Ma tornando alle zone di eccezione, di sospensione del diritto, sebbene i campi di sterminio rappresentino l’esempio più drammatico, più orrendo della storia, esistono, e Mbembe li prende in considerazione, altri casi in cui il diritto si auto-sospende, in cui disapplica se stesso, in cui la sovranità si esercita come mero diritto di uccidere.
Si pensi alla schiavitù, che Mbembe considera come la prima forma di sperimentazione biopolitica, in quanto la struttura stessa della piantagione – e poi delle sue successive manifestazioni – può essere vista come una figura dello stato di eccezione. Lo schiavo subisce una triplice espropriazione: della propria casa, del proprio corpo, del proprio status politico. Questa triplice perdita corrisponde all’alienazione totale dalla nascita fino alla propria morte, all’espulsione dallo stato di diritto ma anche dall’umanità stessa (lo schiavo perde la propria soggettività, il proprio statuto ontologico ancor prima che politico), alla dominazione assoluta, sociale, politica, economica e corporea. Il corpo dello schiavo appartiene de facto et de jure al corpo del padrone. Nelle piantagioni non vale più alcun ordinamento giuridico, la sovranità esercitata dal padrone si afferma come piena disposizione della vita – e dunque della morte, o della possibilità della morte – dello schiavo, ridotto a strumento, oggetto, nelle mani del sovrano.
Il valore dello schiavo è mercificabile, così come lo è il suo corpo, perché esiste solo in quanto strumento di lavoro, merce sfruttabile e scambiabile. Come scrive Susan Buck-Morss “la vita dello schiavo è posseduta dal padrone”[1]. Secondo Mbembe, nei sistemi coloniali, nella forma dello schiavismo, si condensa emblematicamente il trinomio tra biopotere, stato di eccezione e stato di assedio, sottolineando come la figura centrale sia, ancora una volta, il concetto di razza. La colonia rappresenta perciò il luogo in cui la sovranità si esercita, si dispiega e si manifesta come pratica di potere al di fuori della legge, o meglio, di un potere che eccede la legge pur includendola.
Per giustificare questa tesi Mbembe fa appello alla nascita dello Jus publicum Europeo alla cui base rientravano in primo luogo l’eguaglianza giuridica fra tutti gli stati con un diritto di fare la guerra civilizzando i modi di uccidere e trovando obiettivi razionali per farlo e la costruzione di frontiere nel contesto dell’ordine globale. Da questo disegno derivò una netta demarcazione tra quelle parti del globo considerate disponibili per l’appropriazione dei vari stati, e, dall’altra, la stessa Europa, in cui si applicava lo Jus publicum.
Le colonie erano allora quelle zone di frontiera in cui tutto poteva essere permesso, legittimato, giustificato; erano “zone in cui la guerra e il disordine, le figure interne ed esterne della dimensione politica, erano contigue o si alternavano tra di loro. Erano il luogo per eccellenza dove i controlli e le garanzie dell’ordine giuridico potevano essere sospesi: il luogo dove la violenza dello ‘stato di eccezione’ era ritenuta qualcosa che operava al servizio della civilizzazione. Le colonie potevano essere dominate attraverso spazi di assoluta assenza di legge, a partire dalla negazione di ogni tipo di legame razziale tra il conquistatore e il nativo”.
