La significativa avanzata delle destre xenofobe e razziste in Italia (e non solo) emerge da un dato dell’indagine svolta da Eurispes: ben il 15,6% degli italiani intervistati ritiene che la Shoah non sia mai esistita. Come siamo arrivati a questo punto? È possibile invertire la tendenza? Di chi è la colpa? A queste e ad altre domande risponde il Dieci mani di questa settimana.
Leonardo Croatto
L’antisemitismo ha una storia antichissima ed un radicamento culturale molto forte, l’odio per gli ebrei si alimenta di miti che sembrano impossibili da annientare. In questo senso, il dato che stupisce non è quello di oggi, ma quello del 2004: che il 97% della popolazione italiana avesse assunto coscienza dell’avvenuto sterminio degli ebrei (e non solo) per mano di nazisti e fascisti è francamente molto poco credibile. I dati che mostrano una presunta crescita di forme di negazionismo sono forse più facilmente spiegabili immaginando che oggi sia più facile esprimere il proprio antisemitismo più estremo: a fronte di una fetta di popolazione che dichiara di non credere all’olocausto (15%) o che afferma che il numero di vittime dell’olocausto sia gonfiato (16%) in grande crescita rispetto al 2004, dai dati riportati sembra che circa un quarto della popolazione italiana si porti dietro tutti i vecchi e ben noti stereotipi legati al mito del pericolo giudaico (gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario per il 24% del campione, gli ebrei controllerebbero i mezzi d’informazione per il 22% del campione, gli ebrei determinano le scelte politiche americane per il 26% del campione) e che questi numeri siano più o meno omogenei con quelli dell’indagine del 2004.
L’impressione, insomma, è che la quota di popolazione che ha assunto il mito della congiura ebraica ai danni dell’umanità sia – purtroppo – ben stabile nel tempo. Molto più complicato è capire – a fronte della longevità e resilienza di certi miti – quali dispositivi si possano mettere in campo per disarticolare certe narrazioni, ma certo ridurre i finanziamenti alla scuola pubblica, come accade da decenni, non aiuta ad affrontare questi problemi.
Piergiorgio Desantis
Gli italiani non sono un popolo razzista, come sembra narrarci il dato emerso dall’indagine Eurispes, tutt’altro. Storicamente, l’Italia è stata terra feconda di commerci, di migrazioni, di integrazione e di accoglienza, di scambi economici e culturali. Il popolo italiano è autenticamente un crogiuolo di razze e culture più disparate ed è profondamente stupido non conoscere o, peggio, opporsi alla migliore storia e tradizione dei popoli. Nonostante ciò, emergono segnali sempre più preoccupanti dovuti da un lato alla crisi (non solo economica) ma anche al senso di insicurezza diffuso che, prevalentemente, è ben oltre la realtà effettiva. È ormai acclarato che sono le periferie delle grandi metropoli italiane che soffrono le condizioni più difficili dovute alla mancanza o alla precarietà del lavoro, alle volte, complicate integrazioni, spesso volutamente osteggiate da un ceto politico miope e dal ristretto orizzonte.
Eppure non c’è solo questo ma anche il cedere, ormai in modo sempre più evidente, di tutti i corpi intermedi che hanno permesso la crescita, lo sviluppo e la coesione in Italia (nonostante tutto). L’associazionismo sempre più in difficoltà, addirittura la Chiesa cattolica, con la sua grande tradizione secolare, che sconta un grande momento di complessità, indicano una realtà sociale sempre più scomposta e atomizzata, preda di un perdente individualismo frutto degli animal spirits del vincente capitalismo più spinto. Eppure, molti italiani continuano a accogliere e aiutare esseri umani italiani (e non solo) in difficoltà e ciò continua a essere la più grande speranza per il nostro futuro. Per invertire queste dolorose tendenze sono necessarie politiche progressiste, che determinino una necessaria redistribuzione delle risorse, una riduzione delle diseguaglianze e la possibilità di immaginare un futuro di dignità e di prosperità per le famiglie degli italiani.
