La comunicazione politica ha da sempre utilizzato slogan ed immagini per rendere più efficace il messaggio. Mai come negli ultimi anni, grazie anche a maggiori mezzi di comunicazione e diffusione, quella particolare comunicazione a cavallo tra marketing ed attivismo risulta fondamentale per il consenso.
Ad ampliare il panorama della comunicazione in anni recenti si sono aggiunti anche meme “politici”, il cui ultimo esempio, l’immagine iconica di Bernie Sanders durante la cerimonia di insediamento di Biden alla Casa Bianca, ci ha sommerso nelle diverse piattaforme social. Sulla comunicazione politica, i suoi limiti e le sue potenzialità virali la nostra rubrica a più mani di questa settimana.
Leonardo Croatto
Il meccanismo di condensare una singola idea, una “unità di pensiero” in un messaggio il più possibile breve ed efficace non è nuova nel mondo della comunicazione: tutti i messaggi pubblicitari – per immagini o per sole parole – si reggono sul principio della massima essenzialità per la massima efficacia.
Quello che è cambiato nell’età dell’informazione digitale è la facilità di replicazione e modificazione dei contenitori di informazione: immagini, testi, registrazioni audio.
Per questo motivo la capacità di costruire un messaggio immediato, efficace, replicabile all’infinito e a costo praticamente nullo ha reso immediatamente disponibile a chiunque un potentissimo strumento di comunicazione. La tecnologia ha reso facilmente producibili e distribuibili, senza alcun costo, questi “atomi di informazione” che possono essere facilmente compresi e memorizzati. La semplicità di costruzione e di distribuzione dei meme ha, nel bene e nel male, democratizzato la comunicazione politica, mettendola di fatto nelle mani di chiunque abbia qualche minuto di tempo per giocare con un software elementare.
L’estrema semplificazione del messaggio schiaccia però ogni prospettiva: lo strumento si presta ad offrire solo letture estreme ed elimina ogni problematizzazione. Andrew Boyd usò l’espressione “meme warfare” per definire lo scontro di posizioni opposte generato dalla comunicazione per meme: “A vital movement requires a hot and happening meme. Truth is a virus whose aim is to subvert the corporate mememachine with a sly guerrilla war of signs”. Ovviamente questa affermazione è molto più valida per i movimenti di destra, che trovano nella semplificazione, nella banalizzazione e nell’estremizzazione dei concetti maggior facilità d’uso. Gli “atomi di informazione” sono quelli che hanno consentito al movimento Qanon di prosperare e diventare la teoria del complotto di tutte le teorie del complotto; in un momento in cui la sfiducia nell’informazione mainstream si rafforza, la capacità di convincimento dei meme viene intensificata.
Nel 1946 George Orwell scrisse: “Political language – and with variations this is true of all political parties, from Conservatives to Anarchists – is designed to make lies sound truthful and murder respectable, and to give an appearance of solidity to pure wind”. La democratizzazione dei mezzi di comunicazione ha dato a chiunque questo potere, alleggerendo al contempo la responsabilità per i danni prodotti dal suo uso improprio.
Francesca Giambi
Lo slogan, anche per effetto del nuovo modo di comunicare iniziato con la pubblicità e con l’epoca industriale, è sempre stato il cuore sia della comunicazione politica che della propaganda.
Pensiamo ad esempio a campagne di grosso impatto comunicativo che ancora oggi risultano riconoscibili, quali per esempio “I Want You” del 1917 con uno zio Sam ormai simbolo indiscusso degli USA, o “Make Love not War” degli anni ‘60 contro la guerra del Vietnam il cui simbolo, ripreso da quello del Disarmo Nucleare, diviene da quel momento il simbolo dell’antimilitarismo e della Pace.
Non c’è bisogno di soffermarsi troppo su quanto abbia inciso l’uso di slogan ed immagini ad effetto per la propaganda dei diversi regimi del novecento, attraverso anche i nuovi mezzi di radio e cinema; e non parliamo nemmeno della prima campagna elettorale italiana del 1948, la cui comunicazione è entrata nell’immaginario collettivo (“salvare l’Italia dal bolscevismo”)…
Ma in questo connubio tra comunicazione e politica un enorme passo oltre si è avuto dagli inizi degli anni ’90, in cui, complice anche la riforma maggioritaria, è iniziata una sorta di “brandizzazione” della politica, che ha esasperato una visione “marketing” dei messaggi tale da portare ad una forte polarizzazione delle idee, che quasi diventano “fede calcistica”.
Con l’avvento poi delle diverse piattaforme di blogging e social (dal quasi dimenticato MySpace in poi) la comunicazione politica ha cominciato a modificarsi diventando sempre più propaganda: i messaggi devono essere brevi, corredati da immagini mirate e suscitare reazioni immediate anche senza approfondimenti reali, cosa che produce anche i vari fenomeni di fake news dilaganti. A conferma di questa “mercificazione” il fatto che i contenuti ed i messaggi vengano resi “virali”, anche se mirati, dalle sponsorizzazioni, per cui il “quanto” ed il “come” si investe economicamente influisce sulla riuscita ad esempio di campagne elettorali.Dall’altra parte c’è un fenomeno virale “spontaneo”, che parte dal basso e deve la sua propagazione anche al fatto dell’essere “dissacrante” rispetto ai messaggi ufficiali, quello dei meme. Uno dei primi esempi, riportato anche da Dino Amenduni in un articolo di qualche anno fa, è stata la campagna #morattiquotes partita da un utente twitter non legato a nessun comitato elettorale.