Agli occhi dell’occupante l’indigeno non era che una forma di vita nuda, una forma di vita animale, addirittura qualcosa di altro dall’essere umano, di alieno, di orrendamente incomprensibile, come se a coloro che venivano chiamati “selvaggi” mancasse proprio un riconoscimento di umanità, un carattere specificamente umano. Per questo motivo la guerra coloniale si affermava come una guerra che non era soggetta a nessuna regolamentazione, a nessun codice, nessun ordinamento giuridico, tanto che non si può nemmeno parlare di guerra, ma di massacro. Si è trattato di massacro incondizionato e non regolamentato. Le “guerre” coloniali venivano percepite come “l’ostilità assoluta del conquistatore contro un nemico assoluto. Tutte le manifestazioni di guerra e ostilità che erano lasciate ai margini dell’immaginario legale europeo, trovarono nelle colonie lo spazio ideale per riemergere. Nelle colonie la distinzione fittizia tra i ‘fini della guerra’ e i ‘mezzi della guerra’ crollò. Accanto a questa idea collassò la finzione che la guerra potesse funzionare come un contesto retto da leggi e regole, e che l’opposto fosse la carneficina, dalla quale è assente il rischio e per la quale non esiste una giustificazione strumentale”[2].
La colonia si affermò anche come uno spazio in cui si svilupparono nuove configurazioni, nuove pratiche di territorializzazione: si trattava di misurare, delimitare e imporre il controllo su una nuova area geografica e al contempo di inscrivervi un nuovo ordine di relazioni sociali e spaziali. La pratica territorializzante equivaleva, e, come vedremo, equivale ancora oggi, alla creazione di “frontiere, gerarchie, zone ed enclave; al sovvertimento dei sistemi di proprietà preesistenti; alla classificazione delle persone in categorie differenziate; allo sfruttamento delle risorse estrattive, e, alla creazione di un ampio serbatoio di immaginari culturali”[3] che fornirono un contenuto all’esercizio della sovranità. La sovranità si trascinava dietro con sé la violenza dell’occupazione e questa andava a delineare una zona in cui il discrimine tra la condizione di soggetto e quella di oggetto andava a sfumare, fino a dissolversi. Il discrimine tra la condizione di chi è eliminabile e quella di chi non lo è, alla costruzione del colonizzato, dell’occupato come homo sacer, per dirla di nuovo con Agamben.
Le modalità di occupazione della tarda modernità sono diverse da quelle della prima modernità, in particolare per la loro capacità di coniugare, in maniera sempre più evidente, potere disciplinare, biopolitica e politiche di morte. Secondo Mbembe il più emblematico e compiuto esempio contemporaneo di potere di morte è l’occupazione palestinese. Seguendo Fanon e la sua lettura dell’occupazione coloniale nel regime dell’apartheid in Sud Africa[4], Mbembe afferma che “l’occupazione tardo-moderna della striscia di Gaza e della West Bank presenta delle caratteristiche importanti per quanto riguarda la costruzione di una specifica ‘formazione di terrore’ – ‘potere di morte’ (necropower). Si tratta delle dinamiche della frammentazione territoriale, la chiusura e l’espansione degli insediamenti. L’obiettivo […] è da un lato, di rendere impossibile ogni spostamento, e dall’altro, di implementare una separazione secondo il modello dell’apartheid”[5].
Si tratta di un’ occupazione frammentata, frantumata e, come sottolinea Eyal Weizman, la segmentazione e la frantumazione dell’occupazione ridefiniscono la stessa spazialità e il rapporto tra questa e la sovranità: la divisione del territorio in parti e sottoparti che si estendono in tutte le direzioni, dall’alto verso il basso, attraverso frontiere tridimensionali, passaggi e sottopassaggi, che tagliano il volume dell’area occupata da una parte all’altra, produce quella che Weizman chiama “politica della verticalità” da cui deriva pertanto una forma di “sovranità verticale”. In questo nuovo tipo di sovranità, il controllo degli occupanti si allarga topograficamente in ogni direzione, estendendosi sia verso l’interno della zona occupata che verso l’esterno. Si tratta di un controllo totale, militare e disciplinare, una vigilanza sistematica e costante. Si tratta di un permanente “stato di assedio”.
