Conversazione con Elena Pulcini, professoressa ordinaria di Filosofia sociale presso l’Università di Firenze, pubblicata per la prima volta a partire dal 18 dicembre 2012
1. Partendo dal concetto di cura, di cui Lei si è particolarmente occupata, pensa che ci dovrebbe essere una “domanda di cura ambientale”?
Sì, penso che ci
sia una domanda di cura e a mio avviso sta crescendo, sebbene ancora
sia lontana dall’aumentare quanto dovrebbe. Noi ci troviamo davanti
a quelli che molti sociologi, in particolare il noto sociologo
tedesco Urlich Beck, hanno chiamato rischi globali, ovvero quei
fenomeni che vanno dal riscaldamento del pianeta alla minaccia
nucleare, ma a cui a mio parere andrebbero aggiunti anche aspetti
meno clamorosi che però sono ciclici e ricorrenti: per esempio le
catastrofi ecologiche – non solo legate al global warming –
come nel caso delle perdite di petrolio in mare; oppure tutti quei
virus che si sono succeduti negli ultimi anni (SARS, aviaria, ecc..),
e infine anche il terrorismo internazionale. Insomma, siamo davanti
ad una serie di sfide che siamo del tutto impreparati ad
affrontare.
Il problema è che la nostra psiche sembra sia
refrattaria a provare reale paura di fronte a fenomeni così
sfuggenti e che non sappiamo gestire né controllare. A tal proposito
potrei citare il disastro di Chernobyl: ero in Francia in quel
periodo e ricordo che mentre i miei amici italiani stavano attenti a
non mangiare verdure o altri prodotti, i francesi, che sono pieni di
centrali nucleari tendevano a denegare, convinti che la nube non
arrivasse fino a loro. Ma chi ce lo dice? Chi ci dà questa certezza?
Non è possibile misurare questi eventi irreversibili. Questo vale
anche per il caso più recente di Fukushima. il devastante maremoto
che poi si è trascinato dietro il disastro nucleare: inizialmente
c’è stato un bombardamento mediatico e poi tutto finisce nel
silenzio più totale. Non se ne è più parlato. Noi non ce ne
occupiamo più, perché pensiamo che non ce ne sentiamo veramente
toccati.
2. Quali potrebbero essere i soggetti chiamati a rispondere a questa domanda di cura?
Questo è l’altro grande problema oggi. L’attribuzione di responsabilità. Il blaming. A chi dare la colpa, come siamo arrivati a questo punto? La politica, lo Stato, le istituzioni, non hanno interesse a fare i conti con questi problemi, nel senso che poi di fronte alla loro impotenza diventa assolutamente difficile prendere provvedimenti. Sono rischi talmente pervasivi, talmente indefiniti, talmente poco conosciuti… che la politica non ha gli strumenti necessari per far fronte a questi fenomeni e allora tende a rimuovere, fa finta di nulla, rimane in silenzio, non dà informazioni adeguate. Si tratta di una situazione che un sociologo contemporaneo molto noto, Zygmunt Bauman ha definito come “perdita del controllo”. Ci sentiamo tutti privi della possibilità di controllo, impotenti, non solo noi cittadini. Sono dinamiche liquide (per usare un termine preso di nuovo in prestito da Bauman), sfuggenti che non riusciamo ad afferrare, sia rispetto alla diagnosi, sia rispetto alla prognosi.
3. L’altra
domanda concernente il tema della cura è questa: se la si intende
come il termine tedesco Sorge suggerisce, ovvero come
preoccupazione, e anche seguendo la linea di Hans Jonas (soprattutto
in Il principio di responsabilità), come ciò che inerisce
alla nozione di responsabilità – cosa che implica l’occuparsi di
qualcosa – da dove pensa che possa derivare questa mancanza di
preoccupazione di fronte ad una natura violentata e che si sta
ribellando con tutto il suo potenziale di distruzione?
Deriva
da un’insufficiente informazione, una sottovalutazione del
problema, o da mera indifferenza? E anche ammettendo una certa
preoccupazione, come si spiega che da questa non scaturisca una
sollecitudine veramente attiva da parte di stato e, singoli
individui?
