Il tema scelto dalla rivista Nature per i saggi celebrativi del suo centocinquantesimo anniversario è, comprensibilmente, il modo in cui la scienza ha modellato la nostra vita attuale.
Ripercorrendo la storia della scienza moderna nel mondo occidentale con particolare attenzione al suo rapporto con il potere nell’articolo di David Kaiser non è difficle riconoscere, nella gara agli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico ingaggiata dai paesi europei e gli Stati Uniti all’insegna del mito del progresso a cavallo del XIX secolo, una sfaccettatura della politica di potenza: l’avanzamento delle conoscenze scientifiche di e in uno stato doveva incarnarne la capacità di controllare il proprio destino e di imporsi nello scacchiere internazionale, oltre che fornire nuovi elementi di identificazione alla cultura del suo popolo e favorire lo sviluppo del suo apparato industriale e infrastrutturale. Forse meno ricordata della competizione imperialista, quella nel campo delle scienze negli stessi anni ha prodotto tutte le istituzioni di studio e ricerca statali con l’assetto a noi ormai familiare: grandi laboratori e istituti di ricerca statali spuntarono nel giro di pochi decenni, insieme ad investimenti economici e assunzioni di personale senza precedenti.
Negli anni ’40 del
1800 il Regno Unito, a capo di un impero che inglobava un quarto
delle terre emerse, vedeva la nascita del Royal College of Chemistry
grazie alle donazioni di pesi massimi della politica del tempo come
Peel, Disraeli e Gladstone; nel giro di vent’anni sarebbero sorti
laboratori in tutto il regno, precursori degli avanzamenti
tecnologici della seconda rivoluzione industriale: un parallelo
sviluppo di termodinamica ed elettromagnetismo con la rete
ferroviaria del paese. Figure come James Maxwell e lord Kelvin
partecipavano con le loro conoscenze a commissioni governative per
navigazioni e comunicazioni transatlantiche, standard elettrici,
energia a vapore, in una generale ansia di stare al passo con la
Germania – la quale a sua volta temeva di rimanere indietro rispetto
al progresso tecnologico del Regno Unito.
Nel frattempo infatti
la Prussia usciva vincitrice dalla guerra contro la Francia e
l’unificazione della Germania nel 1871 superava la competizione tra
gli atenei di area germanofona nell’affiliare accademici illustri: la
centralizzazione del ministero dell’istruzione combinata alla
corsa all’industrializzazione del paese si tradusse in profusi
investimenti nella ricerca accademica in tutte le scienze naturali e
nella fondazione del Physikalisch-Technische Reichsanstalt di
Berlino, espressamente inteso ad intersecare ricerca di base, ricerca
applicata e sviluppo tecnologico. Qui Max Planck, di fronte a
misurazioni di grande precisione dello spettro della radiazione da
corpo nero, iniziò a mettere in dubbio la teoria elettromagnetica di
Maxwell per elaborare la sua teoria dei quanti.
Ancora più ad
est, lo zar Alessandro II si stava intanto dedicando alle Grandi
Riforme per modernizzare la Russia, dall’abolizione della servitù
feudale alla fondazione di università di stato, insieme ad un
titanico apparato burocratico corrispondente ai nuovi apparti legali
e di governo regionale. Queste nuove istituzioni offrirono posizioni
di carriera ad intellettuali come Mendeleev.
Nel 1867 l’Impero
Asburgico riconosceva l’eterogeneità dei territori della sua corona
trasformandosi in Impero Austro-Ungarico, con una struttura più
moderna e decentralizzata. Nel contesto del nuovo interesse per la
scienza come elemento costitutivo dello stato, il nuovo impero
orientava i suoi investimenti verso quella che oggi consideriamo una
disciplina particolarmente moderna e avulsa, quando non avversa, al
potere: la climatologia.
Lo studio iniziò dalle condizioni a
piccola scala, in risposta a esigenze economiche e politiche locali;
le osservazioni furono poi integrate in uno schema a livello
imperiale, compilando mappe e volumi di dati come la serie
Climatografia dell’Austria
(1904-1919). Ad informare la
ricerca per una scienza
descrittiva, dinamica e concentrata sull’interdipendenza, che sarebbe
stata la premessa
della moderna climatologia, era un’ispirazione politica.
Secondo Deborah R. Coen, storica della scienza e autrice del libro Climate in motion: Science, Empire and the Problem of Scale (University of Chicago Press), la meteorologia e la climatologia erano per l’Impero una scienza di unità nella diversità linguistica, religiosa e legale tra i suoi territori.
L’Impero Austro-Ungarico includeva dieci gruppi linguistici principali e geografie variabili dalle Alpi alle steppe, mal connessi da sistemi di comunicazione e trasporto ancora arretrati. In assenza di una lingua comune o di una condivisa identità di “popolo” come fattore unificante (a differenza della Germania o dell’Italia), si cercò prova di una naturale unità dell’impero nella sua meteorologia, anche attraverso la metafora della circolazione atmosferica.
Università, musei ed altre istituzioni di ricerca, in sinergia con gruppi editoriali ed uffici governativi, si dedicarono all’elaborazione di una scienza che descrivesse la connessione tra regioni tanto diverse per forma del territorio, idrografia, vegetazione: ogni regione avrebbe fornito qualche elemento climatico essenziale per una adiacente che ne era invece priva; le nevi alpine alimentavano il Danubio e quindi le sue pianure, mentre il vento che spirava dall’Austria portava la pioggia all’Ungheria. In questo modo la necessità, insita nello studio del clima, di riconciliare fenomeni a scale diverse, situazioni regionali con schemi più vasti, riproduceva nella climatologia austroungarica lo sforzo di unità a livello politico ed economico dell’Impero.
Fu
un’idea di successo, ripresa tanto in economia, ad esempio da Emanuel
Herrmann con la climatologia come modello per l’analisi spaziale
dell’economia nell’Impero, quanto in filosofia politica: il
socialdemocratico Karl Renner postulava che fosse la diversità a
creare unità e che questa a sua volta fosse la chiave per la
crescita del commercio.
Parallelamente ad un investimento nella
ricerca scientifica a grande scala, l’Impero promuoveva la
divulgazione scientifica rivolta alla popolazione, evidenziandone i
tratti patriottici oltre che più ampiamente culturali.
Le strutture, le istituzioni, l’organizzazione avite e accettate acriticamente di quella ricerca scientifica che oggi distrattamente consideriamo neutrale sono state realizzate organicamente a precisi progetti politici in un preciso contesto storico (che non sembra ragionevole rimpiangere). Questo non significa che la ricerca non possa ambire ad essere neutrale, bensì che è necessario riconoscere che è immersa nella società, che è portata avanti in un contesto materiale da persone fisiche, cittadine di stati: elementi inestrinsecabili dal contesto politico e dall’assetto di potere vigente. D’altra parte, una scienza adesa ad un progetto politico o una politica del tutto abnegata alla tecnocrazia sarebbero entrambe sciagure. Se è necessario riconoscere ed analizzare criticamente il rapporto con il potere della ricerca scientifica, senza vederlo come un suo punto debole ma come una sua caratteristica, proprio grazie a quest’approccio critico è possibile preservare il margine di indipendenza reciproca tra scienza e politica, addette a scopi diversi e, dovrebbe essere inutile specificarlo, ciascuna migliore dell’altra per il proprio scopo.
Immagine: Anton Hansch, Cascata dello Schmadribach in Svizzera, 1868 (dettaglio)
Studia scienze naturali all’Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.