Questo infatti permette “l’esercizio del ‘diritto di uccidere’ senza tracciare una differenza fra il nemico interno o esterno. Il mirino della sovranità è puntato su intere popolazioni. I villaggi assediati sono isolati e tagliati fuori dal mondo. La vita quotidiana è militarizzata. Ai comandanti locali è data la facoltà di decidere a loro discrezione a chi sparare e quando sparare. I movimenti fra le cellule disperse del territorio richiedono dei permessi formali. Le istituzioni civili locali vengono sistematicamente distrutte. La popolazione sotto assedio è privata dei mezzi di sostentamento. Le uccisioni invisibili si aggiungono alle esecuzioni extragiudiziarie”[6]. Vivere sotto un regime coloniale della tarda modernità significa sperimentare una condizione di disciplinamento invasivo della propria esistenza e soprattutto di terrore per la propria esistenza, costantemente posta sotto minaccia, sotto controllo.
La morte si accompagna dunque, inscindibilmente alle pratiche del biopotere, la possibilità di essere eliminabile come di non esserlo è sistematicamente presente nella condizione dell’occupato. La sovranità dell’occupante che grava su di lui lo pone in un limbo di inconsapevolezza sul proprio destino. Nel regime coloniale la sovranità esercita il diritto di decretare morte all’interno di qualcosa che viene sancito come diritto stesso. In una simile condizione, secondo Gilroy, citato da Mbembe, la morte assurgerebbe quasi a una forma di liberazione dal terrore stesso della propria morte.
In uno stato di annullamento totale della propria libertà, della propria agency, la morte rappresenterebbe, più che una liberazione, addirittura una forma di libertà, un’affermazione della propria capacità di agire, contro la negazione della propria libertà e contro il disciplinamento della propria esistenza, contro il terrore che si lega all’esercizio della sovranità: “se la mancanza di libertà è l’essenza del significato dell’esistenza per lo schiavo e il colonizzato, è attraverso questa stessa mancanza che lo schiavo conferisce valore alla propria mortalità. Riflettendo sulla pratica del suicidio individuale o collettivo degli schiavi messi al muro dai loro inseguitori, Gilroy suggerisce che la morte in questo caso può essere rappresentata come agency. La morte è qualcosa sulla quale io ho un potere, ma essa è anche lo spazio dove operano la libertà e la negazione”[7].
Pur non potendo addentrarsi in tutta l’analisi di Mbembe (ad esempio il filosofo prende in considerazione anche il suicidio-omicidio degli attentatori, o le guerre nell’era della globalizzazione), è interessante notare come la nozione di biopolitica di matrice foucaultiana trovi i suoi legami con lo stato di eccezione, lo stato di assedio, con un potere che è quello di decidere della vita o della morte. Secondo Mbembe la definizione stessa di biopolitica è insufficiente a render conto delle contemporanee forme di necropolitica che assoggettano la vita e la morte, o costruiscono morte nella vita. Si tratta di modi nuovi, raffinati, massimizzati di produrre morte, forme che sembrano quasi anonime e invisibili di distruzione delle vite umane, in cui “le armi vengono impiegate per produrre la massima distruzione delle persone e di creare dei mondi di morte, forme nuove e uniche di esistenza sociale, nelle quali popolazioni intere sono assoggettate a condizioni di vita che equivalgono a collocarle in una condizione di ‘morte in vita’”[8].
-
S. Buck-Morss, Spettri di Haiti. Dal colonialismo francese all’imperialismo americano, Ombre Corte, Verona 2002. ↑
-
Ivi, pp. 31-32. ↑
-
Ivi, p. 33. ↑
-
Secondo Fanon l’occupazione coloniale implica prima di tutto una suddivisione dello spazio in scomparti che a sua volta comporta la produzione di linee di confine e di frontiere interne. Lo spazio è controllato attraverso un discorso di mera forza, di intervento costante, di violenza, di presenza fissa. ↑
-
A. Mbembe, op. cit., p. 36. ↑
-
Ivi, p. 40. ↑
-
Ivi, p. 57. ↑
-
Ivi, p. 58. ↑
Immagine da commons.wikimedia.org
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.