Nell’incipit delle Tesi su Feuerbach, vergate da Marx nella primavera 1845, si può leggere:
«Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, – è che l’oggetto [Gegenstand], il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto [Objekt] o di intuizione; ma non come attività sensibile umana, come attività pratica, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall’idealismo in contrasto col materialismo, – ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l’idealismo ignora come tale l’attività reale, sensibile».[1]
Questo duplice errore idealista-materialista è di forte evidenza nel Medioevo, in cui si incontrano due estremi, ciascuno dotato al contempo di potenzialità rivoluzionarie e di freni a un’azione pratica: gli spirituali francescani, che predicano la purificazione dei costumi tramite la povertà, condannano come lusso la stessa cultura e in ultima analisi ritengono che la società possa rinnovarsi solo portandosi, per mezzo di una mortificazione pauperistica, al di fuori di se stessa; l’aristotelismo radicale, conosciuto tramite l’arabo di Spagna Averroè, che con il proprio determinismo meccanicista se da un lato fonda una spiegazione razionale della fede e un’interpretazione naturalistica degli stessi miracoli[2] (che quindi cessano di essere tali) dall’altro coinvolge l’uomo in una catena di necessità che domina su ogni fenomeno universale, ivi incluso Dio stesso.[3]
Entrambi i movimenti furono soggetti a persecuzioni da parte della Chiesa ufficiale e in particolare l’averroismo fu il principale bersaglio polemico di Tommaso d’Aquino, l’integratore dell’aristotelismo nella scolastica cattolica.
Nel libro Averroè l’inquietante[4] lo studioso di filosofia araba Jean-Baptiste Brenet tenta di spiegarsi il duraturo odio latino verso l’averroismo ricorrendo agli strumenti della psicanalisi; la sua tesi è che l’averroismo costituisse un esempio di perturbante (Unheimlich) freudiano: in particolare, la dottrina secondo cui l’intelletto è esterno all’uomo avrebbe richiamato alla latinità europea come la sua cultura fosse la risultante di processi di acculturazione esogena.[5]
Ripercorrere tale dottrina e le sue implicazioni risulta tuttora illuminante per comprenderne, anche in un confronto con la moderna “società amministrata”, la portata rivoluzionaria, seppur limitata dai vizi del vecchio materialismo o, più alla radice, dallo sviluppo molto arretrato delle forze produttive, e quindi delle lotte di classe, del suo tempo.
L’intelletto esterno e le sue conseguenze
Nel pensiero aristotelico ogni sostanza, cioè ogni realtà esistente per se stessa, è strutturalmente un’unione – più precisamente, un sinolo (syn, con; holos, tutto) – di materia e forma. Materia e forma sono rispettivamente potenza e atto, ossia la facoltà di divenire qualcosa e l’essere divenuti qualcosa; dobbiamo intenderli non come due componenti distinti di un elemento binario (ad esempio, una vite e un dado che unendosi costituiscono un bullone) bensì come astrazioni che indicano due stadi concettuali di un unico essere.
Nel caso specifico dell’uomo, la materia sono i tessuti di cui l’uomo è fatto: la carne, le ossa, il sangue, i capelli, eccetera; la forma è invece costituita dall’anima. L’anima a sua volta è costituita secondo Aristotele da una materia, che è anima in potenza, e da una forma, che è anima in atto; materia e forma dell’anima sono, rispettivamente, l’intelletto materiale (o intelletto possibile) e l’intelletto agente.[6]
L’intelletto agente si appropria di, o per meglio dire produce i concetti universali astraendoli dalle immagini particolari (ad esempio, l’elaborazione del concetto di gatto a seguito della visione di tanti gatti particolari), mentre l’intelletto materiale riceve i concetti così prodotti e «costituisce propriamente il soggetto (nel significato medievale di sub-iectum: il sostrato) del pensiero».[7]
Ora, caratteristica dell’intelletto per Aristotele è la anorganicità, ovvero il non essere facoltà di alcun organo in particolare: se infatti ciò che viene ricevuto è ricevuto secondo le caratteristiche di chi lo riceve, l’esistenza di verità universali (ad esempio, il teorema di Pitagora) ricevute senza distinzione da tutti gli uomini non può che discendere dalla separatezza dell’intelletto rispetto agli organi particolari dell’individuo. Averroè portò alle estreme conseguenze la nozione aristotelica di separatezza, asserendo che l’intelletto è separato non dal corpo o dalle altre facoltà dell’anima mantenendosi però all’interno dell’uomo, bensì è separato dall’uomo come sostanza, è una sostanza esterna e non più, dunque, forma dell’anima.[8]
Come viene dunque prodotto, secondo Averroè, il pensiero umano? Tramite un accoppiamento (copulatio) tra due sostanze separate, ossia l’uomo e l’intelletto. Secondo gli antiaverroisti se la facoltà di pensare è propria della sostanza intelletto ne deriva necessariamente che l’uomo di per sé non pensa, ma, all’opposto, è pensato dall’intelletto.[9] L’uomo in quanto tale è cioè soltanto l’oggetto di un’azione compiuta su di lui da una sostanza esterna.
