Sabato 4 aprile il Labour Party ha comunicato i risultati ufficiali delle elezioni per leader e deputy leader. I risultati, in linea con le previsioni della vigilia, hanno visto prevalere rispettivamente Keir Starmer (56%) e Angela Rayner (42%, poi 53% al terzo turno dopo la redistribuzione dei voti agli sfidanti eliminati).
Starmer, chiamato dai genitori Keir in onore del fondatore del partito Keir Hardie, approdato solo da poco alla politica (2015) dopo una carriera da procuratore e noto come l’arcieuropeista ministro per la Brexit nel governo-ombra di Corbyn, ha battuto le rivali Rebecca Long-Bailey (corbyniana) e Lisa Nandy (più incline alle posizioni della classe operaia conservatrice).
La Rayner, invece, è una corbyniana convinta e la sua storia è un simbolo per le lotte dei laburisti: nata nel 1980 da una donna bipolare e analfabeta, cresciuta nella cintura di Manchester, lasciò la scuola dopo essere divenuta una ragazza madre a sedici anni. Il programma Sure Start istituito dal governo Blair le ha consentito di ottenere una qualifica professionale e un lavoro stabile.
Le scelte dei militanti laburisti sembrano insomma una correzione importante della rotta di Corbyn, ma non un ripudio delle sue aspirazioni. La nuova leadership dovrà orientare il Labour nella Gran Bretagna post-Brexit e, al contempo, alle prese con l’ondata di Covid-19.
Piergiorgio Desantis
Keir Starmer è il nuovo leader del Partito Laburista, prendendo il posto di Corbyn. Quest’ultimo era riuscito a riscaldare i cuori dei militanti e di un’ampia platea di giovani inglesi (e non solo). Con messaggi espliciti e riconoscibili di impegno sociale, di ricostruzione del profilo statuale nella (ri)costruzione e nazionalizzazione delle ferrovie, del sistema sanitario nazionale e con la vicinanza alla lotta del popolo palestinese ha solcato le tracce di una sinistra moderna e del lavoro. Dopo la sconfitta (non solo nei numerica) alle ultime elezioni ha avviato, tuttavia, un percorso di successione che ha portato all’elezione dell’avvocato Starmer. Sicuramente è un profilo più liberal, più filoeuropeo, più moderato anche in contrapposizione agli eccessi (politici e non solo) del primo ministro Boris Johnson. Al di là della dialettica interna al partito laburista, dove convivono varie anime della sinistra inglese, da quelle più a sinistra come Rebecca Long Bailey fino ancora a chi insegue Tony Blair ovvero il deputato scozzese Ian Murray (che ha raccolto davvero pochi consensi), sembra essere dinanzi a un partito ancora ricco di idee e di spunti di riflessione, in una parola vivo, pur se all’opposizione. Nulla è certo negli sviluppi della politica inglese, nelle alleanze e nella tenuta del governo Johnson; nonostante ciò, una cosa è certa: l’epoca del liberismo alla Tony Blair (figlio legittimo di Thatcher) è conclusa, finita. Dopo la crisi pandemica è assolutamente necessaria una politica di altro profilo rispetto a quella degli ultimi quarant’anni
Dmitrij Palagi
Quando la sinistra (di classe) perde, tende a guardare al lungo periodo. Le speranze nate attorno a Corbyn appaiono evaporate, ma ciò che ha saputo muovere in termini di militanza e narrazione può costituire un punto di tenuta. Il futuro ci dirà quale sia l’eredità di questa parentesi socialista vissuta dal Labour britannico. In attesa di vedere archiviata anche la stagione di Sanders, rimane la speranza di vedere una nuova generazione (declinata magari al femminile) prendere in mano la costruzione di una sinistra di alternativa all’altezza del XXI secolo. Questo avverrà solo se effettivamente nella società si è riusciti a costruire comunità consapevoli, attraverso una coscienza di classe assolutamente incompatibile con le attuali proposte avanzate per uscire dalla crisi legata al Covid-19. Inghilterra e Stati Uniti hanno occupato l’immaginazione della sinistra radicale occidentale. La povera esperienza greca sbatte sugli scogli, dimenticata e abbandonata. Inspiegabilmente l’esperienza di Spagna e Portogallo risulta avvolta dalla nebbia. Chi navigava guardando a Corbyn e Sanders ora rischia di non avere grandi riferimenti per orientarsi.
Basta guardare al lungo periodo è davvero magra consolazione, se si è puntato al breve periodo soprattutto. Perché richiede una strategia diversa, che quando si fa troppo astratta si rivela essere sempre giusta.
Jacopo Vannucchi
Questa è stata la terza elezione, dopo quella di Corbyn nel 2015 e il fallito tentativo di rimuoverlo nel 2016, in cui si è votato con le regole volute da Ed Miliband e basate sul principio “una testa, un voto”. L’elettorato del partito resta però diviso in tre gruppi distinti: gli iscritti (party members), i sostenitori registrati (registered supporters) e gli iscritti a organizzazioni affiliate al partito (affiliated supporters) – in maggioranza, sindacati. Starmer, come Corbyn, è stato eletto al primo turno senza la necessità di eliminare progressivamente altri candidati e redistribuirne i voti. In termini generali il suo consenso è comparabile a quello del predecessore: 251.000 voti ottenne Corbyn nel 2015, 313.000 nel 2016, 276.000 Starmer.
