Il dolore è una questione privata o sociale? Esso riguarda solo la persona sofferente e quello che lei percepisce e sente, chiudendola in una gabbia che la isola dal resto del mondo, privandola dell’attenzione altrui e finendo con il diventare l’unico metro di giudizio e conoscenza dell’universo che la circonda portandola a provare rabbia o a crearsi all’interno di quella gabbia un altro mondo possibile fatto di giustificazioni, alibi, scuse, piccole cattiverie verso gli altri, oppure è un fatto che riguarda tutti, perché ci coinvolge anche se non siamo noi il malato e sofferente? In questo caso le dinamiche sono spesso soggette a tutta una serie di dogmi e giudizi affrettati che spesso e volentieri si abbattono su chi si trova a convivere o ad aver a che fare con una persona malata.
Tuttavia prima di occuparci di dar un senso a questa domanda (come possiamo darla attraverso la riflessione più che l’analisi visto che chi scrive non è un psicologo o altro) dovremmo soffermarci su come la nostra società vive il dolore, lo facciamo ponendo questa domanda e cercando di dar una prima e del tutto opinabile risposta a questo quesito: Viviamo in tempi di dittature del dolore o di negazione di esso?
La
risposta da parte mia non può essere netta e precisa, perché vi
sono elementi che mi inducono a soffermarmi su considerazioni
percepite durante la mia vita, anche come persona che va in
terapia.
Io credo che proprio il mondo occidentale abbia
grossi problemi con il relazionarsi col tema del dolore e della
sofferenza. L’immagine che vogliamo dare, a un primo sguardo
superficiale, è quello del mondo libero, un posto dove possiamo
essere felici attraverso l’acquisto di merce, una buona carriera
lavorativa o una serie di successi personali (attenzione il successo
è sempre un elemento di forza individuale che però è tale solo se
riconosciuto e invidiato dagli altri) la libertà di vivere la vita
assecondando le proprie soddisfazioni escludendo ogni responsabilità
e riflessione sulle conseguenze. Un mondo quindi dove l’armonia è
presente in modo pratico e dimostrabile. Peccato che appena sotto
questa superficie vi sia un universo fatto di stress e solitudini,
una società precaria a livello lavorativo e relazionale. Proprio in
questo campo il dolore trova spazio elevandosi da crisi personale
a modo di vivere, in cui la reale sofferenza si contamina con
quella percepita.
E la società l’asseconda attraverso un
progresso fittizio e di comodo, dove invece che l’impegno per
guardare in faccia il dolore, viverlo e trovare gli elementi che ti
possano aiutare a superarlo (terapie e aiuti scientifici) si cerca di
dar alla persona mille modi per non affrontarlo ed eliminarlo sul
nascere, alla prima sbandata. Così pensiamo che la nostra relazione
sia arrivata al capolinea perché “abbiamo caratteri diversi”. O
decidiamo che una vita non merita di veder la luce perché è quella
di un malato, o non c’è uno sforzo (quantomeno non viene percepito
dalla società) per cercare nuove cure e metodi di cura per chi sta
male.
Noto un certo atteggiamento in molte coppie che viene scambiato come un modo di vivere la relazione in una maniera adulta e responsabile, scevra da romanticismi di sorta, ma che ha “la fine”, il disincanto, il traguardo della tomba dell’amore come unica via di completa realizzazione. Come se fosse un passaggio obbligatorio. In questo caso il dolore quindi è consapevole, certo, copre ogni buono proposito, nega qualsiasi proposta e chiude il dialogo fra i due. Eppure cosa scatena questo iter ormai abusato da persone sempre più deboli e incapaci di reazione? L’ossessione dei “bei tempi”. La sessualità come unico metro di vita di coppia intensa e quella gioia senza freni, affamata di cose nuove, sensazioni, purezza assoluta che è l’innamoramento (rammentiamo l’innamoramento è solo il prologo dell’amore poi ci sono i capitoli che costituiscono il rapporto) per cui l’allontanamento del disagio, della crisi, della reale scoperta di chi abbiamo di fianco. Tanto è l’impegno nel conviverci, successivamente al naturale superamento della fase dell’innamoramento, che le relazioni sono destinate a fallire perché siamo individui che vivono su un’isola, quanto ci impegniamo a mantenere viva un’idea di vita relazionale che si basa su canzoni romantiche, film sentimentali e la mancanza dello scontro, del dissenso, e del dolore che amare ci provoca. Una contraddizione interessante.
