Pubblicato per la prima volta il 13 settembre 2018
«Il tempo è una derrata rara, preziosa, sottomessa alle leggi del valore di scambio. Questo è chiaro per il tempo-lavoro perché è venduto e acquistato. Ma sempre di più il tempo libero stesso deve essere, perché sia consumato, direttamente o indirettamente acquistato. Norman Mailer analizza il calcolo di produzione relativo al succo di arancia messo sul mercato congelato o liquido (in cartoni). Quest’ultimo costa più caro perché nel prezzo vengono inclusi i due minuti guadagnati rispetto alla preparazione del prodotto congelato: al consumatore è in tal modo venduto il proprio tempo libero. Ed è logico, perché il tempo “libero” è in effetti tempo guadagnato, capitale capace di fornire reddito, forza produttiva virtuale, che occorre dunque riacquistare per poterne disporre»[1].
Così, Jean Baudrillard, ne La società dei consumi, sintetizza la riduzione a merce del tempo sociale tutto. In una società in cui le attività economiche sono gestite attorno alla logica dell’accumulazione del capitale, anche il tempo libero diventa un capitale da guadagnare, investire e gestire in maniera scrupolosa e profittevole. Tutto diventa in tal modo sottomesso all’equazione fra tempo e denaro, anche quella porzione di tempo che si ritiene essere “libera”.
Questa tendenza è particolarmente evidente con l’emergere della società dei consumi poiché il tempo libero finisce per il coincidere quasi completamente col tempo del consumo, rafforzando quel processo di reificazione della realtà sociale e delle sue scansioni temporali che già occupava un posto di rilievo nelle analisi di autori come Lucáks e Polanyi e che dopo ha ricevuto una sempre maggiore centralità nei lavori della Scuola di Francoforte.
Se è vero che sono in molti a mettere in evidenza che il tempo libero nelle società a capitalismo maturo diventi sempre meno “libero”, la divisione fra fase di lavoro e fase di riposo rimane centrale per tutta l’epoca moderna. Liberare il tempo libero dal tempo di lavoro (la lunga lotta dei socialisti per le 8 ore lavorative) e liberare il tempo libero dal tentativo delle logiche economiche di penetrarlo (creazione di luoghi ricreativi dove poter istituire temporalità altre[2]) sono due battaglie che potevano andare di pari passo.
Le società moderne del resto, come ci ricorda Deleuze, seguendo le orme di Foucault, sono società della disciplina, caratterizzate cioè da grandi spazi di reclusione come la scuola, la famiglia, la caserma, la fabbrica e in cui il tempo, così come lo spazio, è rigidamente scandito[3]. Anche qui si ritrova tutta l’ambivalenza del rapporto fra tempo libero e tempo di lavoro: da una parte sono entrambi assoggettati alla stessa disciplina della società industriale e capitalistica, dall’altra la vita sociale è organizzata su una netta divisione e una monotona ritmica dell’alternanza produzione/riposo.
Oggi viviamo indubbiamente in un’epoca sotto molti aspetti completamente differente. E la percezione e concezione del tempo non rappresentano un’eccezione. La parola d’ordine degli ultimi decenni è quella della flessibilità. La crisi del modello organizzativo fordista ha aperto la strada a un sistema produttivo che per rinnovare il suo ciclo di accumulazione e la sua capacità di generare profitto, in un sistema-mondo globalizzato, necessitava una rottura radicale con le rigide scansioni temporali del passato (la produzione flessibile, il just in time). I sociologi Boltansky e Chiapello nel celebre saggio Il Nuovo Spirito del Capitalismo, hanno fatto notare come il neoliberismo abbia avuto la capacità di inglobare molte teorie, idee e concezioni della teoria anticapitalista degli anni sessanta e settanta per rinnovarsi. La vulgata manageriale fin dagli anni settanta e con maggior decisione negli anni Novanta, ha indubbiamente impiegato un lessico e una retorica estremamente “rivoluzionaria”. E il tempo e la sua gestione erano uno dei punti cruciali della sua crociata nei confronti del passato. In tutti i manuali gestionali si criticano le scansioni temporali rigide, si richiede un approccio al lavoro che non sia più time oriented ma task oriented, si rifiuta la separazione netta fra tempo lavorativo e tempo libero che non lascia al lavoratore spazi di autonomia e di auto-organizzazione, si celebra un’organizzazione del tempo più flessibile che armonizzi le fasi della giornata e della vita.
