Ormai da quasi un anno siamo “braccati” dal Covid-19 e costretti a una vita ed una quotidianità che non è quella cui eravamo abituati: il tristemente noto virus è al centro anche delle comunicazioni pubbliche e delle conversazioni private, anche online.
Ma come si sono svolti – e si stanno svolgendo – i dialoghi sull’argomento? Ne parliamo con Bruno Mastroianni, social media manager di trasmissioni di RAI3 e RAI1, ma soprattutto esperto di discussioni online, conflitti e comunicazione di crisi.
Come valuta la qualità della comunicazione ufficiale, veicolata dai mass media, in questa fase – anzi, in queste fasi – dell’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Covid-19?
È difficile fare una valutazione generale perché abbiamo avuto di tutto: luci e ombre. Potremmo dire che, come in ogni crisi, è affiorato il peggio e il meglio: chi ne ha approfittato, sfruttando il clima di allarme per ottenere visibilità e suscitare reazioni di pancia nel pubblico, ma anche chi si è dedicato a chiarire, a verificare, a dare strumenti e criteri per orientarsi. Direi che l’infodemia ci ha messo di fronte al doppio problema fondamentale dell’epoca digitale iperconnessa: avere informazioni più o meno attendibili incide sulla libertà, e questa libertà deve essere coltivata dai cittadini, che non possono accontentarsi di ciò che gli arriva dal dibattito pubblico, ma in esso devono entrare nel merito trovando strade per capire come va il mondo, nonostante il caos informativo.
Qual è invece il suo giudizio sulle conversazioni svoltesi online sui social network ad opera dei non addetti ai lavori, ovvero della gente comune?
Abbiamo visto acuirsi una serie di fenomeni da tempo studiati, come la tendenza al formarsi di casse di risonanza di opinioni omogenee (le cosiddette echo chamber), capaci di escludere qualsiasi visione alternativa e impermeabili al confronto. Sono purtroppo aumentati i fenomeni di odio, di violenza verbale, di complottismo e altri disagi che sono presenti nella società e che la rete amplifica e porta in primo piano, sotto gli occhi di tutti. Abbiamo visto anche la tendenza a sottolineare queste derive negative mettendo in secondo piano fenomeni costruttivi e di partecipazione virtuosa al dibattito in rete. Come al solito la narrazione dà forma alla realtà: sarà una frase trita e ritrita ma il concetto che “fa più rumore un albero che cade rispetto a una foresta che cresce” si applica perfettamente alle discussioni online di questo periodo.
Secondo lei è mancato qualcosa – e in caso cosa – nella comunicazione istituzionale in questo momento di emergenza sanitaria?
Le crisi creano sempre voragini informative: spesso, per difesa o anche solo per mancanza di organizzazione, si tende a non informare bene, per tempo e in modo completo. Credo che anche in questo caso abbiamo visto qual è l’effetto della mancanza di un flusso di informazioni costante e solido: il proliferare di informazioni inattendibili, manipolate, altalenanti. Chiaramente è illusorio pensare di mettere ordine, ma se c’è una buona linea di comunicazione, e se è ben curata, l’effetto distorsivo del rumore e delle manovre di chi sfrutta la crisi a suo vantaggio può ridursi. Non si raggiungerà l’ideale, ma almeno ci sarà più possibilità di scegliere chi seguire. Direi che nella prima fase il disordine informativo ha raggiunto picchi notevoli, nella seconda è andata un po’ meglio, ma è sempre rimasto quel difetto di iniziativa e di presa di responsabilità che è ciò che può produrre linee di comunicazione più consistenti.
Quali consigli darebbe a chi si trova a portare avanti una discussione su temi come quelli relativi alla pandemia?
Darei quattro consigli: innanzitutto capire prima di cercare di farsi capire. Troppe volte vogliamo dire la nostra senza prima aver davvero considerato se abbiamo tutti gli elementi per sostenerla.
Il secondo è fare più domande: in una discussione lasciare spazio all’altro, anche quando dice qualcosa che non torna, è fondamentale per poter rispondere efficacemente. Se non si fanno domande, se non si rielabora ciò che si sta discutendo, si finisce in scontri sordi, dispendiosi di energie cognitive ed emotive ma poverissimi di contenuto.
