È di questi giorni la notizia che il figlio di Elena Santarelli, nota show girl, è guarito dal tumore che lo affliggeva. Ma quello su cui vale la pena soffermarsi sono le parole utilizzate per comunicare il messaggio: “Giacomo (questo è il nome del bambino) ha vinto la sua battaglia contro il tumore”. Eh sì, l’essere guarito da una malattia viene visto come una vittoria, come se dipendesse dalla persona malata l’esito di una vicenda che invece lascia al malato spesso, troppo spesso, il solo ruolo di pedina guidata dal destino (qualsiasi accezione si voglia dare al termine). Quindi sentire usare frasi come “ha vinto/ha perso la sua battaglia” sembra far intravedere (più o meno velatamente) un giudizio sul malato: se guarisce (vince) è forte, altrimenti è debole.
Chiediamoci se questo è giusto: qual è la differenza tra chi scopre in tempo di avere una malattia e riesce quindi a salvarsi e chi invece malauguratamente arriva a una diagnosi troppo tardi o scopre di avere a che fare con un male per cui ancora non esiste una cura? Perché il primo può fregiarsi della definizione di “combattente vittorioso” mentre per il secondo si spenderanno parole come “ha perso la sua battaglia”? Non sarebbe più onesto dire che il primo è guarito mentre il secondo è morto? Sicuramente più brutale ma, se ci si pensa, anche più rispettoso della malasorte di chi non è riuscito a sfuggire a un destino già scritto.
Cosa ci spinge a evitare a tutti i costi la parola “morte” preferendole delle perifrasi che mettono in campo fattori altri dalla vicenda in sé, dando adito al pensiero di una classifica fra i malati? Probabilmente la risposta a tutto ciò è la paura: paura di ammettere che, in determinate situazioni, non c’è nulla da tentare. Paura che un giorno o l’altro toccherà a un nostro caro (o a noi stessi) a perdere la partita con la malattia. Ma… in questa triste eventualità, non ci disturberebbe sapere che qualcuno possa pensare che “non siamo stati abbastanza forti” da sconfiggere il male? Ecco, forse allora sarebbe il caso di evitare l’uso di un determinato linguaggio e vocabolario anche per parlare degli altri. D’altronde, come si suol dire, non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.
Un’altra frase che spesso si sente usare in riferimento alla malattia è “ha lottato fino alla fine”: in questo caso almeno si rende merito alla persona di aver provato a fare qualcosa contro il male, e gli si riconosce di essere stata sfortunata. Un passo in avanti, potrebbe sembrare. Ma allora coloro ai quali è stata data la più terribile delle sentenze, “non c’è più nulla da fare”, sono dei codardi perché non hanno neanche tentato di combattere una guerra che sapevano (perché così ‘informati’ dai medici) di aver già perso? Ancora una volta l’errore di fondo è far passare come sotto il controllo del singolo un evento sul quale nessuno può avere alcun controllo. Ebbene sì, non siamo padroni del nostro destino, nel senso che nulla possiamo fare quando è giunto il “game over”.
Inoltre l’uso del verbo “combattere” dà ad intendere che un malato debba per forza essere forte di carattere, come se ci fosse sempre e comunque un’equivalenza tra gravità della malattia e forza di carattere. Ma non è così: non nasciamo geneticamente predisposti a sopportare le malattie. Può capitare (e capita) anche a chi non è forte di carattere di dover affrontare la sofferenza propria e dei propri cari. E in quel caso si è in ballo (nostro malgrado) e si continua a ballare. Non perché ci sia caduta dal cielo un’improvvisa forza di carattere, ma semplicemente perché non abbiamo avuto alternativa. No, la sofferenza non ci ha fatto bene. Meglio sarebbe stato continuare ad essere lagnosi e in salute, o in compagnia dei propri cari. Perché dobbiamo per forza vedere il lato positivo della medaglia? Purtroppo ci sono situazioni in cui non c’è alcuna positività.
Bisogna ricordare che la persona malata ha il sacrosanto diritto di vivere la propria malattia come si sente nel singolo momento: vuole essere depressa? ne ha facoltà! vuole fare finta che niente sia successo? lo può fare! Chi invece ha degli obblighi sono le persone esterne: in nessun caso si devono permettere di giudicare le azioni e le reazioni di coloro che vivono una situazione di sofferenza. La malattia infatti non è un nemico da vincere: o almeno, non è un nemico che si può sconfiggere, almeno non lo si può fare attivamente. Se questo accade, se si riesce a riguadagnare la salute, non si è vinto alcunché, e soprattutto non lo si è fatto perché più bravi di altri.
Smettiamola di dire: “Tizio ha vinto la malattia”. Le parole sono importanti, impariamo ad usare quelle corrette!
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Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell’Arci.