Oggi, si sbandiera con entusiasmo l’innovazione miracolosa dell’industria 4.0, dei modelli smart di business e della sharing economy che si appoggiano su promesse di emancipazione senza precedenti: autonomia, condivisione, flessibilità, autenticità, calore. Lo smantellamento dei diritti lavorativi, l’abbassamento dei salari e la crescita della disuguaglianze rende oggi sempre più palese il carattere mistificatorio di queste promesse. L’autonomia si scopre non essere altro che insicurezza totale e mancanza di tutele, la condivisione solo un rapporto di utilità (massima per chi possiede la piattaforma, minima per il lavoratore) gestita da un algoritmo, la flessibilità totale precarietà, l’autenticità e il calore l’interiorizzazione degli obiettivi aziendali che porta il lavoratore a dare tutto se stesso per raggiungere standard produttivi sempre più esigenti. Come rivela Lelio Demichelis, non siamo mai realmente usciti dalle logiche fordiste[4]: semplicemente oggi esistono tecniche più sofisticate di gestione manageriale che spingono il lavoratore, sempre più solo e ricattabile, ad ottimizzare se stesso, potenziare al massimo le sue prestazioni per il bene dell’impresa. Come affermano giustamente Dardot e Laval, la razionalità neoliberista punta a un inquietante e totalitaria sovrapposizione etica ed esistenziale fra il macrocosmo dell’impresa con il microcosmo del lavoratore, imprenditore di se stesso, responsabile del proprio destino e in balia della concorrenza di tutti gli altri individui/imprese[5].
Come i discorsi sulla condivisione, sull’orizzontalismo, sull’autonomia del nuovo capitalismo manageriale hanno dimostrato di essere solo retorica, incapaci di nascondere la legge di ferro che ne comanda la logica, ovvero il profitto e l’accumulazione, così anche l’idea di un tempo liberato dalla rigida suddivisione disciplinare del fordismo, mostra di essere solo un’appropriazione del sistema per riprodurre (e addirittura lubrificare) le sue logiche di dominazione.
In questi giorni si trova in rete un inserto promozionale di una famosa catena di consegne di cibo a domicilio che invita a fare il rider (fattorino). Lo slogan è molto semplice: “lavora quando vuoi”. Siamo a metà fra l’apogeo della retorica dell’individuo imprenditore di se stesso che gestisce autonomamente il proprio lavoro e la farsa. Perché in realtà è la piattaforma a decidere quando puoi lavorare e per quanto tempo, la tua libertà consiste solo nel dare una disponibilità (peraltro entro parametri spesso piuttosto rigidi). Fondati sull’imperativo della velocità, i lavori della gig economy non liberano affatto dal tempo mercificato ma al contrario assoggettano completamente il lavoratore a ritmi e tempistiche frenetiche. Non c’è una gestione autonoma del tempo ma solo una sua continua e affannosa rincorsa finalizzata alla sopravvivenza economica.
