel corso del novecento, l’arte era quella tensione dialettica e conflitto fra istanze conservatrici con quelle avanguardiste e rivoluzionarie, nell’epoca attuale la possibilità di innovazione è ostacolata proprio dall’impossibilità di immaginare un canone, una norma stilistica di riferimento. Senza di quest’ultima, non vi è più niente nei confronti di cui ribellarsi, ma soprattutto, se tutto va bene ed è accettabile, non c’è più niente che produca scalpore, sconcerto, persino risentimento. Lo scandalo dei già accennati festival di musica psichedelica dove si faceva uso di droga e si praticava l’amore libero, lo stile di vita autodistruttivo dei punk anarchici o gli spettacoli estremi erotico-perversi dei Throbbing Gristle erano la prova che la musica popolare era avanguardia, era arte in grado di smuovere le coscienze, di disturbare i ben pensanti, di far pensare gli intellettuali, di impressionare ed ispirare i giovani.
Questa dimensione fondamentale dell’arte è oggi venuta meno. La cultura postmoderna, che ha portato delle trasformazioni anche per molti versi liberatorie e innovatrici, ha però paradossalmente rinchiuso l’arte entro dei meandri puramente estetici, togliendole quella capacità di stupire, meravigliare, inquietare. Se ciò riguarda tutta l’esperienza estetica, e in particolare la musica quella che oggi, soffre di una incapacità di impatto sulla società senza precedenti. Si crea così un cortocircuito fra la possibilità di coniugare trasformazione musicale e trasformazione sociale, proprio perché è la prima a non avere più un senso, dato che quando mancano i parametri della normalità è impossibile dire cosa sia anormale, quando non si sa cosa sia la conservazione, è impossibile immaginare la trasformazione.
Hegel riteneva che l’arte fosse una delle modalità fondamentali tramite cui l’uomo ricerca l’assoluto, il sublime: come ogni altra forma artistica, la musica è un modo per ricercare delle verità su di noi, sul mondo, sulla società in cui viviamo. Come in ogni altra forma artistica, è connaturato nella sua essenza quella di fornire delle interpretazioni, di ricercare, di avanzare delle ipotesi e delle critiche su ciò che la circonda e di cui ne è parte. Al giorno d’oggi, questa componente fondamentale sembra venuta meno. Fredric Jameson in un suo celebre saggio scrive come al giorno d’oggi la musica abbia una componente quasi completamente estetica:
“Questa è l’altra faccia della postmodernità, il ritorno del Bello e de decorativo, al posto del più vecchio concetto moderno di Sublime, l’abbandono da parte dell’arte della ricerca dell’Assoluto o di pretese di verità e la sua ridefinizione come risorsa di mero piacere e gratificazione”.
Se la musica non può più pungere, rimettere in discussione l’assodato, non resta che abbandonarsi alla dimensione puramente estetica della musica. Le nuove tendenze musicali sembrano proprio confermare questo aspetto. Le migliori cose uscite in una miriade di generi dal dubstep, al dream Beat, all’ambient, al post rock, fino alle più recenti novità vapor wave, coi loro languidi paesaggi malinconici e nostalgici, esprimono un disagio non meglio identificato, senza nessun referente, senza possibilità di individuare la causa di questa condizione di malessere, ma chiedono solo all’ascoltatore di abbandonandosi alla bellezza visionaria della loro arte. Si tratta di una gran quantità di artisti eccezionali (Burial, Boards of Canada, Tycho, John Hopkins, Grimes, Fennesz, Fuck Buttons, Hood, Memory Tapes…) in grado di produrre suoni fascinosi e vibranti, inquieti e seducenti ma in cui manca la possibilità di concepire la trasformazione artistica come veicolo della trasformazione sociale.
Nella società contemporanea la città diventa un’enorme serie di simulacri estetici: fra pubblicità, insegne, cartelloni, vetrine, luci colorate, sapori di pietanze etniche, musiche di sottofondo, la nostra esperienza di vita è un continuo confronto con la dimensione estetica che ormai è stata completamente inglobata dal sistema economico come strumento per favorire il consumo. La musica è dunque ovunque, come si diceva all’inizio, nei negozi e nei centri commerciali come nelle nostre case e nei luoghi pubblici. Ma la musica è troppo spesso il sottofondo che si mette quando stiamo facendo qualcos’altro, una esperienza estetica tanto piacevole quanto evanescente e flebile che ha sempre più difficoltà a catturare l’attenzione dell’ascoltatore e che non ha di fatto più alcuna capacità di scuoterlo, smuoverlo, contrariarlo, metterlo a disagio, spingerlo a riflettere e a ripensarsi, cambiare. La musica non manca in società ma manca di società: la grande conquista dell’epoca moderna, la totale libertà da ogni formalismo e canone, rischia di farle perdere una delle sue funzioni fondamentali, quella di essere veicolo ed espressione del cambiamento sociale.
Immagine via Pikrepo
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.