Averroè, in realtà, sembra affermare l’inverso, ossia che è l’uomo a fecondare l’intelletto il quale è sì esterno, ma serve solo come supporto per l’azione umana. In particolare, per produrre il pensiero è necessario che all’intelletto materiale, esterno all’uomo, si uniscano i «fantasmi», cioè le immagini particolari del mondo esterno che, anche senza elaborazione concettuale, permangono nella mente umana (al modo in cui, ad esempio, osservando una casa e successivamente chiudendo gli occhi siamo in grado di recuperare nella nostra mente l’immagine, il «fantasma» di quella casa). Dalla copulatio dei fantasmi con l’intelletto materiale viene così prodotto l’universale, il concetto.[10]
Secondo gli antiaverroisti, tuttavia, il fatto che l’uomo sia tale solo in quanto agito da una sostanza esterna ne fa per ciò stesso un uomo posseduto, tecnicamente un indemoniato. Si adatterebbero quindi all’essere umano le parole con cui nelle ultime profondità dell’Inferno si presenta allo stupefatto Dante l’anima di frate Alberigo, già morta e precipitata tra i dannati nonostante il suo corpo sia ancora animato nel mondo terreno.
«Oh!», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?»
Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea
nel mondo su, nulla scïenza porto.Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.E perché tu più volentier mi rade
le ’nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima tradecome fec’ïo, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso».«Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni.»«Nel fosso su», diss’el, «de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancor giunto Michel Zanche,che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ’l tradimento insieme con lui fece.[11]
Se dunque l’uomo è privato dall’intelletto, da cui è anzi letteralmente posseduto, gli resta come capacità solo quella fantasmatica, ossia la cogitatio, la produzione di immagini.[12]
La cogitazione viene cioè scissa dall’intellezione. Questa scissione viene più tardi abbracciata dagli stessi averroisti latini, che radicalizzano ulteriormente il pensiero di Averroè, proprio per meglio fondare la nozione di separazione dell’intelletto. Non è più sufficiente sostenere, come Averroè stesso, che il pensiero dell’uomo abbia due soggetti, i fantasmi prodotti dalla cogitazione e l’intelletto separato: bisogna affermare invece che l’intelletto è unito all’uomo per natura, sebbene in modo diverso dalla forma materiale inerente – ricordiamo, infatti, che l’intera dottrina della separatezza dell’intelletto è fondata sulla anorganicità di esso, cioè sulla sua non appartenenza ad un organo particolare del corpo individuale.
L’uomo, secondo l’averroista Giovanni di Jandun, non è cioè soltanto un corpo cogitante – cosa che lo renderebbe indissimile da un qualsiasi altro animale – bensì è un aggregato tra un corpo cogitante e un intelletto che gli è unito per natura.
In altre parole, bisogna ammettere che l’uomo ha due forme e costituisce sotto questo aspetto un unicum nel panorama universale. Questa soluzione, che può apparire una forzatura asistemica dell’aristotelismo, un’eccezione fuori orbita, risulta in realtà fondatissima sul piano concettuale proprio perché la natura dell’uomo è a cavallo tra il mondo animale, donde egli deriva la forma cogitativa, e il mondo spirituale, da cui gli deriva la forma intellettiva.[13]
L’uomo è al tempo stesso la più alta delle specie animali e la più bassa delle specie spirituali; se è così, il fatto che egli mantenga entrambe le forme di queste specie non solo non può apparire uno scandalo, ma, al contrario, ne è meramente il logico corollario.
L’antiaverroismo non è convinto da questa soluzione: essa dilanierebbe terribilmente l’uomo; nello specifico, l’uomo sarebbe un mostro a due teste, ciascuna delle quali con funzioni separate. Lo homo cogitans, l’uomo che sente, è strutturalmente separato dallo homo intelligens, l’uomo che pensa.