Dmitrij Palagi
Venti anni di giornata della memoria e venti anni in cui il razzismo non ha registrato una sempre maggiore marginalizzazione dalla società. Perché la memoria deve vivere nel presente, altrimenti diventa una vuota cornice, sovrapponendosi con un passato incapace di rinnovarsi, destinato a essere superato, che ricorre a quel che è stato per conservarsi. Con il succedersi delle generazioni gli episodi mutano il loro significato all’interno delle società.
L’ANPI ha provato a ripensare il suo ruolo, anche perché non è purtroppo troppo lontano il periodo in cui non avrà tra le persone aderenti partigiane e partigiani. Verrà sempre più accusata di non avere motivo di esistere. Lo si sente negli interventi di quasi tutte le forze politiche, dai moderati del centro al Movimento 5 Stelle (per non parlare delle destre). In questo senso Israele pare essere l’unico soggetto non individuale titolato a difendere la questione ebraica. La Shoah invece appartiene all’Europa, o meglio dovrebbe essere quotidiano esercizio di timore per le diverse popolazioni del vecchio continente. Come è stato possibile? Che cos’è quel male assoluto a cui pure la Arendt diceva che non si può rispondere accettando il male minore? In tempi di crisi economica e politica può non stupire il dato sul rafforzarsi del negazionismo. Resta però una questione che prescinde anche dalle rilevazioni numeriche: a chi interessa davvero la memoria e chi ha un senso della storia tale da immaginare le conseguenze del proprio agire su un periodo più lungo della settimana? Perché viviamo in un Paese dove Repubblica di Salò e Resistenza accorciano le distanze, al pari di campi di concentramento e foibe. Con l’avvallo di troppe parti.
Jacopo Vannucchi
Se oggi i negazionisti della Shoah rilevati dai sondaggi sono il 15,6% e nel 2004 erano il 2,7% ciò non significa che in sedici anni siano aumentati i negazionisti. Sono aumentati coloro che si dichiarano tali, che non è una sfumatura insignificante. Risulta difficile, infatti, pensare che nel 2004 il 97,3% degli italiani fosse saldamente consapevole dei crimini nazisti (e tantomeno antinazista).
Certamente un dato rilevante è cambiato: gli atti di antisemitismo e di aggressioni nazifasciste sono più frequenti. Il fenomeno, fino a qualche anno fa ancora nascosto, è tornato in superficie. Responsabilità non indifferenti vengono dalla classe politica. Nel 2003 il deputato Antonio Serena (Alleanza nazionale) inviò a tutti i colleghi un VHS apologetico di Erich Priebke, l’ex ufficiale delle SS condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Di conseguenza fu immediatamente espulso dal gruppo parlamentare.
Oggi, invece, i contenuti fascisti sono diventati propri non solo della proposta politica, ma dell’azione stessa della destra italiana: la citofonata di Salvini sembra la prova dei «rastrellamenti» chiesti nel 2015 da Francesco Sicignano, che con una revolverata uccise un ladro disarmato. La Meloni, che rispetto a Salvini può sembrare quella seria, chiese l’affondamento delle navi che salvavano i naufraghi nel Mediterraneo. Quanto a Forza Italia, come dimenticare i continui apprezzamenti di Berlusconi e Tajani nei confronti dell’opera di Mussolini, con tanto di negazionismo? «Mussolini non ha mai ucciso nessuno, mandava gli oppositori in vacanza al confino» disse l’allora Presidente del Consiglio nel 2003. (Sicignano, non per niente, è stato candidato proprio con Forza Italia.)
L’influenza del fascismo nella vita politica italiana non è mai scomparsa: Presidenti della Repubblica sono stati eletti col voto determinante del Msi (Segni nel 1962 e Leone nel 1971) e già nel 1953 Andreotti abbracciò sul palco di un comizio dc il criminale di guerra Graziani, massacratore di etiopi e di partigiani. La differenza con allora è tutta, però, nelle forme. Andreotti invitò Graziani ma gli fece presente che un voto al Msi era un favore al Pci; quanto alle trattative quirinalizie con i neofascisti, la Dc le faceva, è vero, ma sottobanco, perché se ne vergognava. Anche i settori più a destra della Dc erano consapevoli, per quanto potessero spiacersene, che il fascismo era una strada che non si poteva più imboccare.