La potenza del fenomeno dei meme sta proprio nell’empatia che suscitano, nel fatto di avere in sé una forte (auto)ironia. L’immagine di Sanders con le muffole che “ruba” la scena alla patinata cerimonia di insediamento, come riporta anche Annamaria Testa su Internazionale, diventa virale soprattutto per la sua “normalità”, che tranquillizza e trasmette un senso di quotidianità, proprio quell’empatia che riesce a coinvolgere anche in occasioni che in realtà sono fredde e quasi distanti.
Jacopo Vannucchi
I memi di per sé sono sempre esistiti: il nome, che oggi indica semplicemente immagini standardizzate che diventano virali sul web, fa riferimento in senso proprio a un concetto facilmente memorizzabile e migrabile, l’unità minima della memoria. In questo senso il meme come elemento identitario precede di gran lunga i social network e di certo lo stesso web.
Tuttavia non è peregrino osservare che in contemporanea all’aumento della velocità di diffusione sembra anche diminuire la durata in cui il meme resta impresso nella memoria. Per restare agli slogan politici, tutti ricordano il «Dio ti vede e Stalin no» del 1948 (anche chi non era nato, il che ne fa un meme di amplissimo successo), così come il «Meno tasse per tutti» del 2001, ma in quanti ricordano «L’Italia cambia verso» di Renzi 2013 – che pure all’epoca produsse anche un sito web per creare manifesti personalizzati?Credo che questa caratteristica sia da mettere in relazione non soltanto con le trasformazioni dei partiti politici, ma anche con il crescente accesso della popolazione all’informazione. Una persona meno scolarizzata viene bombardata da fake news, bot online, nonché dal tritacarne televisivo; una persona di alta scolarizzazione invece può setacciare siti appositi alla ricerca di un ossessivo fact-checking; il risultato però non cambia: il meme non svolge più le veci enciclopediche di condensare una visione del mondo e si limita semmai a esprimerne un’applicazione particolare.
Questo di per sé non sarebbe un male; anzi, potrebbe pure stimolare le capacità critiche delle persone, se però vi fosse effettivamente un ente che quelle funzioni enciclopediche svolgesse. Tali non sono oggi i partiti politici, perché purtroppo anche i più benintenzionati devono fare i conti con la strutturale scarsità di fondi e con il ritmo forsennato del ciclo delle notizie.Si tratta certamente di un “vasto programma”, ma le questioni aperte per la ricostruzione di un tale ente sono: un adeguato finanziamento ai partiti; un investimento strutturato e coerente sul percorso scolastico (a partire naturalmente dalla scuola elementare); la gestione pubblica dei social network; l’introduzione di “livelli essenziali di servizio” per le emittenti televisive, ivi comprese quelle commerciali. Qualcosa sembra timidamente muoversi solo sul terzo punto, ma bisognerà aspettare le nomine alla Divisione Antitrust del Dipartimento di Giustizia USA per valutare le speranze concrete.
Alessandro Zabban
La rivoluzione di internet ha prodotto trasformazioni sociali e persino antropologiche di vasta portata, ma non ha mai realizzato gli intenti degli utopisti del web. Non ha prodotto individui più informati, non ha “risvegliato le coscienze”, non ha creato le precondizioni per una democrazia del basso. La morte della controcultura e l’incapacità di fare egemonia culturale a sinistra non sono da imputare a questi cambiamenti tecnologici, ma a trasformazioni politiche e sociali più ampie. Tuttavia, persiste ancora una malriposta speranza nei poteri salvifici del digitale che non rispecchia una realtà dove formalmente chiunque può dire la sua ma dove dominano le logiche dell’industria culturale capitalista di cui parlavano Adorno e Walter Benjamin. Nella galassia del digitale emergono di frequente fenomeni dal basso, ma quelli più seguiti sono prodotti usa e getta la cui qualità può essere riassunta andando a andare un’occhiata ai video dei principali influencer in voga in questo momento.La comunicazione politica contemporanea rispecchia questa situazione in cui l’infrastruttura tecnologica da una parte riproduce le vecchie logiche degli slogan elettorali che sono “semplicemente” più pervasivi e onnipresenti di prima, dall’altra si adatta e asseconda le nuove tendenze politiche: la comunicazione diretta fra i leader carismatico e il popolo, l’utilizzo di piattaforme private per la diffusione dei messaggi politici.
Proprio quest’ultimo punto sembra il più inquietante perché rappresenta concretamente la subordinazione del pubblico rispetto all’economico, della politica rispetto alle multinazionali del digitale. L’agorà del dibattito pubblico, appaltata a Twitter e Facebook, sottoposta ai loro termini e alle loro condizioni, non appare come luogo di dibattito e riflessione politica ma solo un palcoscenico dove conta la frase a effetto o l’immagine più efficace. Ed è all’interno di questo angusto spazio privato che si proclamano i valori universali della libertà e della democrazia, in una situazione cha avrebbe fornito a Baudrillard molti stimoli per la sua teoria delle simulazioni e dei simulacri.
Certamente il mondo della comunicazione politica digitale, dominato da chi ha il potere economico per essere largamente visibile, è anche pieno di piccoli gruppi, pagine politiche, singoli meme, spesso interessanti, dissacranti o divertenti. Ma se l’immagine di Sanders con le muffole è diventata virale, è per il ruolo e la fama che il leader della sinistra americana si è costruito nella politica. Sui social si possono amplificare certi fenomeni, non crearli dal niente. Nessun genio del marketing e della comunicazione politica riuscirebbe mai a far diventare virale un leader della sinistra italiana.
Immagine da www.pixabay.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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