La prima manovra finanziaria del governo giallo-verde: riflessioni a confronto
Il Documento di economia e finanza presentato dal governo si discosta sensibilmente da quello approvato il 26 aprile dal dimissionario ministero Gentiloni, che peraltro, vista la nuova composizione parlamentare, si limitava a considerazioni di carattere consuntivo.
La legge di stabilità che esso dovrebbe ispirare è stata battezzata da Di Maio “manovra del popolo”, a cui il vicepresidente ha assegnato l’arduo compito di abolire la povertà. Salutati dai parlamentari del M5S con un’esibizione di applausi sotto il balcone di Palazzo Chigi, il Def e la dilatazione del deficit al 2,4% per tre anni sono stati ricevuti un po’ più freddamente dagli investitori, provocando nella sola giornata del 28 settembre la perdita di 25 miliardi in Borsa e riaccendendo la corsa dello spread con i Bund tedeschi.
Analogo scarso entusiasmo è sembrato provenire dal Presidente della Repubblica, che ha richiamato i vincoli di sostenibilità dei bilanci pubblici richiesti dalla Costituzione. La precaria colla che potrebbe tenere insieme il Quirinale, i partiti di governo e la posizione italiana sui mercati risiede nella persona del ministro Tria, che pure umiliato da M5S e Lega sembra disposto a difendere fino in fondo lo Stato da una grave crisi di fiducia.
Tanto fumo e poco arrosto. Come nella peggiore tradizione della prima, seconda e, a questo punto, terza repubblica si conferma una manovra economica che continua a non risolvere i problemi e ad aumentare le disuguaglianze. Lo sforamento del deficit/pil è in linea con i precedenti governi tranne che per le modalità della definizione dello stesso rispetto all’UE. Infatti, quest’ultimo è stato fissato indipendentemente e preventivamente dal governo giallo-verde rispetto alla Commissione europea. Parrebbe proprio essere un casus belli ad arte organizzato.
Gli obiettivi principali della maggioranza di governo o aumentano le ingiustizie e sono palesemente incostituzionali (vedi flat tax) oppure sono fumosi e contraddittori rispetto agli obiettivi e alla platea di chi ne usufruirà (vedi reddito di cittadinanza).
Al posto di utilizzare lo sforamento per rilanciare gli investimenti pubblici e non solo (necessari soprattutto nel Mezzogiorno), per allargare il welfare in Italia (così falcidiato in Italia) si utilizzano le risorse solo per rispondere in modo parziale alle famose promesse elettorali di Lega e M5s.
Insomma, non c’è alcun mutamento significativo di politica economica mentre c’è (questo sì) un aumento esponenziale della propaganda (“abbiamo abolito la povertà” in stile involontariamente comico). Cosa che se ne poteva tranquillamente fare a meno.
Bisogna essere coscienti del fatto che dal Colpo di Stato eurocratico di Mario Monti nel 2011 la politica italiana è profondamente cambiata. Lo snaturamento dei principi fondamentali della Costituzione avvenuto con il Fiscal Compact nel 2012 rende la nostra Costituzione compatibile con i principi neoliberisti, punto sul quale i liberisti faranno leva per imporre austerità. Mentre i punti d’appiglio per una sincera resistenza democratica al neoliberismo vengono tragicamente meno anche nella Costituzione, le Istituzioni fondamentali di questo Paese tengono comportamenti quantomeno anomali.
La polemica nata intorno all’indebita influenza di Mattarella nella formazione di questo Governo, prontamente virata dalle indagini verso supposte influenze filorusse, non è che un’avvisaglia. In questo Def ci si è spinti a sforare i parametri deficit definiti eteronomamente da parte di enti senza alcuna competenza formale a stabilire vincoli. Infatti, l’unico vincolo è quello del 3% dei Trattati ed è pienamente rispettato dal Def. Insomma se ci si limita a dare valutazioni per quanto riguarda il rispetto della legalità comunitaria l’italia resta pienamente (con tutto che ciò concerne in merito alle inevitabili difficoltà di sviluppo economico). Purtroppo il capitale ha valutato questo Def negativamente, come non sufficientemente austeritario. Resta da capire da che parte sceglie di stare la Sinistra, se da quella del capitale oppure dei suoi oppositori, fosse anche si trattasse di ribelli un po’ maldestri.
Il Def varato dal dimissionario Gentiloni a fine aprile, pur essendo meramente tecnico, proseguiva lungo la linea tracciata dal ministro Padoan nei suoi quattro anni di ministero. Prefigurava un deficit allo 0,8% nel 2019, il pareggio di bilancio nel 2020 e un surplus dello 0,2% nel 2021. Il documento approvato dal governo Conte, invece, espande il disavanzo al 2,4% per tutti i tre anni: confrontando i punti percentuale sul triennio, si parla di un’abnorme dilatazione del 110%.
Le criticità non riguardano l’espansione del deficit come politica economica in sé: questa infatti è più che utile, se serve a riavviare il ciclo. Il punto è che la spesa liberata da questo deficit è del tutto improduttiva, anzi a tratti pericolosa. La spesa assistenziale del “reddito di cittadinanza” non fornirà alcun aiuto al lavoro. Anzitutto non stiamo parlando di un reddito di cittadinanza, perché i destinatari secondo Di Maio saranno 6,5 milioni (e non tutti i 60 milioni di cittadini). Per essi vengono stanziati 10 miliardi, il che secondo la matematica significa 128 euro al mese. Ci sono a questo punto tre possibilità: 1) 128 euro mensili per 6,5 milioni di persone; 2) 780 euro mensili per 1 milione di persone; 3) 780 euro mensili per 6,5 milioni al costo, però, di 61 miliardi e non 10. Ma non è tutto: questi 128 euro sono subordinati all’accettazione di almeno una su tre offerte di lavoro fornite dai Centri per l’impiego. Anche qui, delle tre l’una: 1) il governo creerà 19,5 milioni di posti di lavoro (!); 2) ai beneficiari del reddito non saranno offerte tre proposte lavorative; 3) le proposte offerte riguarderanno sempre i soliti posti di lavoro a termine che, semplicemente, verranno occupati a rotazione da una platea che resterà in maggioranza disoccupata.
