Da anni ormai il mercato propone itinerari turistici alternativi che mettono al centro l’etica e il rispetto del territorio, promuovendo un modello di viaggio ecologico, che non impatta negativamente sull’ambiente e sulla comunità.
Nonostante l’aumento della sensibilità del viaggiatore medio siamo ben lontani dall’obiettivo di un turismo etico; troppo spesso si ignora infatti che un turismo responsabile non è solo quello che rispetta la natura, ma è anche un turismo che rispetta l’etica dei lavoratori: paghe eque, contratti regolari, giorni di riposo e malattia garantiti.
Il turismo, come la logistica e il lavoro agricolo, è infatti un settore economico vulnerabile allo sfruttamento lavorativo, dove lavori stressanti e faticosi, turni massacranti, ferie non garantite, straordinari pagati in nero sono la norma: il legame tra sfruttamento dei lavoratori e turismo è quasi strutturale / endemico.
Lo sfruttamento lavorativo nel campo turistico acquisisce valenza di vera e propria colonizzazione da parte delle multinazionali del settore quando la meta del viaggio è un paese del terzo mondo (il fenomeno della “fuga di reddito” – leackcage[i]). In misura minore, anche le mete turistiche “occidentali” non sono da meno: Ibiza, Rimini, Santorini… innumerevoli sono i casi di sfruttamento e di lavoro para-schiavistico, soprattutto tra i lavoratori stagionali dei servizi (camerieri di sala e ai piani, receptionist, baristi, animatori etc.).
Spesso però questi casi passano inosservati al grande pubblico, alle istituzioni e agli stessi turisti che usufruiscono di questi servizi.
In Spagna, secondo paese Europeo dopo la Francia per numero di turisti (il turismo contribuisce a circa il 11% del PIL nazionale) le cameriere ai piani hanno costituito un collettivo chiamato “las Kellys”, al fine di uscire dall’invisibilità e rivendicare i propri diritti di lavoratrici e di donne rispetto a un lavoro sottopagato e degradante dal punto di vista psico-fisico.
Le battaglie delle Kellys, acronimo inglesizzato di “la que limpia” (colei che pulisce), sono iniziate da un gruppo Facebook nel 2014 (ma si sono presentate ufficialmente come collettivo solo nel 2016) come reazione alla modifica dello statuto dei lavoratori del 2012, che ha favorito l’esternalizzazione del lavoro delle cameriere ai piani. Poiché la maggior parte delle lavoratrici del settore sono donne, la loro lotta unisce le rivendicazioni sindacali a quelle femministe, introducendo l’ottica di genere nelle relazioni industriali.
Dalle Baleari alle Canarie passando per Barcellona, negli anni si sono moltiplicate le rivendicazioni e i gruppi locali legati alle Kellys, riuscendo a creare un movimento sindacale in un settore altamente precario e in un’epoca di crisi dei diritti del lavoro. Le Kellys rivendicano in particolar modo la questione dello stress lavorativo, in quanto troppo spesso soffrono di ansia e depressione, dovuta ai ritmi intensi e alla degradazione del loro lavoro.
Infatti le Kelly si ritrovano a dover sfidare molteplici autorità: quella delle istituzioni (per la stabilizzazione del loro lavoro), del datore di lavoro (da cui dipende lo stipendio) e quella dei clienti (che pagando esigono un servizio). In particolare, la proprietà dell’hotel e i clienti contribuiscono alla valutazione e al controllo sul lavoratore stesso.
Il 24 e il 25 di agosto di quest’anno le Kellys hanno indetto uno sciopero di 72 ore ad Ibiza e Formentera, al fine di far valere le loro voci in piena stagione turistica; in questa occasione è apparso lampante come gli abusi non provengano solo dai datori di lavoro, ma anche dai clienti stessi: un turista si è sentito libero di aggredire una scioperante perché il trambusto delle proteste disturbava il figlio.
Anche in Italia la situazione non è migliore: lo sfruttamento e il lavoro grigio sono una prassi comune, sopratutto nelle località balneari; un fenomeno così allarmante da far addirittura intervenire il vaticano, che ha lanciato un allarme sullo sfruttamento lavorativo nel settore turistico, in vista della giornata mondiale del turismo il prossimo 27 settembre.
Casi di cronaca come quello di Gabicce, dove la mancanza di personale viene fatta passare per giovani scansafatiche e senza voglia di lavorare (colpa del reddito di cittadinanza!), fa comprendere come si è ancora distanti dal far emergere il problema dello sfruttamento lavorativo nel settore turistico.
Anche se sembra non esserci una presa di coscienza forte da parte dell’opinione pubblica, alcuni collettivi e sigle sindacali si sono mossi per sensibilizzare ed aiutare i lavoratori stagionali. Eppure sono ancora molti a ritenere che la disoccupazione dovrebbe essere una scusa sufficiente a giustificare il lavoro paraschiavistico, a far accettare a del personale, per di più qualificato, stipendi da fame del tutto sproporzionati rispetto alla mole di lavoro. Quello che manca sembra essere una sensibilizzazione dell’opinione pubblica in materia sindacale, anche da parte dei lavoratori stessi; spesso a ricoprire questi ruoli sono infatti giovani alle prime esperienze lavorative e/o migranti, che non hanno ancora una formazione in tal senso.
E se prendessimo esempio dalle Kellys?
[i] la maggior parte delle entrate economiche derivanti dal turismo torna infatti ai paesi da cui provengono i viaggiatori, ossia nei paesi “ricchi”, dove esiste un’ampia classe media e dove sono concentrate la maggior parte delle imprese del settore turistico; ciò accade in quanto nel mercato turistico le multinazionali dell’industria turistica (le grandi catene alberghiere, le compagnie aeree ecc.. ) tendono a destinare alle popolazioni locali i lavori più umili e sottopagati, lasciando gestire agli stranieri i lavori più gratificanti e di responsabilità.
Immagine da www.agoravox.it
Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.