Un «uomo duplice, in regime di due umanità: una fondamentale, quotidiana, ma più povera, quella della sensazione, fondata sulla cogitativa; l’altra, tarda e spasmodica, simile a una fiamma tremolante, l’umanità del pensiero scaturito dall’innesto di un principio intellettuale estrinseco».[14]
Averroè e l’oggi
Pulsioni e comportamento individuali
Questa scissione dell’uomo, questa mostruosa deformità bicefala, è respinta con orrore dalla latinità tomistica. Ma non corrisponde, al contrario, alla più piena e vera realtà? Non è cioè forse vero che l’uomo ha una duplice natura?
La compresenza nell’uomo di istinto animale selvaggio e di pura astrazione razionale è stata immortalata da Platone con la figura dell’auriga: «in noi l’auriga guida un carro a due cavalli; inoltre, dei due cavalli, uno è bello e buono e derivante da belli e buoni; l’altro invece, deriva da opposti ed è opposto».[15]
La descrizione diventa ancora più eloquente: il cavallo buono «di forma lineare e ben strutturato, dal collo retto con narici adunche, bianco a vedersi e con gli occhi neri, amante di onore con temperanza e con rispetto e amico di retta opinione, non richiede la frusta e lo si guida soltanto con il segnale di comando e con la parola», mentre l’opposto del buono «è invece storto, grosso, mal formato, di dura cervice, di collo massiccio, di naso schiacciato, di pelo nero, di occhi grigi, iniettati di sangue, amico della protervia e dell’impostura, villoso intorno alle orecchie, sordo, a stento ubbidisce a una frusta fornita di pungoli».[16]
Come evidente dagli strumenti necessari per governare i due cavalli – l’uno “lo si guida soltanto con la parola”, l’altro “a stento ubbidisce alla frusta” – essi sono in rapporti opposti con le brutalità della vita animale: di fronte all’immagine della persona amata il cavallo ubbidiente è «tenuto a freno allora come sempre dal pudore», mentre l’altro «si lancia con balzi violenti».[17]
Il tema di questa duplice pulsione presente nell’uomo – o, per meglio dire, di una arcaica pulsione evolutiva di fondo a cui fa da contraltare un’autodisciplina necessaria alla socialità – è stato ritratto letterariamente nel modo più illustre da Robert Louis Stevenson nella figura dello stimato Dottor Jekyll che si tramuta nel selvaggio, bestiale Mister Hyde.
Né si tratta solo di artifici letterari: Giancarlo Vigorelli ha ricordato la duplice personalità di Pasolini, in cui dalle sette di sera al lucido intellettuale critico si sostituiva uno spericolato frequentatore dei bassifondi.
Valori sociali estrinseci
Ancora, Averroè impiega l’analogia dell’immagine che si riflette nello specchio per spiegare come l’uomo conosca istantaneamente l’universale, senza alterazioni, non appena gli si presenta alla mente l’immagine del particolare.
Tommaso d’Aquino invece piega questo mezzo retorico per affermare che, se il pensiero è nello specchio, è al di fuori dell’uomo: «In che modo questo riflesso può far sì che l’uomo pensi? In nessun modo. Il fatto che l’intelletto separato sia per me quello che uno specchio è per l’oggetto che riflette non garantisce la mia razionalità, poiché l’atto dello specchio, il riflettere, non è opera di ciò che lo specchio mostra. Nell’intelletto sono forse io ad apparire, ma l’atto stesso che mi fa apparire elevandomi non è mio. Io sono soltanto il riflesso, non il riflettente».[18]
Questo rapporto tra l’intelletto singolare intrinseco e un pensiero estrinseco che si riversa sui singoli erga omnes è di scottante attualità, oltre che di grande importanza sul piano storico, nel momento in cui la cappa di alcuni valori sociali condivisi (o, se si vuole, imposti dalle istituzioni) salta, svelando la distanza tra quei valori estrinseci e la pulsione distruttrice dei singoli. In concreto, come ha riconosciuto la sen. Segre, l’antisemitismo c’è sempre stato, ma emerge quando si presenta «il momento politico per tirar[lo] fuori».[19]
Ancora una volta ciò che Tommaso si intesta di respingere come assurdo è esattamente il corrente funzionamento della società.
