Pubblicato per la prima volta il 7 ottobre 2014
Quando nel 1986 il sociologo tedesco Ulrich Beck conia l’espressione di “società del rischio” già il mondo viveva da diversi decenni in un contesto di crescente incertezza e angoscia rispetto al destino dell’umanità: genocidi, armi di distruzione di massa, crisi economiche avevano fortemente messo in discussione l’ingenua e superficiale fiducia nel progresso e nella crescita del livello di sicurezza individuale e collettivo.
Tuttavia il ragionamento di Beck ha avuto il merito di interpretare con discreta lucidità molte delle tendenze del capitalismo contemporaneo. L’intuizione del sociologo tedesco è stata quella di capire come il rischio non dipenda più da cause esterne e fuori dal controllo dell’Uomo (come le calamità naturali) ma che sia prodotto proprio dall’essere umano, cioè il rischio diventa l’esito di dinamiche sociali, basta pensare al precariato, alle speculazioni finanziarie e alle crisi ecologiche, tutti fattori di rischio che sono stati creati in età moderna dalla logica del progresso, dell’espansionismo, della modernizzazione e del passaggio del profitto da mezzo a scopo.
La grande novità di Beck è stata quella di presentare una analisi scientifica e analiticamente molto accurata delle tendenze distruttive insite nel capitalismo novecentesco (così come lo erano nel socialismo reale) e ancor più accentuate nel neoliberismo attuale. Invece di essere la solita profezia funesta, quello di Beck era un scenario, effettivamente plausibile, di come potrebbe andare il mondo se le cose non dovessero cambiare strutturalmente e in maniera sostanziale.
La consapevolezza che il sistema economico attuale non possa esistere senza generare rischio sociale (ne sono prova i propositi quasi sempre disattesi delle élite globali di tenere sotto controllo la flessibilità lavorativa o il settore finanziario o di abbattere l’emissione di gas serra) offre grandi spunti a tutte quelle forze di sinistra che lottano per un cambio radicale di paradigma socio-economico.
Ma come viene usata da un punto di vista tattico questa possibilità di critica sostanziale? Purtroppo molto spesso si tende a pensare che le prospettive apocalittiche che si aprono di fronte a noi possano essere di per sé uno strumento per risvegliare le coscienze, addormentate da tempo sotto le macerie del muro di Berlino.
Sulle colonne del Jacobin, prestigiosa rivista socialista americana, Sam Gindin afferma come la sinistra debba smetterla di affidarsi allo spettro di un crisi devastante come meccanismo per superare la passività popolare. Paventare la distruzione, afferma giustamente lo studioso canadese, non è lo strumento adatto per costruire un’alternativa al sistema economico attuale. Certo, può generare molta più attenzione rispetto a interminabili dibattiti – comunque utili – su l’esito dei piani quinquennali in URSS, ma si rivela spesso essere controproducente. E il motivo è molto semplice: la gente, impaurita dal possibile scenario futuro, invece di affidare le sue speranze a un cambiamento politico radicale del quale non si riescono a dipingere i contorni in maniera chiara, tende a dare risposte più impulsive e conservatrici tali da permettere di ridurre l’ ansia nel breve periodo. Insomma paventare una catastrofe imminente, non fa altro che avvicinare le persone – argomenta Gindin – “a soluzioni illusorie basate sul mercato, percepite comunque come più rapide, pratiche e meno rischiose” rispetto a soluzioni politiche molto più complesse che vengono spesso considerate alla stregua di mere utopie.
Insomma, dice bene Gindin: il collasso economico non è certo ciò che di per sé possa convertire magicamente le persone al socialismo.
Il rischio del crollo, sia esso economico o ambientale, è oramai uno scenario da non scartare ma per diventare anche uno strumento di lotta politica e un fattore di delegittimazione del sistema globale, piuttosto che paventarlo, occorre connetterlo all’interno di una più grande lotta per l’equità e la giustizia sociale. Confrontarsi con il rischio non deve implicare un messaggio quasi minaccioso che inciti la persona a cambiare e ad attivarsi per il suo bene e per la sua stessa sopravvivenza, così la si spaventa e basta (e una persona impaurita sviluppa una personalità conservatrice, come ci ricorda Adorno), piuttosto occorre promuovere azioni pratiche che vadano nella direzione della riconquista dei diritti democratici e della lotta alla disuguaglianza in quanto generatrici di sicurezza sociale ed individuale e, dunque, contrapposte a un sistema intrinsecamente portatore di rischio strutturale.
Occorrono insomma programmi politici che si fondino sulla sicurezza piuttosto che fare leva sulla paura, occorre usare il rischio non come una minaccia ma come arma politica che dia maggiore determinazione e legittimità al nostro impegno di esigere sicurezza sociale (il diritto alla casa, l’accesso all’istruzione e alle cure mediche, a posizioni lavorative stabili), occorre infine cambiare paradigma non solo perché si rischia la distruzione del nostro modo di vivere quanto prima di tutto perché è giusto; ed in ultima istanza perché è giusto vivere in un mondo che non sia continuamente soggetto al rischio sistemico.
Immagine di Ralf Lotys (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.