Certamente c’è una cattiva informazione. Sicuramente anche sul piano massmediale, tolti i momenti in cui un evento, una catastrofe, una calamità vengono divulgati a livello quasi ossessivo, fondamentalmente la tendenza generale è quella di dire che la cosa poi si risolverà. Quindi noi siamo informati molto relativamente rispetto a quanto dovremmo esserlo. Ancor più preoccupante, è, richiamandomi a Freud, il concetto di diniego, come ho accennato prima: noi siamo portati a qualcosa di ancor più grave rispetto alla semplice sottovalutazione del problema, che è proprio questo denegare. Il diniego è un meccanismo di difesa, diverso dalla rimozione, più sofisticato, perché noi sappiamo (quindi non si parla di un inconscio in cui confinare ciò che non siamo pronti ad accettare) che ci sono dei pericoli: assistiamo a Chernobyl, a Fukushima, ai disastri ecologici, ai virus planetari… addirittura in alcuni momenti ne siamo bombardati dai mass media, ma, come ci fa capire Freud, è come se tutto questo non arrivasse alla nostra emotività; sappiamo ma non sentiamo, non siamo veramente coinvolti, veramente partecipi e soprattutto non proviamo paura, una sana paura. Questo è un concetto fondamentale, perché noi viviamo in una società piena di paura vaga e generica, siamo impauritissimi, anche solo a uscire di casa, ma allo stesso tempo tendiamo a denegare perché non sappiamo come reagire, non sappiamo quali misure prendere, come affrontare certi fenomeni. Siamo terribilmente angosciati, ma l’angoscia, come dice Freud, scatta di fronte a un pericolo indeterminato, mentre la paura di fronte a un pericolo reale e solo provando quest’ultima si creerebbe una concreta mobilitazione.
4. Secondo lei, quali azioni etiche e sociali dovrebbero esser promosse e di conseguenza diffondersi in vista di una maggiore cura ambientale?
Ovviamente ci sono
due livelli. Uno è il livello politico, che è ineliminabile, e
l’altro è quello soggettivo – individuale. Partendo da
quest’ultimo la prima risposta da dare è proprio rompere il
diniego: esser capaci di riconoscere, anche confusamente, che siamo
di fronte a delle sfide globali inaudite, di cui dobbiamo prendere
seria consapevolezza, perché probabilmente questo ci permetterebbe
di attrezzarci. Dopodiché, sempre rimanendo sul piano del
soggettivo, dobbiamo individuare due dimensioni: una è quella
capillare quotidiana (fare la raccolta differenziata, diminuire l’uso
della macchina, una maggior parsimonia energetica…), insomma una
serie di piccole misure quotidiane che andrebbero perseguite da tutti
sistematicamente.
L’altra dimensione è quella più
collettiva e sociale: social forum, riunioni planetarie tenute per
denunciare la situazione ambientale, azioni di ribellione… tutte
cose che per avere influente efficacia, dovrebbero essere più
frequenti, più partecipate, più sponsorizzate e di conseguenza rese
più note anche ai singoli cittadini.
Sul versante politico,
siamo ai livelli degli assiro babilonesi: la politica, gli Stati,
sono impotenti. L’unica possibilità, sono gi organismi
internazionali, ma questi sono scarsi o hanno perso influenza, si
sono indeboliti. Basti pensare al ruolo dell’ONU durante l’epoca
Bush, esautorato quasi del tutto dei suoi poteri.
5. Il clima impazzito mette a nudo le miserie del genere umano. Ad esempio, mette in evidenza il potenziale devastante della cementificazione selvaggia (basti pensare al fatto che negli ultimi 30 anni abbiamo cementificato 6 milioni di ettari circa di terreno – un quarto del territorio italiano – pur contando 10 milioni ca. di case vuote), eppure si continua a costruire. Sembra ormai radicata l’idea che senza edilizia, senza quest’ottica di endemico liberismo economico in cui versiamo non ci sia possibilità di occupazione né crescita né sviluppo. Può darci una sua considerazione a riguardo?