Volontà collettiva e psicologia delle masse
Nel trattare il carattere Unheimlich del monopsichismo Brenet osserva che insieme ad esso l’antiaverroismo respingeva l’equazione assurda fra una cosa e il suo contrario: se infatti l’intelletto è unico per tutti gli uomini, allora, dato che gli uomini pensano cose diverse e talvolta opposte, questo intelletto unico non soggiace al principio di non contraddizione e afferma invece che A = non A.
La trasmissione del pensiero monopsichico a tutti gli uomini è affrontata da Brenet facendo ricorso ad alcune considerazioni di Freud sulla telepatia.
In particolare, se vogliamo riagganciarci al tema dell’antisemitismo e quindi alle ragioni del successo del Partito nazionalsocialista nel somministrare la propria cisterna di menzogne al popolo tedesco, risultano interessanti le seguenti riflessioni: dice Freud che «È noto che rimane un mistero come venga a formarsi la volontà collettiva in grandi comunità di insetti», e che nulla vieta di pensare a trasmissioni telepatiche, che negli organismi più sviluppati siano poi state sostituite dalla comunicazione fisica e orale e dal linguaggio; tuttavia «chissà che il metodo più antico non sia rimasto nello sfondo e si affermi ancora in certe condizioni, per esempio nel caso di una folla eccitata dalle passioni»[20], o, per usare il termine di Brenet, «dall’entusiasmo»[21] «di una massa affettivamente esaltata, nella quale s’inibisce la personalità cosciente e viene meno l’autonomia dell’individuo».[22] Per Freud questa massa è «la continuazione dell’orda primordiale»[23], ma ancor più significativo è il fatto che, a suo stesso giudizio, l’orda di Homo sapiens è psichicamente indistinguibile da forme di vita notevolmente inferiori, da una “grande comunità di insetti”.
È interessante notare come a questo proposito vi sia una figura cinematografica d’eccezione: l’inquietante Baubau di Nightmare Before Christmas, un mostro in apparenza quasi onnipotente, pervaso da un sadismo grottesco, pantagruelico, ma che si rivela nient’altro che un’enorme ammucchiata di insetti cucita in un sacco di juta.
Chi è il soggetto del pensiero?
Secondo Averroè fra l’intelletto agente in quanto sostanza esterna e l’uomo che per mezzo di esso pensa vi è un rapporto non soltanto gnoseologico, ma eminentemente ontologico. Infatti, unendosi all’intelletto agente l’uomo ne riceve la forma, e l’atto del pensiero è proporzionato alla misura in cui si è informati dall’intelletto agente. Il filosofo, quindi, è colui che compie un cammino progressivo verso la totale identificazione formale con l’intelletto agente, ossia – in altri termini – verso la spersonalizzazione di sé.
Questo percorso è di estremo interesse poiché, da un lato, richiama la concezione hegeliana di libertà come necessaria autorealizzazione dello Spirito, ma, al contrario che in Hegel, qui l’uomo non giunge a una maggiore perfezione, bensì, all’inverso, a spogliarsi di ogni imperfezione per essere dissolto in una sostanza superiore.
Non solo: poiché l’intelletto come sostanza precede l’esistenza dei singoli, il pensiero di ciascun uomo nella sua esistenza singolare è già totalmente dato fin dalla nascita: nell’esposizione di Brenet, «Ogni uomo nasce esaurito […]. Compiuto fin da subito, conosce l’assurdo di vivere la vita come la fine di una partita che non ha avuto luogo».[24]
Questa immagine, in cui l’uomo è soltanto uno spettatore della propria vita, e per giunta inconsapevole di avere solo e soltanto tale ruolo di passività, richiama la sensazione descritta nei primi anni del Novecento da un bracciante tedesco, Franz Rebhein, dopo essere entrato in contatto per la prima volta con la stampa socialista: quelle pubblicazioni parlavano della condizione sociale sua e della gente come lui «in un modo così vivo e vero che ne fui sbalordito. Era come se prima fossi vissuto con gli occhi chiusi. Accidenti, quello che scrivevano su quei giornali era la verità. Tutta la mia vita fino a quel giorno ne era una prova».[25]
È come se l’averroismo, avendo osservato la vita naturale della società civile che trovava sotto i propri occhi, avesse, con l’errore che Rousseau rimproverò a Hobbes, ipostatizzato la passività di quella società civile nella generale passività naturale del mondo.
