IL SIGNOR DIAVOLO
***
(Italia 2019)
di Pupi AVATI
con Alessandro HABER,
Chiara CASELLI, Gianni CAVINA, Massimo BONETTI, Lino CAPOLICCHIO,
Filippo FRANCHINI
Genere: Drammatico, Horror
Fotografia:
Cesare Bastelli
Sceneggiatura: Tommaso, Antonio e Pupi
AVATI
Durata: 1h e 26 minuti
Distribuzione: 01
Distribution
Uscita: 22 Agosto 2019
Qui
il trailer
La frase: Alle persone cattive bisogna portare il dovuto rispetto
Molti hanno la
memoria corta, ma Pupi Avati negli anni 70 ha scritto pagine
importanti del cinema horror italiano. O se preferite thriller gotici
con influenze horror.
Tanti rimpiangono film come La casa
dalle finestre che ridono (1976). C’è addirittura chi sostiene
che avrebbe fatto meglio a dedicarsi interamente a quel genere. Pupi
Avati si è preso un forte rischio: era difficilissimo per lui fare
un’opera di questo genere oggi dove tutto è dato per scontato e
dove l’indifferenza e l’odio escono fuori con rapidità
impressionante.
Specie perché Il signor diavolo
è già un libro scritto dallo stesso Avati. È stato cambiato il
finale per spiazzare ancora di più lo spettatore (anche se è
dannatamente prevedibile dopo 20 minuti). Eppure il regista 80enne
riesce nell’impresa centrando l’obiettivo con un film che a
livello di atmosfera e ambientazione non sbaglia un colpo.
Ma la sfida maggiore per Pupi Avati, cattolico praticante, era criticare l’ala oscurantista del cattolicesimo e della Democrazia Cristiana. Fa perfino nomi e cognomi (uno è quello di De Gasperi). “Sono stato chierichetto, ho frequentato la Chiesa. Il prete allora veniva visto come una figura intermedia, uno che recitava formule magiche, uno che dava le spalle ai fedeli durante la Messa. Insomma un mondo legato al fantastico in un tempo in cui c’era ben poco. Comunque un film di genere questo in un cinema italiano che non ne fa più perché si è schizzinosi e contano solo le commedie”.
Nel mondo rurale ai tempi del dopoguerra, i contadini credevano in superstizioni, antiche leggende, spettri, fantasmi, comunisti che mangiavano i bambini e quant’altro. Ma soprattutto, ci dice Avati, “nella cultura contadina i gesuiti dicevano: dateci i primi cinque anni di vita di un bambino e sarà nostro per sempre. Inoltre il diverso o il deforme venivano associati al demonio”. Ecco l’attualità che torna a far capolino. I contadini, mantenuti nell’ignoranza, venivano controllati per fini elettorali. La Chiesa esercitava su di loro paure immaginarie che però finivano per esser assorbite come vere. Come giustamente dice Gabriele Niola di Bad Taste, “l’affare fa sembrare che la DC sia lo S.H.I.E.L.D. dell’Italia degli anni ‘50”.
La cosa più incredibile e bizzarra è che dopo aver sterminato i pagani e dopo aver convertito forzatamente milioni di persone, la chiesa cattolica si permette di usare i metodi dei pagani per ottenere i propri scopi abusando di sacralità e superstizioni, magie e rituali antichi come l’uomo. I veri diavoli sono il pregiudizio e la paura del diverso. Oggi ci sono persone che baciano amuleti e crocifissi dopo aver inveito contro gente che muore annegata. Non faccio nomi.
I personaggi si muovono in un ginepraio di ambigua religiosità (a proposito la sagrestia è sempre quel luogo dove accadono cose inspiegabili) grazie agli effetti speciali di Sergio Stivaletti, la cupa fotografia di Cesare Bastelli e un cast di attori diretti molto bene. Tra questi ci sono vecchie conoscenze del cinema di Avati come Lino Capolicchio, Massimo Bonetti, Gianni Cavina (nei panni del sagrestano), “l’esorcista” Alessandro Haber e Andrea Roncato, a cui si aggiunge il ritorno di Chiara Caselli.
La storia inizia da
Roma nel 1952.
Avati
procede con una narrazione alternata con un montaggio ricco di
flashback.