Il terzo consiglio è il silenzio: è fondamentale capire quando è meglio lasciar perdere, non replicare, non intervenire.
Infine è importante l’uso del congiuntivo invece dell’indicativo: cercare di dire le cose ammettendo che provengono dal proprio punto di vista (“a me risulta che le cose stiano così”) e non come se fossero la verità (“le cose stanno così”). Nel primo caso si tenderà a fornire ragioni, prove, motivi e si potrà discutere, nel secondo le affermazioni granitiche alimenteranno solo un “muro contro muro” privo di grande riflessione.
Venendo alla questione vaccini, quindi alla diatriba tra favorevoli e contrari, quali sono gli strumenti da adoperare per far cambiare idea a coloro con cui si discute?
Già rinunciare al “far cambiare idea” sarebbe un buon inizio: ci sono molte cose che si possono fare prima di arrivare alla idealistica e spesso irrealizzabile “conversione” dell’altro (che è ciò che alimenta lo scontro). Si può ad esempio far sorgere qualche dubbio, far notare ciò che manca, si possono riconoscere alcuni punti su cui l’altro ha ragione per evidenziarne invece quelli meno attendibili. Si può avere un atteggiamento per cui si ignorano volutamente le parti provocatorie per prendere in considerazione gli argomenti rilevanti. Insomma, c’è molto da fare.
In questo lavoro un po’ faticoso l’obiettivo più realistico, invece della disfatta dell’altro, può essere far riflettere chi assiste senza intervenire. Di solito in una discussione oltre ai pochi attivi (e spesso irruenti) c’è una moltitudine silenziosa di lettori che, proprio perché più riflessivi, non palesa le sue reazioni: direi che si dovrebbe pensare a loro.
Per quanto riguarda la figura del personale sanitario, come valuta la comunicazione che si è fatta intorno al loro ruolo? E, arrivando alla situazione presente, qual è il suo giudizio in merito alla narrazione della vicenda “medici no-vax”?
La crisi ci ha fatto ricordare quale ruolo fondamentale hanno medici, infermieri e personale sanitario in generale. Abbiamo visto che quando il gioco si fa duro sono professionisti in grado di dare il meglio di sé. Credo che il loro contatto costante con la malattia, con ciò che non funziona, li abbia resi la categoria più pronta a rispondere alla crisi. Non si può dire lo stesso di molte altre categorie professionali più concentrate su ciò che di solito funziona e deve funzionare (compresa la mia, quella dei comunicatori), che nella crisi hanno fatto qualche passo falso in più.
Per quanto riguarda i medici “no-vax”, che dicano ciò che pensano, ma che gli si risponda anche punto su punto nel merito. Se invece ci limitiamo a giustapporre visioni contrapposte tanto per creare l’ennesimo “ring spettacolare”, con all’angolo destro i pro-vax e al sinistro i no-vax, faremo forse visualizzazioni ed engagement, ma uno scarsissimo servizio ai cittadini.
Alla luce di quanto successo in questo 2020 quali sono i cambiamenti che si augurerebbe avvenissero nelle discussioni online?
Le discussioni vanno bene come sono: c’è da lavorare sui disputanti, cioè su quel Cittadino Informato Quanto Basta (CIQB) che oggi è al centro del sistema di comunicazione. In questa categoria rientriamo tutti e ognuno deve fare la sua parte. Dalle mosse online del CIQB dipende moltissimo, anche quando sono piccole e apparentemente ininfluenti, come un messaggio in una chat di Whatsapp, una condivisione o un commento sui social. La cura di ciò che è a portata del prossimo click (o tap sui touch screen) influisce sull’intera società in rete. Ci vuole senz’altro l’impegno politico e istituzionale, servono leggi sempre migliori e impegno da parte dei titolari delle piattaforme e dei player della rete, ma senza il contributo del CIQB l’infodemia è come la pandemia: si nutre anzitutto dei nostri comportamenti irresponsabili.
Immagine di D.R. Blume (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell’Arci.