In Bassa Sassonia e Baviera si rischiano fino a tre anni di carcere per l’esposizione del simbolo Z o per l’aperto sostegno all’intervento russo in Ucraina. Anche il governo federale tedesco si è detto intenzionato a monitorare tali manifestazioni per punirne gli eventuali rilievi penali. Una analoga decisione è stata presa in Polonia, con 445 sì sui 460 deputati alla Camera. In Lettonia, per impedire la celebrazione della vittoria antifascista del 9 maggio 1945, oltre alla Z è stata proibita qualsiasi manifestazione pubblica nelle vicinanze dei memoriali sovietici. A Berlino la CDU chiede di distruggere il monumento a Ernst Thälmann, leader comunista fucilato dai nazisti a Buchenwald, e il memoriale sovietico di Treptow è stato vandalizzato con varie frasi fra cui l’invito a uccidere tutti i russi. Sul diffondersi in Occidente di una politica ideologica di stampo maccartista si interrogano questa settimana le Dieci Mani.
Leonardo Croatto
La guerra combattuta è quella cosa che si vede nelle immagini dei morti ammazzati e che si svolge nel momento presente e in un luogo dato, ma che per esistere prima, durante e dopo il suo momento di materializzazione reale ha bisogno di vivere come idea, come desiderio.
Se l’uomo è l’unico animale che è stato capace di sviluppare i mezzi per realizzare la propria estinzione, la domanda interessante è come si produca nella testa degli esseri umani questo desiderio di cessare la vita altrui senza trarne alcun vantaggio, ma anzi infliggendo anche a sé stessi indicibili sofferenze. Non, tanto quindi cosa motivi chi da una guerra trae vantaggi economici senza alcun coinvolgimento diretto negli scontri, ma chi lascia casa propria, la propia famiglia, il proprio lavoro per andare ad ammazzare uno sconosciuto a centinaia di kilometri di distanza rischiando di finire ammazzato lui stesso.
Ancora una volta, sono convinto che la spiegazione stia nelle storie che vengono raccontate, e, nel caso delle cancellazioni culturali, anche in quelle che non vengono raccontate. Convincere qualcuno ad ammazzare un perfetto sconosciuto senza trarne alcun beneficio materiale è la tecnologia con cui si sono costruite tutte le guerre e i genocidi moderni, e questa tecnologia è in mano a chi fa comunicazione, non ai militari. L’arruolamento del mondo della cultura e dell’informazione nell’impresa bellica è fondamentale per la riuscita di qualsiasi sforzo miliare tanto quanto la tecnologia applicata agli armamenti, e, va detto, il mondo della cultura e dell’informazione si è sempre dimostrato disponibilissimo a partecipare agli sforzi di coscrizione delle truppe.
La costruzione del nemico da odiare, della minaccia incombente e mortale da scongiurare, è l’ingrediente fondamentale di qualsiasi massacro possibile. Non è immaginabile che delle armi sparino se chi le maneggia non è adeguatamente motivato, e il lavoro di disumanizzazione del futuro nemico e la sua rimozione dalla rete di relazioni e connessioni è un elemento necessario perché i futuri assassini non provino né dubbio prima di ammazzare né rimorso successivamente.
Il lavoro di espulsione degli autori russi dalla vita culturale occidentale, così come la demonizzazione di qualsiasi cosa abbia legami con la Russia – intesa come soggetto storico, culturale, sociale e geografico indistinto, Unione Sovietica inclusa in questo pastone indefinito – sembra tragicamente obbedire a questo schema.
Jacopo Vannucchi
Ogni tanto viene da chiedersi se i persecutori della Zeta sappiano che la lettera Z non esiste in russo (il corrispondente suono sordo viene reso con Ц e quello sonoro con З) e che i due bracci orizzontali collegati da una diagonale rappresentano l’esposizione del Nastro di San Giorgio, con i colori nero-arancio della Medaglia sovietica per la vittoria sulla Germania nel 1945.Il nastro di San Giorgio è stato messo fuorilegge in Ucraina nel 2017, in Lettonia nel 2021 e in Moldavia nel 2022 dopo l’intervento russo in Ucraina. Ma stavolta oltre alla grande politica vorrei raccontare un aneddoto locale.