Perché veniamo attratti dal disincanto che ci provoca soffrire, ma non siamo in grado di sopportarlo e cerchiamo costantemente vie di fuga. Semplici, facili, immediate. Il mondo libero e felice è pieno di corsi che ti aiutano a vivere meglio, dove la tua vita e la tua persona vengono ingabbiate in regole aziendali, in cui la felicità è il successo che l’individuo come prodotto ottiene attraverso la capitalizzazione dell’essere umano. Questi corsi alimentano una cieca fiducia nell’individuo ma allo stesso tempo lo distruggono quando, come è facilmente intuibile, le regole si mostrano come parole in libertà e la felicità materiale e lussuosa non si palesa. Allora sei tu che sei sbagliato, non la lezione di vita dei life coach. C’è un uso non irrilevante di medicinali e antidepressivi che andrebbe analizzato perbene. Non ora e in questo articolo.
Sopratutto
una società che fa di tutto per negare il dolore ma è in balìa di
esso, arriva a confondere un dolore forte, serio e pesante con le
debolezze umane e le crisi che ogni uomo o donna vive durante la sua
esistenza.
Ecco, il crollo di questa barriere solida che pone da
una parte chi “davvero” sta male e dall’altra chi vive la
percezione della sofferenza, ma di fatto non ha problemi rilevanti,
penso sia un elemento affascinante per riscrivere e ripensare la
materia del dolore e di come porci con esso.
La persona convinta
di essere depressa non sempre è cosciente di star recitando un
ruolo, abusandone e mortificandolo, non c’è un’intenzione di
manovrare una malattia seria, poi per quale motivo? Forse attirare
l’attenzione? Possibile, visto che la solitudine e il distacco tra
individui è problema reale. Il fatto che alcuni muoiano in completa
solitudine e per mesi nessuno se ne accorga dovrebbe farci pensare
molto su come è strutturata la nostra società. Spesso la reazione
contro le persone che inscenano la loro sofferenza o stanno male per
cose minime è di sottovalutarli o criticarli aspramente. Perché
nessuno di noi sta al passo con la degenerazione e devoluzione che
da trenta e passa anni la società sta vivendo. Le macerie del
thatcherismo che non vogliamo comprendere e debellare hanno
modificato in modo profondo la società e le dinamiche al suo
interno. I pilastri su cui si basava la vita delle masse crollando,
creano spazi vuoti e liberi, tutto questo spaventa le persone e si
ricorre alla rappresentazione, la recita, come metodo di dar un senso
a se stessi e a quel terribile vuoto di sentimenti, ideali,
iniziative, sogni e desideri, delegati ai media e alla dittatura del
libero mercato.
Per questo il dolore è presente e domina la
nostra vita. Non devi davvero essere depresso per soffrire di
depressione, ti senti in quel modo e ad ogni tentativo di reazione
posta dall’esterno si reagirà con rabbia. Questo certo crea
confusione e danneggia le persone che purtroppo stanno male davvero.
Ma chi riesce a sostenere il dolore dell’altro? Ed è possibile farlo per tutti? Qui si apre una discussione interessante su un tabù, un dogma, che non vogliamo infrangere per un senso di colpa forte e imposto: il dolore degli altri. Non tanto di chi sta male e soffre, ma delle persone che vivono accanto a chi sta male. E subiscono dai malati tutto il loro egoismo, rabbia, frustrazione, manipolazione, non potendo ribellarsi perché sarebbero giudicati immediatamente come persone spregevoli. Insieme a quelli che non si occupano del parente malato, mentre si costruiscono monumenti a colui che sacrifica la sua vita per occuparsi della persona sofferente. Accanto al malato c’è sempre qualcuno che vede la sua vita spezzarsi, che la vede stravolta e supina ai voleri di una persona che va perdendosi e che lascia al suo posto la malattia. Si crea questo terribile scontro tra chi ha una vita da vivere e quindi anche il dovere di provare allegria e felicità e chi vive nel buio della sua disperazione e da lì prova rabbia verso il mondo, si sente sempre più messo in un angolo, abbandonato.
Non
è facile comprendere che sei tu ad avere una malattia e non la
malattia ad aver te. Vivi con una persona depressa che sta male
davvero per cui la tua vita sarà al servizio di questa malattia e
dei momenti in cui magari diventa più “leggera” per poi franare
quando c’è la crisi totale. Chi vive accano a queste persone prova
quasi una colpa e una vergogna che li macchia come esseri infami se
provano felicità per un giorno particolarmente piacevole, cercando
distrazioni innocue, vivono sentimenti positivi verso la vita o gli
altri. Come se la loro felicità fosse un torto verso chi sta male, e
spesso non trovano nessuno aiuto in merito.