Non va meglio negli ambiti lavorativi “più tradizionali” dove il concetto di flessibilità è impiegato mobilitando tutt’altre risorse morali ed emotive. Qua coinvolgimento e performance formano un’indissociabile binomio morale. L’impresa diventa scuola di vita: impegnarsi per il successo dell’azienda significa migliorare se stessi. Resilienti, attivi, dinamici, open-minded, pronti a cogliere le opportunità offerte dalla vita, ecco i segni di una predestinazione. Le qualità di un buon essere umano, capace di inventarsi la propria vita, sbaragliare la concorrenza, primeggiare sugli altri, fare di se stesso attore economico vincente, si acquisiscono nell’impresa. Tirocini e stage non solo sono lavoro sottopagato, insegnano effettivamente un know-how: ma non è una competenza tecnica, è una predisposizione psico-sociale a dare tutto se stessi, a ottimizzare le proprie prestazioni, a lavorare il più duramente possibile perché solo i falliti non raggiungono gli standard produttivi e le aspettative che la società (per azioni) si aspetta da ognuno.
Si vede qui forse il limite del pur brillantissimo lavoro di Boltanski e Chiapello: il nuovo capitalismo non funziona solo tramite una molla ideologica ottenuta manipolando quella che loro definiscono la “critica artistica” al capitalismo, ma anche e soprattutto tramite l’applicazione materiale di specifiche tecniche di gestione, di valutazione, di responsabilizzazione, di soggettivizzazione biopolitica dell’individuo.
Non riuscire a tenere il passo, a fare meglio dei propri colleghi, ad incrementare i margini di produttività e di profitto sono fallimenti personali, sono il fallimento della tua vita in quanto attore autonomo di una società di mercato che ti mette di fronte a responsabilità e scelte. Il tempo subisce così un’accelerazione disumana. Ogni millesimo di secondo è quantificato e scientificamente calcolato. L’ottimizzazione psicofisica individuale diventa un’ossessione permanente. Mostrare di valere significa essere sempre al massimo delle proprie energie e possibilità. Lavorare diventa una cronometro individuale contro il tempo. Ma talvolta non basta tagliare il traguardo. Il surplus intellettuale che viene estratto dal lavoratore in termini di responsabilizzazione e immedesimazione con l’azienda e i suoi obiettivi, spinge molto spesso a “portarsi il lavoro a casa”, rimuginare per ore durante la notte su possibili strategie e contromisure a un problema aziendale, o a timbrare il cartellino d’uscita pur rimanendo altre ore a lavorare per finire gli arretrati. Sono i miracoli del lavoro per progetti e per obiettivi che avrebbe dovuto liberare il lavoro dalle rigide scansione temporali ma ha solo permesso il proliferare di forme sempre più profonde di autosfruttamento.
Ovviamente la partecipazione totale dell’individuo non si ottiene solo tramite dispositivi ideologici e tecniche manageriali, ma anche grazie al fatto che il lavoratore è sempre ricattabile da contratti lavorativi precari che possono non essere rinnovati. Il bastone e la carota. Ma il punto è notare come in realtà i due meccanismi funzionano contemporaneamente e si rafforzano a vicenda: più sono precario, più il mio stato di oggettiva debolezza mi porterà a trovare un minimo di sicurezza esistenziale nella convinzione che lavorando al massimo, più e meglio degli altri, posso “meritarmi” un rinnovo contrattuale.
Una cosa è vera: non siamo più schiavi della netta separazione fra tempo libero e tempo di lavoro, ormai i confini sono sfuggenti, malleabili. Ma non per una ritrovata armonia ancestrale bensì per lo strabordare dell’imperativo della produzione del lavoro entro i terreni un a volta riservati al tempo libero. Quest’ultimo non è più solo e semplicemente soggetto a un processo di reificazione e di assimilazione alle logiche del capitale, è anche sempre più colonizzato dall’imperativo della produzione. L’ideale del neoliberismo è quello di un tempo uniforme in cui l’individuo sia chiamato alla produzione materiale e immateriale 24 ore su 24. Se ancora questo processo può sembrare in fase embrionale, occorre notare che la stessa logica del forcing che caratterizza l’orario di lavoro, viene trasposta interamente nel tempo libero. Che va sfruttato, impiegato al meglio, organizzato scrupolosamente. ll capitale/tempo va attentamente distribuito e regolato. Messo in competizione con tutto e tutti, l’individuo deve sfruttare ogni singolo secondo della sua esistenza per risultare più competente, impiegabile, affidabile, efficiente possibile.
