La strage di leader sociali e le sue radici storiche
La scia di violenze in Colombia sembra interminabile. Quasi ogni giorno si apprende la notizia di un nuovo leader sociale, attivista, dirigente indigeno o ex combattente assassinato. Secondo l’autorevole istituto Indepaz, in questo 2020 gli omicidi di natura politica perpetrati nei loro confronti arrivano già a 169, cifra che conferma la violenza endemica che caratterizza la società colombiana[1].
Questo massacro appare come l’ultimo capitolo di una lunga guerra interna che ha caratterizzato la storia della Colombia fin dagli anni ’50 del secolo scorso. Secondo lo storico marxista Eric Hobsbawn, dal 1930 in poi nel Paese stavano maturando le condizioni per una rivoluzione sociale che avrebbe potuto dar vita a un regime populista di sinistra che avrebbe operato a stretto contatto con i comunisti[2]. L’oligarchia bipartitica che reggeva il Paese, formata da liberali e conservatori, era decisamente atipica nel contesto sudamericano perché aveva finito per radicarsi fra i contadini delle campagne, tanto che l’appartenenza partitica era diventata in Colombia una sorta di religione civile. I partiti, fra i cui ranghi entrarono sempre più esponenti del modo del lavoro, non erano più completamente sotto il controllo delle élite oligarchiche. In particolare, quello liberale, fra il 1930 e il 1948, si trasformò in un vero e proprio partito di popolo. Il movimento populista di massa guidato da Jorge Eliécer Gaitán, che orbitava attorno ai liberali, finì nel 1946 per attirare a sé l’intero partito, mentre anche i comunisti, pur sospettosi del gaitánismo, lavoravano a stretto contatto con i dirigenti liberali. In questa situazione, i conservatori erano particolarmente irrequieti sui possibili sviluppi politici nel Paese. Nell’aprile del 1948 Gaitán fu assassinato e per reazione l’insurrezione del Bogotazo scoppiò quasi subito e diede vita a una stagione di mobilitazioni spontanee che Hobsbawn ritiene siano state le più impressionanti di tutta la storia dell’America Latina, dopo quelle messicane.
Nonostante l’intensità delle rivolte sia nelle città che nelle campagne, con la morte di Gaitán mancava un leader che organizzasse la mobilitazione e ben presto il paese precipitò nel caos e nell’anarchia. I conservatori sfruttarono la situazione di confusione generale e le spaccature all’interno del fronte liberale per impadronirsi del potere, purgare l’esercito dagli elementi progressisti e usarlo per azioni di repressione nelle roccaforti controllate dai liberali e dai comunisti. Ben presto la guerra civile si espanse dando vita a una sanguinosissima stagione definita semplicemente “Violencia“, in cui imperversavano ovunque bande armate affiliate all’una o all’altra fazione politica. I comunisti si organizzarono per lo più in zone rurali di autodifesa, che controllavano tenendo lontani banditi e forze governative. La fase più cruenta del conflitto fu fra il 1948 e il 1953 a cui seguì, dopo una fallimentare parentesi di dittatura militare, un tentativo di ricomposizione dell’oligarchia colombiana, coi due partiti decisi a fare quadrato per pacificare il Paese. La Violencia sfumò così per un certo periodo in un banditismo politicizzato[3].
Nel frattempo la società colombiana stava cambiando rapidamente, con una crescita esponenziale della popolazione urbana e l’arrivo di nuove industrie, ma il governo continuava ad avere uno scarsissimo controllo del territorio e le contraddizioni sociali e la questione agraria erano tutt’altro che risolte. Nelle campagna infatti, caratterizzata ancora per certi versi da elementi feudali, molti contadini, per lo più coloni di frontiera, venivano continuamente minacciati e spesso uccisi principalmente perché provavano a difendere il diritto di usucapione sui territori che i latifondisti si erano accaparrati avanzando vaghe pretese legali di proprietà. Fu questo uno dei principali fattori che portò alla nascita della guerriglia comunista contadina in Colombia[4].