L’abbassamento dell’età pensionabile in un contesto di aumento della speranza di vita dilata la spesa pensionistica senza un meccanismo in grado di fornire le coperture (neppure gli immigrati bastano più, e del resto il governo non li vuole). Da tenere d’occhio, sul versante assistenziale, anche il no alle vaccinazioni: esso potrebbe causare epidemie devastanti, ma queste per giunta colpirebbero non gli anziani pensionati, che sono già vaccinati, bensì i bambini, ovvero chi dovrebbe pagare le pensioni in futuro. Non solo: alcuni bambini morirebbero, altri invece resterebbero invalidi e questo significherebbe ulteriore spesa da parte dell’Inps.
È bastato il mero annunzio del Def per portare lo spread a 280 e la Borsa di Milano al -3,7%, bruciando, nel solo 28 settembre, 25 miliardi (ovvero il 250% della spesa prevista per il falso “reddito di cittadinanza”). L’aumento dello spread porta con sé la svalutazione del debito, ossia l’impoverimento dei depositi bancari e quindi l’aumento dei tassi su prestiti e mutui o comunque una restrizione del credito.
È facile capire a quale povertà diffusa possa condurre una spirale in cui lo Stato aumenta il deficit e la spesa corrente, le banche aumentano i tassi e la produzione ristagna o decresce.
Poi ce la si può sempre cavare come il ministro Savona, che dice che per assicurare le prospettive economiche si può crescere del 3% nel 2019. Evidentemente sta passando la linea dettata da Salvini – “i numerini io me li gioco al lotto o a tombola” (27 settembre). Aspettiamo di vedere se gli investitori saranno ansiosi di prestare denaro a un Paese che tratta il proprio debito come il gioco del lotto.
Per ora ciò che si conferma è l’impressione di una lucida strategia di distruzione dell’economia italiana (si veda anche il decreto Di Maio che ha falcidiato i precari), prospettiva che fa molta gola ai grandi fondi speculativi e alle grandi concentrazioni capitalistiche.
Il teatrino a cui si è assistito negli ultimi giorni è uno dei capolavori della commedia farsesca all’italiana. Non a caso, un maestro della pantomima politica come Berlusconi è rimasto completamente in disparte rispetto alle sceneggiate surreali che hanno ruotato attorno alla manovra di bilancio. Da un lato l’esultanza sfrenata, l’estetica trionfalista del balcone, la retorica del “nuntio vobis gaudium magnum” per il giubilio della folla: la proclamazione dell’Impero da parte di Mussolini? No, una manovra che invece di prevedere un rapporto-deficit PIl al 1,9 arriva addirittura a sforare la soglia del 2%: un misero 2,4 (l’austerità in Italia è stata introdotta con il Fiscal Compact che prevede di rimanere sotto il 3%) salutato come “la manovra del popolo” in grado di cancellare la povertà in Italia (Di Maio) e “il più grande piano di investimenti pubblici mai realizzato in Italia” (Conte). Dall’altra parte le reazioni non sono meno esagerate. Di fronte a un def più austero persino di Monti, il Pd grida alla distruzione del Paese e Renzi evoca addirittura l’effetto Venezuela, mostrando peraltro una volta di più tutta la sua avversione nei confronti del socialismo.
Tanto rumore per nulla verrebbe da dire, perché in realtà si tratta di un def per nulla rivoluzionario, in linea coi governi precedenti e con il programma di austerità da Monti in poi. Una sinistra che sta dalla parte dei mercati è già di per sé sospetta, ma quando finisce per criticare una manovra perché non abbastanza austera significa che ha completamente abdicato alla sua missione storica di farsi portavoce dei più deboli. Il PD, in nome di un europeismo sempre più rigorista e pavidamente servile nei confronti dei mercati finanziari, prosegue così nel suo harakiri politico mentre M5S e Lega illudono l’opinione pubblica di essere in grado di fronteggiare Bruxelles e di ridare vigore all’economia italiana.
In realtà questo compito sarà molto difficile, non solo perché con un rapporto deficit/pil al 2,4% si può fare poco, ma soprattutto perché il governo non ha realmente in testa un piano di investimenti pubblici per rilanciare l’economia ma solo una serie di misure di sostegno al reddito e di abbassamento delle tasse utile per vincere le prossime elezioni europee ma poco utile al sistema-paese nel medio termine. Senza considerare la flat tax, il cui carattere iniquo è sotto gli occhi di tutti, l’unica misura teoricamente “di sinistra”, cioè di concreto aiuto alle classi meno abbienti, il reddito di cittadinanza, risulta del tutto depotenziata e non troppo diversa da un banale assegno di disoccupazione che non fa nulla per creare nuovo lavoro e per migliorarne la qualità in termini di continuità lavorativa e di salari. Davvero troppo poco per immaginare un cambio di rotta e un reale miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.flickr.com
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