Un funzionario del ministero, l’ingenuo e inetto
Furio Momentè, viene mandato a Venezia e dintorni (il film è girato
tra Rovigo e Grado oltre che a Comacchio, in provincia di Ferrara) ad
occuparsi di un caso singolare. Un minorenne, Carlo (Filippo
Franchini) ha ucciso l’amico Paolino, convinto di aver ucciso il
Diavolo in persona. Il ragazzino dichiara alla polizia che è stato
spinto a commettere l’omicidio da un sagrestano e da una suora.
Tutto parte da un fatto: l’arrivo di Emilio, un essere un po’
diverso e deforme che ha sbranato la sorellina a morsi.
Paolino
lo umilia pubblicamente scatenando in lui una forte ira. Durante la
Prima Comunione, però, la vendetta non si fa attendere: Paolino
viene spintonato mentre riceve l’ostia. Secondo la credenza
contadina, se cade e si calpesta, equivale a calpestare il corpo di
Cristo. Infatti quando l’ostia cade e Paolino la pesta, il prete è
costretto a sospendere la Messa.
È questa la miglior
scena del film, in cui esce in tutta la sua forza la doppiezza
della Chiesa di Ratzinger. Al regista manca tremendamente il
Diavolo, anzi il Signor Diavolo.
Aveva ragione Kevin Spacey nel
finale de I soliti sospetti: la beffa più grande che il
diavolo abbia mai fatto è stata convincere il mondo che lui non
esiste. E come niente… sparisce.
Il male esiste e si annida
ovunque come la polvere.
Infatti da lì in
poi ne avvengono di tutti i colori. La missione di Momentè è
“evitare che la Chiesa risulti responsabile di aver plagiato
l’assassino”. Le elezioni sono alle porte. Bisogna insabbiare il
caso, altrimenti i comunisti potrebbero beneficiarne. Inoltre c’è
anche la madre della vittima (Chiara Caselli), forte sostenitrice
della causa della Balena Bianca. Una donna piuttosto potente, anche
se fieramente critica della politica della Chiesa.
Durante il
viaggio, Furio si renderà conto che nelle carte c’è qualcosa che
non quadra.
Arrivato sul luogo del delitto, tutto si deformerà
e diventerà ancora più spettrale.
Il signor diavolo è un discreto film, ma si vede che era stato pensato inizialmente per la televisione. Il primo difetto è il sonoro della pellicola: i dialoghi sono bofonchiati, la fotografia a tratti è eccessivamente scura, la storia è intrigante, ma ampiamente prevedibile. La storia non tiene minimamente conto che l’Italia in questi 40 anni è notevolmente cambiata. Il ritmo è lento e un po’ compassato (nonostante la durata sia inferiore ai 90 minuti), i cliché e i difetti dell’horror italico tornano a bussare alla porta. E poi ci sono quei rallenty che sono fastidiosi e che penalizzano la fluidità. Tra gli attori spiccano soprattutto Gianni Cavina, il sagrestano, Chiara Caselli e i giovanissimi coprotagonisti. Haber e Roncato fanno dei piccoli cameo e non sono particolarmente utili (specialmente il secondo) alla causa.
Resta però da dire che Avati è un signor regista del nostro cinema, soprattutto nella direzione degli attori e nella descrizione dei particolari e degli ambienti. Purtroppo però il film, seppur dignitoso, non fa quasi mai il salto e rimane nella media del genere. Visto che ultimamente se ne produce pochissimi, era lecito che questo ritorno fosse “più cattivo”.
Questo film
difficilmente sarà visto dalla maggioranza dei giovani convinti che
il tutto sia piuttosto anacronistico. Infatti lo stesso Avati in
un’intervista a Repubblica dice che non capisce più l’Italia.
“Vorrei fare un film sulla televisione e sulla responsabilità
nella diseducazione degli italiani. C’è un’irresponsabilità
che andrebbe denunciata”. Non si può dargli torto.
L’unico
regista italiano capace di farlo è stato Matteo Garrone. Il film in
questione si chiamava Reality.
Regia
***1/2
Fotografia ***
Interpretazioni
***
Sceneggiatura ***
FILM ***
Sonoro **1/2
Fonti: Badtaste.it, Comingsoon.it, Cinematografo.it, Mymovies.it
Immagine (c) 01Distribution (dettaglio) da mymovies.it
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.