Oggi queste condizioni di contenimento sono venute meno.
Ma ciò non significa che ci sia oggi nella società più o meno fascismo. Qualche tempo fa fece scalpore un sondaggio Bidimedia che, rilevando il consenso odierno ai partiti del 1983, mostrava il Msi al primo posto con il 19,6% [leggi qui]. Il massimo storico reale era stato, nel 1972, l’8,2%: ma era noto già allora che molti fascisti avevano trovato asilo nella Dc o nel Psdi, esattamente come successo, del resto, in Germania con la Cdu o in Austria con i liberali, i popolari e in alcuni casi persino i socialdemocratici. Il 42% dei tedeschi pensa che «gli ebrei parlano ancora troppo dell’Olocausto» [leggi qui]: una posizione già presente da tempo nella popolazione, come ricordato negli anni Sessanta da una corrispondente di Primo Levi [leggi qui]. Questa percentuale sale in Polonia al 74% [leggi qui]. Sono evidenti le conseguenze della scomparsa della diga sovietica, così come la necessità di un nuovo antifascismo di massa.
Alessandro Zabban
Il preoccupante diffondersi in società di tesi e idee antisemite e negazioniste è a mio parere collegabile ad almeno tre distinte trasformazioni culturali o politiche.
La prima di queste è la capacità di una destra xenofoba e razzista di riuscire a catalizzare il risentimento popolare rispetto al fallimento planetario delle politiche neoliberiste. Le narrazioni tossiche di questa destra sono estremamente popolari e, nutrendosi di vecchi stereotipi e di un immaginario autoritario, tendono a relativizzare le barbarie naziste e riportare in auge forme di antisemitismo che sembravano meri retaggi del passato.
La seconda è la più generale tendenza a equiparare antisemitismo e antisionismo. Si tratta di uno strumento ideologico caro alle élite liberali di destra e di sinistra per legittimare le politiche di Israele nei confronti del popolo palestinese ed è anche una sciocchezza enorme. Occorre ribadire che criticare l’ideologia che muove le azioni del governo israeliano non coincide affatto con l’odiare gli ebrei in quanto tali (non a caso, esistono non pochi ebrei che si sono definiti antisionisti). Se manca uno strumento concettuale in grado di separare fra due atteggiamenti morali e politici così distanti, si rischia come effetto collaterale di rafforzare un odio indiscriminato, che colpisce gli ebrei in quanto tali.
La terza trasformazione, anch’essa di natura ideologica e culturale, riguarda la demonizzazione del comunismo che ha avuto particolare fortuna in Occidente dopo la caduta del Muro di Berlino e in particolare l’equiparazione fra nazismo e comunismo che sembra andare sempre più di moda. La follia di equiparare una ideologia che aveva inscritto nelle sue logiche profonde lo sterminio sistematico di ebrei, omosessuali, sinti e rom con una visione del mondo che ha caratterizzato in maniera estremamente variegata la storia di molteplici popoli, nazioni e culture in un arco di tempo secolare, risponde all’esigenza reazionaria di definire il capitalismo come il migliore sistema possibile. Ma anch’esso ha un grosso effetto collaterale che è quello di relativizzare i crimini nazisti: se Lenin o Castro non sono dissimili da Himmler o Göring, la parola nazismo non fa più tanto orrore.
Combattere l’antisemitismo e il negazionismo, significa combattere le idee dell’estrema destra ma dovrebbe significare anche opporsi con forza all’ideologia delle classi dominanti che pur di provare a legittimare la loro posizione di dominazione non esitano a gettare benzina sul fuoco dell’intolleranza, del nazionalismo e del neonazismo.
Immagine da www.flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.