Tornando dunque alla tesi marxiana posta in apertura, né il materialismo averroistico né l’idealismo sembrano garantire un posto per un’attività umana reale. Ma specularmente, proprio come l’idealismo ha fornito strumenti che, quando capovolti verso la realtà (celebre l’immagine marxiana della dialettica hegeliana che cammina sulla testa), formano parte costituente del materialismo storico, così l’analogo può dirsi del vecchio materialismo.
Ciò è evidente soprattutto nel luogo ove Averroè spiega che la materia tende non alla sua forma specifica, come proponeva Aristotele, bensì alla forma per eccellenza, quella di Dio. Impossibilitata ad unirsi immediatamente a questa forma, la materia passa attraverso l’appetito per una serie di forme inferiori che però non possono fornire validi surrogati e di cui quindi la materia stessa si priva, abbandonando quell’unione per conseguirne un’altra:
«la morte dell’individuo manifesta la “vita” generale della materia come potenza di tutte le altre forme possibili. Il thanatos dell’ente è l’eros di questa materia globale. […] la ripetizione del Pensiero non esprime un desiderio di ritorno all’anorganico, cioè alla morte, ma il desiderio di aggirare, di eliminare l’ostacolo rappresentato dal limite insignificante della vita individuale».[26]
Al di là delle consonanze con la figura hegeliana della coscienza infelice, il concetto qui espresso rimanda alle pagine di Feuerbach in cui la creazione dell’idea di Dio da parte dell’uomo è ricondotta al sentimento umano di impotenza di fronte alla natura e all’alienazione in Dio delle qualità che l’uomo non sente di poter trovare in se stesso. Ma non solo: «Un principio tipicamente averroistico: la persona non conta. Nessuno è giustificato in quanto persona, in particolare. […] L’uomo è morto, viva l’Uomo! È questo il messaggio che si sente nell’eternità dell’intelletto».[27]
Il modo in cui il marxismo si confronta con questi concetti è ricco di spunti e di implicazioni.
Anzitutto, l’idea che “nessuno è giustificato in particolare” è un aspetto del nucleo dell’antropologia di Marx ed Engels, e quindi della loro spietata critica al socialismo che appunto chiamarono utopistico: se nel 1873 Marx rivendica di non aver prescritto «ricette […] per l’osteria dell’avvenire»[28], ciò è perché già nel 1848 assieme ad Engels aveva osservato in qual modo fallimentare per gli utopisti «al posto dell’attività sociale deve subentrare la loro attività inventiva personale; al posto delle condizioni storiche per l’emancipazione, condizioni fantastiche; al posto della graduale organizzazione del proletariato in classe, un’organizzazione della società appositamente ideata»[29], per cercare di applicare la quale essi sono costretti «necessariamente a scindere la società in due parti, una delle quali sta al di sopra della società»[30], come rilevato già nelle Tesi del 1845.
Infatti, poiché «l’insieme del processo di produzione […] appare all’individuo isolato come un insieme di leggi economiche “naturali” estranee alla sua volontà […] rinchiusa nel circolo vizioso “uomo-circostanze”, l’ideologia della borghesia rivoluzionaria non può sfuggire al determinismo meccanico se non facendo appello a un essere “superiore”, capace di spezzare, dall’esterno, l’ingranaggio sociale».[31] Dapprima idealizzato in archetipi demiurgici (il Principe di Machiavelli, il Sovrano di Hobbes, il Legislatore di Rousseau), poi via via identificato in uomini particolari (Cromwell, Robespierre, Napoleone) questo eroe mitico è in realtà esso stesso il prodotto di circostanze storiche e quindi, nei termini di Brenet, mai giustificato in quanto singolo.