Come fai a
prendertela con un malato terminale che agisce in base all’egoismo
e alla rabbia dovuta ala sua condizione? Come fai a palesare la tua
felicità quando vivi a stretto contatto con una madre, un padre, un
fratello che soffre di depressione e non perde tempo per annullare la
tua propensione alla gioia? Come può un bambino che vive queste cose
direttamente uscirne e diventare un adulto capace di amore, gioia,
felicità reali?
La
società è pronta a giudicare come perfidi e osceni quelli che si
ricordano comunque di aver l’obbligo e il dovere di vivere.
Attenzione questo dovere non vuol dire fregarsene totalmente del
malato, ma di non donare a un errato senso di sacrificio e dovere la
propria esistenza al dolore degli altri. O di aver quantomeno il
sostegno di altri individui capaci di capire la difficoltà estrema
di chi si trova ad accompagnare il dolore e la fine degli
altri.
Parliamo del coraggio di chi ci lascia, anche questo un
obbligo divino come se ammettere che negli ultimi tempi la malattia
ha preso il posto dell’umanità e che la morte ci terrorizza e
devasta sia una vergogna, ma mai di chi sta al loro fianco subendo
cose inaccettabili da più fronti.
E dirò di più per me ci
vuole forza e coraggio anche nel non occuparsi, nel cercare il
distacco dal dolore altrui, perché in quel momento manifestiamo una
nostra debolezza che sarebbe solo dannosa e inopportuna in certi
casi. Poi sarà anche il caso di chiedere aiuto a qualcuno se non
riusciamo a gestire certe cose.
Per
cui il dolore non è mai una questione privata, ma colpisce e affonda
tutti quelli che vivono o conoscono le persone malate. Il dolore
merita rispetto anche quando noi lo percepiamo come minimo, una
sciocchezza e ci viene voglia di alzare la voce contro chi recita una
sofferenza effimera. Quella recita è un modo di parlare di qualcosa
di molto profondo. Inoltre non sappiamo mai quale è il grado di
sopportazione della sofferenza di una persona. Meglio eclissarsi
piuttosto che esser di peso o nocivi.
Lo ripeto: la nostra
vicinanza se non è in grado di essere utile anche in cose leggere, è
meglio che non ci sia. Meglio lasciare ai professionisti il peso
delle cure e e assistenza al malato.
Un
modo per comprendere il dolore è cercare di conoscerlo e non cercare
vie di fuga che la società non manca di proporci, ma che funzionano
nell’immediato per poi lasciarci di nuovo al punto di partenza.
La
contraddizione del nostro mondo è questo: una felicità malata, di
facciata, esteriore, basata solo sulla soddisfazione più banale
dell’individuo.
Il
dolore come tabù che non dobbiamo infrangere o mettere in
discussione, perché prendersela con un malato è da infami.
Invece un modo per allontanare di poco la degenerazione è esser
coscienti del fatto che dobbiamo vivere, provare gioia, rispondere a
un’offesa immeritata, uno sgarbo che sappiamo essere ingiusto anche
se fatto da un parente o amico a cui vogliamo bene. Sia ben chiaro
non deve essere la scusa per abbandonarli, ma di trovare un giusto
equilibrio e supporto. Il dolore degli altri, negato e giudicato
superficialmente, merita attenzione e rispetto. Di fronte alla
sofferenza il giudizio che si basa sui luoghi comuni e idee errate di
sacrificio personale deve lasciar spazio alla compassione e sostegno
per l’altro. Attraverso anche il dialogo costante, mai negando agli
altri, una parola, un gesto che sia di avvicinamento e
comprensione.
Ecco quello che davvero fa male a chi soffre e a
chi sta loro accanto è la solitudine. A volte voluta e
ricercata non subita dagli altri. Riconoscere queste cose ci fa
sentire meglio, anche se ci fa attirare giudizi sprezzanti dagli
altri.
Davide Viganò nasce a Monza il 24/07/1976: appassionato di cinema, letteratura, musica, collabora con alcune riviste on line, come per esempio: La Brigata Lolli. Ha all’attivo qualche collaborazione con scrittori indipendenti, e dei racconti pubblicati in raccolte di giovani e agguerriti narratori.
Rosso in una terra natia segnata da assolute tragedie come la Lega, comunista convinto. Senza nostalgie, ma ancor meno svendita di ideali e simboli. Sposato con Valentina, vive a Firenze da due anni