Uno dei problemi che più influiscono sulla devastazione del territorio è proprio questo: un atteggiamento di totale disinteresse nei confronti dell’ambiente, fagocitato dai fattori della modernità e da una sempre più cieca economia di mercato. L’Italia è appunto uno degli esempi più lampanti di violazione estrema del territorio. Come lo è il problema della rapacità economica: questa porta ad assumere un atteggiamento sempre più “selvaggio” da parte dei paesi emergenti, quali ad esempio la Cina, la quale, pilotata com’è verso la crescita non ha alcun interesse ad affrontare certe problematiche. Mentre per alcuni paesi non si tratta neanche solo di questa visione sfrenata di crescita produttivistica, in nome della quale viene sacrificato tutto il resto, ma purtroppo, anche di senso di impotenza: si pensi ad un paese come il Brasile, dove c’è una coscienza ecologica molto più diffusa rispetto a quella italiana, eppure, anche qui, persino un grande presidente come è stato Lula, che sarebbe stato anche disposto a prender provvedimenti su questo versante, si è trovato costretto a trascurare enormemente il problema ambientale, in quanto cozzava con il problema del lavoro, dell’occupazione e della crescita economica.
6. Pensa che potrebbe esserci un’alternativa di progresso, per così dire, sostenibile?
Dobbiamo rivedere i nostri concetti di fondo, in particolare quello della crescita appunto. Cosa vuol dire crescita? Vuol dire crescita illimitata? Dove ci sta portando questa logica? A queste domande si collega il problema fondamentale dell’erosione delle risorse, cui si preoccupa appunto, lo sviluppo sostenibile: noi abbiamo sfruttato e stiamo continuando a sfruttare il nostro pianeta in tutti i modi violenti possibili e immaginabili e le risorse naturali ed energetiche si stanno esaurendo. Ian McEwan in un suo romanzo, Solar, presenta un quadro terrificante di questa situazione. Urge assolutamente trovare fonti cosiddette di energia alternativa, come il fotovoltaico, tanto per dirne una. Fino a che, però, i poteri forti, industriali, economici… non si rendono conto di questo, non si fa nulla. Dirigersi sulle fonti alternative significa riconversione, significa spesa, significa investimento, rischio… e quindi è probabile che il grande potere economico mondiale potrebbe cambiare rotta solo secondo la logica del profitto, ovvero, solo se si rendesse conto che farebbe maggiormente il proprio interesse riconvertendo in maniera sostenibile le proprie strutture.
7. Il filosofo economista Serge Latouche è conosciuto soprattutto per la sua critica al concetto di sviluppo e di razionalità ed efficacia economica e in questa critica all’immaginario occidentale, profondamente attraversato dall’economicismo sviluppista, egli evidenzia come i maggiori problemi ambientali e sociali dei nostri giorni siano dovuti proprio alla crescita e ai suoi effetti collaterali, contro i quali l’unica risposta potrebbe essere una strategia di “decrescita felice” improntata sulla sobrietà e su fattori come il riciclo, il riutilizzo ecc… È d’accordo con questa visione?
Conosco personalmente Latouche e so che è animato dalle migliori intenzioni ma credo che il tema della decrescita sia da prendersi in modo provocatorio. Ci sono nuclei di economisti che si ribellano fortemente alla logica della crescita illimitata, c’è anche tutta un’economia “della felicità”, che ritiene che il PIL sia un coefficiente troppo limitato e poco esaustivo per un vero “calcolo” del benessere e della felicità dei singoli. E sono convinta che effettivamente il reddito non sia un fattore esaustivo per misurare il benessere dei cittadini. Ritengo però che la decrescita sia più uno slogan, per quanto sia una parola d’ordine molto importante e utile, in quanto mette di fronte al mito della crescita; ma una sua applicazione comporterebbe una trasformazione radicale dell’antropologia umana, della nostra cultura. Leggevo l’altro giorno in una sua intervista a lui in cui dice di smettere di consumare, ma è un discorso estremamente rischioso, perché se si smette di consumare il ciclo economico si blocca. Anche questa comunque è una provocazione importante per demonizzare tutto quello spreco, quel consumismo sfrenato, quell’eccesso, quell’illimitatezza, quel superfluo… in cui siamo immersi fino al collo. Più che non consumo direi che una possibilità interessante sarebbe il consumo critico: consumare prodotti che vengono da sistemi alternativi, imprese verdi, prodotti equosolidali ecc… E sono proprio le nuove generazioni, i giovani che forse possono cambiar qualcosa. Insomma, se i miti del successo, del denaro,dell’arricchimento, del potere, vengono ridimensionati, allora può esserci speranza.