Dopo la sconfitta della Germania e il passaggio di Breslavia in Polonia nel 1945 la vecchia Königplatz (Piazza del Re) fu ridenominata Piazza 1° Maggio. Il nome sopravvisse al crollo della Repubblica Popolare, ma non alla morte di Giovanni Paolo II, cui fu ridedicata nel 2006. Nel 2020 un movimento di sinistra chiese alla Città di Breslavia il ritorno del nome socialista, per due motivi: per il consenso del defunto pontefice a ignorare i casi di pedofilia nella Chiesa cattolica e «per compiere un gesto simbolico verso i dipendenti, perché la crisi causata dalla pandemia ha dimostrato che la forza dello Stato dipende dallo sforzo, dall’impegno e dalla dedizione dei lavoratori» (leggi qui). Queste frasi venivano da un’esponente di una sinistra post-ideologica e liberal, non certo comunista né ex-comunista (Breslavia, anzi, ha una storia di radicato anticomunismo).La mozione fu sconfitta, ma segnalava comunque un risveglio.
Oggi se qualcuno provasse a presentare una mozione simile verrebbe sicuramente espulso dal dibattito pubblico, tacciato di collaborazionismo filo-russo e forse messo sotto inchiesta in base alla legge polacca che punisce l’apologia di sistemi totalitari. Nel frattempo in Polonia sono entrati 2.500.000 profughi ucraini su una popolazione di 38.000.000 di abitanti: in poco più di un mese è stata creata una nuova minoranza etnica. Il 94% di chi ha richiesto il codice fiscale polacco sono donne e bambini (leggi qui). Così, mentre a Breslavia gli affitti vanno alle stelle e mentre in tutta la Polonia galoppa l’inflazione, centinaia di migliaia di persone hanno bisogno di cibo e lavoro e produrranno un effetto depressivo sui salari. Non è difficile immaginare un futuro prossimo in cui, mentre il potere d’acquisto si riduce e i profitti crescono, si verifichino scontri etnici fra lavoratori polacchi e lavoratori ucraini.
Per tornare all’interrogativo di apertura, si sarebbe tentati di rispondere con un desolante: sì, lo sanno. Aprendo una successiva domanda: la repressione culturale e della memoria in Occidente è compatibile con l’autodeclamato liberalismo che ci rende tanto superiori alla dittatoriale autocrazia russa o cinese?
Alessandro Zabban
La guerra sta indubbiante creando un clima politico nuovo. Durante la guerra in Iraq l’opinione pubblica si è fortemente divisa fra interventisti e pacifisti. Le circostanze oggettive del conflitto rendevano arduo ai media vicini alla NATO e a Washington di imporre la propria visione e di egemonizzare la propria ricostruzione dei fatti. Un ampio movimento pacifista di natura antimperialista ha impedito dal basso che la narrazione guerrafondaia diventasse l’unica prospettiva accettabile, nonostante il coinvolgimento diretto dell’Italia nel conflitto.
Oggi la situazione appare ben diversa. L’attacco di Putin all’Ucraina, l’escalation più grave che si sia verificata nella regione dall’inizio delle ostilità (2014) a oggi, ha giustamente provocato un coro unanime di critiche, che però ha prodotto un clima irrespirabile per chi cerca delle verità oltre la comunque necessaria critica all’invasione russa.
Il sistema mediatico e politico vicino a Washington ha gioco facile nel proporre una visione semplificata della realtà, in cui i russi sono i cattivi invasori, criminali, assassini, stupratori, mentre gli ucraini il popolo fiero e pacifico che resiste. L’Ucraina è certamente anche questo ma si cerca così di oscurare sia l’Ucraina nazionalista che non ha mai accettato soluzioni federali e il riconoscimento della minoranza russa, sia quella del Donbass che è bombardata e oppressa dallo stesso esercito ucraino e dalle bande neonaziste da 8 lunghi anni.
Così chi prova ad interpretare la realtà contestualizzando storicamente e cercando di leggere le più ampie implicazioni geopolitiche, finisce per essere etichettato come putiniano, mentre la cultura russa finisce per essere osteggiata e boicottata senza apparente motivo. Il rischio di gravi attacchi contro le minoranze russe in occidente è concreto ed è l’atteggiamento opposto a quello con cui amiamo definirci: aperto, democratico, liberale.
Il risultato è un clima tossico molto pericoloso in cui tutti si professano a favore della pace ma prospettano soluzioni molto diverse. In questo modo però il movimento pacifista è tutto è nulla, con le posizioni pacifiste che spesso si allineano a chi vuole gettare ulteriore benzina sul fuoco (mandare le armi, chiedere un’ulteriore espansione ad est della NATO) e con tutti i “se” i e “ma” che un pacifista vero come Gino Strada ripudiava.
Immagine da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.