Ad essere cambiata è la composizione dell’elettorato.
Corbyn era fortissimo tra i registered supporters, grazie alla sua popolarità presso le fasce giovanili esterne al partito: vi ottenne l’84% (!) nel 2015 e il 70% nel 2016. Era invece significativamente più debole tra gli iscritti al partito, tra i quali raccolse rispettivamente poco meno del 50% nella prima elezione e il 59% nella seconda. In una posizione intermedia, invece, si collocava la sua popolarità tra gli affiliated supporters (58%; 60%).
Starmer si mantiene nella fascia di Corbyn per il consenso tra party members (56%) e registered supporters (79%), ma ci sono due punti di potenziale frattura.
Primo: il peso dei registered supporters, che era del 24% nel 2015 e del 23% nel 2016, è miseramente sceso quest’anno a meno del 3%.
Secondo: tra gli affiliated supporters, ossia di fatto tra chi vota in quanto iscritto a un sindacato, Starmer ha il 53% e Lisa Nandy è seconda con il 25%, superando la Long-Bailey.
Cosa significa questo? Che il Labour rischia una duplice divaricazione. Da un lato pare essersi, almeno temporaneamente, allontanato l’elettorato d’opinione, soprattutto giovanile, che aveva sostenuto Corbyn. Evidentemente non hanno giovato le polemiche dentro Momentum, l’organizzazione corbynista che invece di proporre ai suoi iscritti un voto a più scelte su chi sostenere ha chiesto loro di ratificare con un sì o un no la decisione della dirigenza di appoggiare la Long-Bailey. Dall’altro lato, dai sindacati, così colpiti alle scorse elezioni, non solo nell’immagine, dallo sgretolarsi della “muraglia rossa” che resisteva nell’Inghilterra del Nord da tre generazioni, emerge in tutta evidenza la richiesta di una politica sociale più johnsoniana, o, se si vuole usare un termine meno personalizzato, più populista. (Benché l’organizzazione populista interna, il Blue Labour, abbia respinto come insostenibili tutti i tre candidati, la Nandy pare aver di fatto rappresentato quell’area.)
La composizione del governo-ombra di Starmer sembra nascere per affrontare questi problemi. La Nandy ha ottenuto l’incarico degli Esteri, che sarà prezioso per ricucire con la comunità ebraica e con la classe operaia, gravemente infuriate dalla vicinanza di Corbyn a Hezbollah e all’IRA. Alla corrente di Nandy vanno anche gli incarichi per l’Irlanda del Nord e per la Sanità, importantissima proprio per le aree disagiate a cui Johnson ha promesso investimenti. All’area “blairiana” vanno il Commercio estero, il Galles e la Scozia (ma è scelta obbligata, visto che vi è stato nominato l’unico deputato laburista ormai eletto nella regione). L’area Corbyn ottiene l’Istruzione (a cui è confermata la Long-Bailey), le Politiche giovanili e coinvolgimento degli elettori e, non certo ultima, la Tutela dell’occupazione a cui viene significativamente nominato uno dei parlamentari che hanno sostenuto come viceleader non la Rayner ritenuta troppo moderata bensì il socialista intransigente Burgon.
Le altre cariche sono assegnate a sostenitori di Starmer, ma tra questi 17 ben 9 hanno appoggiato la Rayner come viceleader. Tra di essi anche il nome più di peso del nuovo governo-ombra, l’ex leader Ed Miliband, che torna come responsabile delle Attività produttive.
Alessandro Zabban
Ironia della sorte, i britannici anziani avevano votato in massa alle ultime elezioni Boris Johnson, lo stesso che sta mettendo seriamente a repentaglio la loro stessa sopravvivenza prendendo (o non prendendo) provvedimenti estremamente controversi per contrastare il Covid-19, facendo intendere a più riprese come la salvaguardia della loro vita non sia la priorità del governo. Ironia però che risulta molto amara e che ci obbliga a constatare la marginalità della cultura politica della sinistra nel campo del possibile contemporaneo, totalmente incapace di mettere le persone in grado di comprendere i propri interessi di classe. Non è un semplice problema di comunicazione (il Labour ha sicuramente esperti di marketing politico validi) ma un dato strutturale. Corbyn, proprio come il suo omologo americano Sanders, ha avuto la capacità di mobilitare vari settori della società, ma quelli marginali numericamente. La crisi del Covid-19 potrebbe rimettere al centro alcune delle idee di buon senso (ma che al giorno d’oggi sono percepite come radicali) di stampo corbyniano, ma a dirla tutta è molto più plausibile che almeno nel breve periodo assisteremo a un ulteriore assalto ai diritti sociali e del lavoro, nel nome del “sacrifico” invocato anche dalla sinistra “blairiana” e richiesto a tutti, ma che pagheranno sempre i soliti.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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