8. Il contatto con la natura, con la campagna, i prodotti della terra, l’aria fresca e aperta sono qualcosa che la nostra generazione ha perso o sta perdendo e temibilmente quelle successive si ritroveranno in mano un mondo tecnologizzato che è un enorme blocco di cemento, senza spazi verdi, con un cielo tossico e un’aria sempre più malsana a causa dell’inquinamento. Che impatto può avere tutto questo, oltre che sulla salute fisica delle persone, su quella psicologica, emotiva e mentale?
Sicuramente vi è un impatto su di essa. Io sono olistica da questo punto di vista: l’aspetto fisico e l’aspetto psico-antropologico sono strettamente connessi. Tant’è che infatti questo distacco dalla natura non è che ci abbia portato ad essere più felici. Tutto questo genera malessere profondo che abbiamo difficoltà a ricondurre a questo tipo di cause, ma a cui invece è profondamente legato. È veramente inquietante ed allarmante pensare a come si sia perso completamente il contatto con il ciclo naturale della terra, dei prodotti, delle stagioni, e quando varchiamo certi limiti in questa esasperata manipolazione della natura e dei processi naturali (per quanto io ritenga che la natura in qualche modo sia sempre e comunque artificiale, non esiste una natura pura e incontaminata, se non, forse, alle origini del mondo), ci condanniamo non soltanto a un’erosione delle risorse e quindi a un problema di sopravvivenza, ma anche ad un malessere sempre più ingestibile ed abissale.
9. Da dove si potrebbe partire per recuperare questo contatto, anche familiare, con la natura, prima che venga del tutto deturpata?
Molto si può fare sul piano dell’educazione, della scuola. Capita di vedere cose allucinanti, come casi di bambini convinti che i polli nascano nei supermercati inscatolati nel cellophane. Quindi ritengo che la funzione della scuola sia fondamentale da questo punto di vista, in modo da abituare fin da piccoli i bambini a capire che il pollo prima di arrivare al supermercato è un pulcino che nasce, cresce, viene nutrito ecc… o che il prosciutto non nasce nelle vaschette ma è la parte di un animale chiamato maiale, e così via. Insomma molto si può fare sul piano dell’educazione e ancora una volta, sul piano dell’amministrazione: c’è proprio una politica, non solo nazionale, ma anche amministrativa in cui non vi è traccia di una minima sensibilità nei confronti di questo tema. Poi sì, vi sono pure casi positivi di piccoli comuni virtuosi, piccoli paesi, in cui c’è un’attenzione a quest’aspetto e infatti le cose sono molto più vivibili. La città diventa molto più vivibile, perché anch’essa può mantenere un suo contatto con la natura, attraverso parchi, giardini, spazi verdi… attraverso la consapevolezza che non siamo immersi solo tra tante mura, che c’è dell’altro.
10. Ritiene che la cosiddetta green economy o l’edilizia sostenibile possano servire a sovrastare il problema della cementificazione cieca e selvaggia, o che alla fine, per usare una metafora, esse possano soltanto alleviare i dolori del paziente terminale ma non gli salvano affatto la vita?
Le due prospettive
coesistono in modo quasi schizofrenico. Da una parte appunto ci sono
questi tentativi di green economy, ma essi rimangono molto di
nicchia, e quindi vengono schiacciate dall’altra prospettiva,
ovvero quell’andamento secolare di costruzione, cementificazione
che continua a muoversi esattamente con gli stessi parametri.
Addirittura andando sempre in una direzione più preoccupante e
drammatica, perché la cementificazione oggi si porta dietro tutte
quelle dinamiche di speculazione, corruzione, affarismi,
infiltrazioni mafiose ecc.. e quindi diventa sempre più difficile,
se non impossibile, contrastarla.