A metà degli anni sessanta infatti, a partire dai nuclei di autodifesa che in diverse aree remote del paese avevano creato zone libere dai massacri della Violencia, i contadini comunisti che ne facevano parte si organizzarono in movimenti di guerriglia proprio per rispondere agli abusi e alle vessazioni dei latifondisti locali e alle incursioni dell’esercito che tollerava l’anarchia nelle zone rurali ma non la presenza di zone sotto il controllo dei “rossi”. Nacquero così le FARC che in breve tempo divennero il più temibile movimento guerrigliero non solo della Colombia, dove in quegli anni si stavano formando anche l’ELN (di matrice cubana) l’EPL (maoista) e l’M19 (di estrazione borghese), ma probabilmente di tutto il Sud America dando vita a una dura stagione di lotta armata con le forze governative che si protrasse per anni senza vincitori né vinti.
Dagli anni ottanta, a partire dalla Presidenza di Belisario Betancur (1982-1986), il governo decise di scendere a patti con le formazioni guerrigliere intuendo che ciò fosse l’unico modo per pacificare il Paese. Un armistizio venne firmato con tutti i principali gruppi guerriglieri, ad eccezione degli estremisti dell’ELN, ma ben presto iniziarono gli omicidi ai danni degli ex combattenti, perpetrati da squadroni della morte e bande paramilitari di estrema destra. Furono in particolare gli ex affiliati alle FARC, riuniti sotto il partito dell’Unione Patriottica (UP), che vennero decimati in quello che molti definiscono un vero e proprio genocidio politico[5]. Così, tutti i movimenti di guerriglia, tornarono ben presto alle armi. Nella seconda metà degli anni ottanta il quadro si complica ulteriormente. Con l’apertura del mercato della cocaina il mondo del narcotraffico, fino a quel momento piuttosto marginale, inizio ad assumere un importanza fondamentale e i boss acquistano ben presto un potere e un’influenza politica enorme. Sono anche gli anni in cui prosperano gruppi paramilitari di estrema destra, nati come reazione alla guerriglia comunista e con legami controversi e non sempre del tutto chiari con l’esercito e settori dello Stato.
Fallita anche una seconda stagione di negoziati, i Dialoghi del Caguán (1998-2002), sotto il governo di Álvaro Uribe gli scontri fra forze governative e guerriglieri comunisti continuò con un’intensità senza precedenti. Ma le condizioni per riprendere i negoziati si riproposero pochi anni dopo, durante la presidenza Juan Manuel Santos, deciso ad arrivare ad un accordo di pace su basi diverse rispetto al passato. Come spiega bene l’antropologa Ana Cristina Vargas:
«cinquantadue anni di guerra; più di otto milioni di vittime registrate ufficialmente; quasi un milione di vittime di omicidio; sette milioni di profughi interni; 164.000 desaparecidos; più di 33.000 sequestri: le cifre del conflitto colombiano che si aggiornano quotidianamente nel registro ufficiale, mostrano con chiarezza la pesante eredità di una guerra interminabile. Guardando questi numeri sembra paradossale che uno dei primi atti ufficiali del travagliato percorso di negoziazione dell’Avana sia stato il riconoscimento ufficiale dell’esistenza del conflitto armato. Lo stato, infatti, ha negato per decenni, non la presenza in sé di una situazione di violenza, ma il carattere politico della guerra interna e le responsabilità nella stessa degli attoriarmati statali»[6] .
l’ammissione che i guerriglieri delle FARC non sono terroristi ma una fazione belligerante, significava riconoscere una dimensione politico-sociale al conflitto armato ed apriva le strade a un negoziato realmente costruttivo. La firma finale dell’accordo di pace fra le parti il 24 ottobre 2016 dopo i lunghi negoziati all’Avana, rappresenta sicuramente il più grande passo avanti compiuto nel progetto di pacificazione nazionale.
Tuttavia anche gli eventi che hanno seguito questa nuova fase mostrano che ampi settori sociali e dello Stato sono tutt’ora profondamente scontenti dell’accordo che avrebbe dovuto comportare fra le altre cose, anche l’implementazione di importanti riforme agrarie e di sviluppo agricolo che andavano a minare i loro interessi economici. Ancora una volta, si è assistito a una serie di omicidi ai danni di ex guerriglieri soprattutto delle FARC nuovamente inquadrati fra le fila del partito dell’UP che partecipa regolarmente alle elezioni e alla vita democratica del Paese. Secondo uno studio dell’istituto Kroc, il 2019 è stato l’anno più letale per gli ex combattenti delle FARC, con 77 membri assassinati, a riprova delle difficoltà a garantire protezione e sicurezza agli ex guerriglieri in una situazione generale che vede i punti salienti dell’accordo di pace venire implementati con estrema lentezza[7]. Così, non deve stupire che un gruppo dissidente dalla linea ufficiale della FARC abbia ripreso la lotta armata, segno che i rischi che l’accordo di pace possa saltare sono estremamente concreti.