Ma c’è di più. Nell’Ideologia tedesca Marx ed Engels non si limitano a denunciare il perdurante idealismo degli hegeliani di sinistra, a fondare un’antropologia imperniata sul lavoro, a definire il comunismo non un ideale ma un movimento reale. Essi altresì coniano una definizione di ideologia come falsa coscienza, ma poiché «la coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita»[32] allora essa è sempre e comunque l’espressione «apparentemente dell’individuo isolato, in realtà di ceppi e barriere molto empirici entro i quali si muovono il modo di produzione della vita e la forma di relazioni che vi è connessa».[33]
In altri termini, l’individuo non pensa, ma è pensato dal sistema di relazioni sociali. Ed è pensato a un punto tale che gli uomini «produc[o]no i loro atti storici e li compi[o]no con coscienza. Ma – come viene sottolineato da Engels in una lettera a Mehring – si tratta di una falsa coscienza»; non solo, ma addirittura la coscienza «soggettivamente fallisce gli scopi che essa stessa si è posta e contemporaneamente […] promuove e raggiunge gli scopi oggettivi dello sviluppo sociale che le sono ignoti e che non sono da essa voluti». Tanto che per comprendere la storia dell’uomo non è sufficiente «limitarsi alla pura e semplice descrizione di ciò che gli uomini, sotto certe condizioni storiche, hanno di fatto pensato, sentito e voluto», bensì è necessario chiedersi quale coscienza «gli uomini avrebbero avuto in una determinata situazione di vita, se fossero stati in grado di cogliere pienamente questa situazione».[34]
Dissipata dunque l’illusione tomistica e in generale idealistica di un individuo pienamente libero nell’arbitrio e pienamente padrone di sé e del proprio pensiero, in che rapporto troviamo l’uomo con l’Uomo? Alla conclusione del percorso di autorealizzazione umano non sta l’annullamento del singolo in Dio come vertice della necessità del mondo, ma la «reale appropriazione dell’esistenza umana da parte dell’uomo e per l’uomo; in quanto ritorno completo, divenuto cosciente, attuato all’interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico precedente, dell’uomo per sé come uomo sociale, ossia umano», nella quale troviamo «la vera soluzione del conflitto tra esistenza ed essenza, tra oggettivazione e autoaffermazione, tra libertà e necessità, tra individuo e genere».[35]
Così Marx nei Manoscritti del 1844 definisce il comunismo. Il rapporto con il vecchio materialismo averroistico è dunque chiarito fino ai massimi livelli dell’esito compiuto della storia: se è vero che l’individuo non ha una dignità ontologica autosussistente rispetto al genere umano, al tempo stesso il singolo non viene fagocitato dalla totalità, bensì entrambi trovano il loro compimento nella reciproca armonizzazione generata da «tutta la ricchezza dello sviluppo storico precedente».
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K. Marx, Le opere che hanno cambiato il mondo, Newton Compton, Roma 2011, p. 142. ↑
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F. Caldera, L’aristotelismo radicale e le reazioni dei teologi, in U. Eco (a cura di), Il Medioevo, Federico Motta Editore, Milano 2009, vol. 8, pp. 106-123. ↑
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N. Abbagnano, Storia della filosofia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2006, vol. 2, § 243, pp. 77-81. ↑
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J. Brenet, Averroès l’inquiétant, Les Belles Lettres, Paris 2015; tr. it. Averroè l’inquietante. L’Europa e il pensiero arabo, Carocci editore, Roma 2019. ↑
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Ivi, p. 10. ↑
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J. Brenet, Op. cit., pp. 27-28. ↑
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Ivi, p. 29. ↑
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Ivi, p. 26. ↑
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Ivi, p. 43. ↑
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Ivi, p. 42. ↑
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Inferno XXXIII, 121-147. ↑
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Ivi, pp. 53-54. ↑
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Ivi, p. 61. ↑
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Platone, Fedro, Bompiani, Milano 2000, 3° ed. 2006, p. 107 (a cura di G. Reale). ↑
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S. Freud, Sogno e occultismo, in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1977, vol. 11, p. 168; cit. in Brenet, p. 80. ↑
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J. Brenet, Op. cit., p. 80. ↑
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S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Id., Opere, cit., vol. 9, p. 311; cit. in Brenet, p. 82. ↑
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J. Brenet, Op. cit., p. 91. ↑
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Cit. in E. Hobsbawm, L’Età degli imperi. 1875-1914, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 131. ↑
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J. Brenet, Op. cit., pp. 95-96. ↑
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Ibidem. ↑
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K. Marx, “Poscritto alla seconda edizione”, in Id., Il capitale, Newton Compton, Roma 2015, p. 47. ↑
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K. Marx, Le opere che hanno cambiato il mondo, cit., p. 349. ↑
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Ivi, p. 143. ↑
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M. Löwy, Il giovane Marx, Massari Editore, Bolsena (VT) 2011, pp. 35-36. ↑
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K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca, cap. II; https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia/capitolo_II.html ↑
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Ivi. ↑
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K. Marx, “Proprietà privata e comunismo”, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Id., Le opere che hanno cambiato il mondo, cit., p. 103. ↑
Immagine: Lippo Memmi e Francesco Traini, Trionfo di S. Tommaso d’Aquino, 1363, dettaglio con Averroè
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.