11. La vicenda dell’Ilva
ha aperto un profondo dibattito tra il diritto al lavoro e quello
della vita, che può essere garantita solo se certe condizioni di
minor impatto ambientale vengono rispettate. Riuscirebbe a vedere una
possibile soluzione di “compromesso” tra questi due diritti
imprescindibili? Nel concreto, cosa si potrebbe fare? E chi per primo
dovrebbe impegnarsi a farlo?
Io non so in questo
caso cosa succederà, ormai siamo anche a un livello di confusione
tremendo. Ma una cosa è certa e proprio su questo bisogna esser
radicali: guai a contrapporre questi due diritti. Devono sempre,
assolutamente, andare insieme. Non possiamo preoccuparsi
dell’ambiente disinteressandosi al problema di famiglie che vanno
in povertà e in disperazione e allo stesso tempo però non si può
trascurare l’impatto ambientale, che oltretutto si ritorce
immediatamente contro quelle famiglie stesse. Ecco, questo dell’Ilva
è un altro caso assolutamente esemplare che ci mette di fronte a
questa falsa alternativa: siamo andati avanti finora attraverso la
legittimazione di questa falsa dicotomia e dobbiamo fare di tutto per
romperla. Lo devono fare soprattutto i governanti ma prima di tutto
dobbiamo creare una cultura, è questo il nodo principale; perché
gli stessi operai dell’Ilva, se fossero stati più sensibilizzati
al problema ambiente, al problema salute, si sarebbero resi conto
loro stessi che rischiavano in prima persona e quindi probabilmente
avrebbero loro stessi posto il problema prima di scoprirsi in questa
situazione drammatica.
Il problema è proprio questo: riuscire
ad avere quella che noi chiamiamo un po’ genericamente coscienza
ecologica, che spesso si usa in termini un po’ banalizzati. Non c’è
niente di banale nella coscienza ecologica, è necessario e urgente
riuscire a comprendere che la devastazione dell’ambiente diventa un
disastro anche per la sopravvivenza materiale, economica, lavorativa,
psicologica degli individui. Se parliamo di erosione delle risorse,
questo significherà perdita di lavoro per centinaia, migliaia e
milioni di persone; se noi parliamo di global warming e di
desertificazione di certe aree, vuol dire che in quelle aree lì non
ci sarà più possibilità di lavoro, di crescita, di “progresso”
economico e materiale, e quindi non ci sarà più possibilità di
sopravvivenza. È tutto collegato. Dobbiamo veramente riuscire ad
assumere una coscienza olistica ancor prima che ecologica in cui
tutto si implica a vicenda. Invece l’atteggiamento comune è questa
tendenza, pericolosissima, ad affrontare ogni cosa in maniera
schizofrenica, settorialmente, come appunto il caso dell’Ilva ci ha
mostrato. Se c’è una caratteristica dell’età globale è
esattamente questa interdipendenza, delle vite, degli eventi, delle
nazioni..non possiamo più risolvere le cose settorialmente, dobbiamo
urgentemente assumere una coscienza globale.
12. Un’ultima battuta per concludere?
Ecco, ricollegandomi al discorso di prima direi che, se c’è una caratteristica dell’età globale è esattamente questa interdipendenza, interdipendenza delle vite, degli eventi, delle nazioni… non possiamo più risolvere le cose settorialmente, dobbiamo urgentemente assumere una coscienza globale. Certo, riuscire ad avere una coscienza di questo tipo è difficile, sia da parte degli individui che da parte delle istituzione, e tuttavia è l’unica strada percorribile. E bisogna fare in fretta, perché continuando con questo modello di sviluppo tra venti-trent’anni finiremo male. Allora, per concludere sulla parola cura, essa contiene in sé tutte queste misure, che vanno dal piccolo livello capillare che può sostenere il singolo individuo, alla consapevolezza collettiva e i movimenti sociali, alla responsabilità politica che deve prender misure sia sul piano locale, che su quello internazionale. Per me cura sul piano ambientale per me vuol dire questo: vuol dire prendere in carico il mondo, farsi carico del mondo.
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.