Ma il principale bersaglio di gruppi paramilitari e sgherri di vario tipo sono i leader sociali e indigeni che pur estranei al comunismo e alla lotta armata, si battono per difendere il loro territorio e le loro comunità dagli affari dei narcotrafficanti, dei grandi proprietari terrieri e dai progetti distruttivi delle multinazionali. Gli accordi di pace non hanno dunque fermato le violenze, anzi è proprio dal 2016 che il numero di attivisti e leader comunitari uccisi è in forte aumento. La fine virtuale della guerriglia, in mancanza di uno Stato forte e capace di mettere un freno ai gruppi paramilitari e alla mafie del narcotraffico, ha solo dato maggiore spazio di azione a questi attori, che possono ora agire più indisturbati nel difendere i propri interessi politici ed economici ai danni delle piccole comunità rurali. Dietro questa lunga scia di sangue e di violenze è incerto quale sia il ruolo del governo che a parole si dice impegnato a salvaguardare gli accordi di pace e la società civile ma sembra difficile pensare che pezzi importanti dello Stato non siano coinvolti direttamente nella carneficina per proteggere gli interessi delle vecchie e delle nuove oligarchie. Le élite hanno negli anni cercato di incolpare unicamente i guerriglieri per le violenze ma è evidente che il problema di fondo è piuttosto quella che Daniel Pécaut definisce come una situazione di perdurante “guerra alla società”[8] in cui vari attori curano i propri interessi particolaristici a discapito e in opposizione alla società civile, alle comunità locali e in particolare, soprattutto più recentemente, agli indigeni che si battono contro lo sfruttamento capitalistico dei loro territori ancestrali e che sono sempre più a rischio di una vera e propria pulizia etnica[9].
La Colombia non è mai uscita da una situazione di violenza endemica e di guerra subcivile. Nonostante gli accordi di pace con la FARC, il governo sta facendo troppo poco per garantire la sicurezza degli ex guerriglieri ed implementare i principali punti dell’accordo. Come era lecito aspettarsi, la fine sostanziale della guerriglia non ha fermato le violenze, anzi. LE FARC infatti hanno la loro origine non certo nei gruppi armati che imperversavano e commettevano stragi durante il periodo della Violencia, bensì nelle comunità di autodifesa, sorte proprio per costruire oasi di pace dalle barbarie circostanti. Nell’ambito di uno Stato colombiano caratterizzato da una corruzione generalizzata e che arriva con ogni probabilità fino ai massimi vertici, le enormi zone rurali e le piccole comunità locali sono ora alla totale mercé dei narcotrafficanti, dei proprietari terrieri, dei loro scagnozzi e delle bande paramilitari di estrema destra. Ora che non si può più dare la colpa alla guerriglia comunista dei massacri ai danni dei leader sociali e degli attivisti comunitari, assistiamo allo spettacolo deprimente di una stampa internazionale che preferisce rivolgere le sue attenzioni al Venezuela e di un Presidente, Iván Duque, che appare ben poco interessato a mettersi contro oligarchie e mafie ma decisamente di più nello sminuire gli omicidi che avvengono su base giornaliera.
Immagine da commons.wikimedia.org
[1] http://www.indepaz.org.co/paz-al-liderazgo-social/
[2] Eric Hobsbawn, “La situazione rivoluzionaria in Colombia”, in Viva la Revolución.
[3] Eric Hobsbawn, “L’anatomia della violenza in Colombia”, in Viva la Revolución.
[4] Eric Hobsbawn, “Colombia Assassina”, in Viva la Revolución.
[5] Ana Cristina Vargas, Colombia. Antropologia di una guerra interminabile
[6] Ana Cristina Vargas, Colombia. Antropologia di una guerra interminabile
[7] https://www.telesurtv.net/news/colombia-revelan-mortalidad-excombatientes-farcep-20200617-0037.html
[8] http://www.mamacoca.org/docs_de_base/La_Representacion_Social_del_narcotrafico/PecautDaniel_Guerra_Contra_la_Sociedad_EdEspasa_2001.pdf
[9] https://ilmanifesto.it/in-colombia-si-sta-consumando-un-genocidio/
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.