Dato che un sistema di questo tipo non può non creare una serie di ansie, crisi depressive e problemi diffusi di autostima, l’individuo è anche chiamato a fare di tutto, a usare bene il suo tempo per rimettersi in forma, ritrovare la serenità e la soddisfazione, per recuperare l”equilibrio psicofisico. ottimizzare il lavoro coincide con l’ottimizzare se stessi. La civiltà è una corsa a cercare soluzioni ai problemi che crea, diceva Rousseau: e così esercizi di meditazione, mindfulness, corsi di “assertività e autostima” si diffondono ovunque e impiegano buona parte del tempo libero delle persone. Ma per che cosa? Nel tempo libero si fa sempre meno ciò che ci dà realmente soddisfazione e sempre di più viene sistematicamente riempito da una serie di rimedi che una società dell’ottimizzazione impone. L’imperativo di ottimizzare anche la propria felicità, il proprio benessere e il proprio godimento ha poco a che fare con una reale libertà e autonomia, piuttosto rappresenta la sottomissione a un modello sociale che subordina tutto all’efficienza.
Il neoliberismo è emerso in un contesto di critica diffusa e di progressiva disaffezione rispetto alle rigidità temporali della prima modernità. La rottura della separazione fra tempo del lavoro e tempo libero, che una società disciplinare imponeva, non ha però significato ripensare il tempo al di fuori della logica capitalistica e consumistica, semmai si è verificato l’esatto contrario. Una parte del tempo libero si trasforma sempre di più, surrettiziamente, in tempo di lavoro, mentre l’altra è sempre più dedicata ad attività che permettano di ritrovare quelle energie psicofisiche che servono per ritornare a ottimizzare le proprie prestazioni lavorative e a dimostrare che meritiamo di lavorare perché siamo più bravi, efficienti e resilienti degli altri. Si tratta di un circolo vizioso mostruoso che ha ormai sempre meno a che fare con quello che il tempo libero dovrebbe essere: realizzazione personale tramite un’autonoma scelta di attività che rispondono ai nostri desideri più profondi.
Non ci salveranno le nostalgie per un passato ormai concluso, ma una seria discussione su “quale tempo vogliamo” e “che senso vogliamo dare al tempo”[6] e come trasporre tutto ciò in prassi politica. Il dibattito sulla settimana lavorativa di 4 giorni, così come la discussione sul diritto all’irreperibilità fuori dall’orario di lavoro, rappresentano dei timidi ma significativi segnali che vanno nella direzione di riaffermare la centralità della lotta per un tempo libero che sia effettivamente tale, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo.
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Baudrillard J. (1974), La Società dei Consumi, [il Mulino, Bologna, 2010] p. 181- 182 ↑
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La creazione di eterotopie, cioè di posti “altri” rispetto a quelli normalizzati dalle strutture economiche, in cui il tempo sfugge alle logiche del profitto, è una forma di resistenza costante in tutta l’epoca moderna come ci ricorda Foucault. ↑
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Vedi https://www.marxists.org/italiano/sezione/filosofia/deleuze/societa-controllo.htm ↑
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vedi http://sbilanciamoci.info/dal-fordismo-concentrato-al-fordismo-individualizzato/ ↑
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Vedi la terza parte del saggio di Dardot P. e C. Laval (2009), La Nuova Ragione del Mondo, [DeriveApprodi, Roma, 2013]. ↑
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Cfr. https://www.ilbecco.it/cultura/saperi/umanistica-e-sociale/item/3877-byung-chul-han,-il-profumo-del-tempo-per-liberarci-dallo-sfruttamento.html ↑
Immagine via pixnio.com
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.