Riuscirà l’Italia a riaprire le scuole dopo il lockdown che, a partire dallo scorso 5 marzo, ha bloccato le attività didattiche in presenza in tutta la nazione nelle scuole di ogni ordine e grado? La sfida è aperta: la data della grande verità è fissata per il prossimo 14 settembre. Da quel momento in poi si capirà se e come sarà possibile “convivere col virus”, situazione alla quale – ci è stato detto fino alla nausea – dovremo abituarci per un lungo periodo.
Ovviamente chiunque ha “sotto mano” un alunno sta seguendo, da mesi ormai, la vicenda molto da vicino. Nessuno vuole mettere a repentaglio la salute di bambini e ragazzi (ma non scordiamoci che anche insegnanti e altro personale meritano la stessa salvaguardia); d’altro canto non è pensabile continuare con la didattica a distanza (la famigerata DaD) finché non si troverà un vaccino sicuro: messa da parte la retorica del “i bambini hanno bisogno di socialità”, le ragioni che spingono sul rientro in classe sono di carattere prettamente pratico. Non si può immaginare che i genitori debbano stare in casa fino a data da destinarsi, e non è neanche altresì possibile trovare qualcun altro che segua i bambini in quella che rischia di essere una vacanza infinita: non soltanto perché un aiuto esterno verrebbe ad incidere eccessivamente sul bilancio familiare, ma anche perché sarebbe necessario trovare una persona non soltanto affidabile ma anche capace di seguire bambini e ragazzi durante le lezioni a tu per tu col computer casalingo. Motivo per il quale anche l’aiuto che potrebbero offrire gratuitamente i nonni è messo in forse.
Quindi è indispensabile che la scuola riparta. D’altro canto però non si può neanche sperare che il Covid-19 vada in pensione dopo solo un anno scarso di attività, né è pensabile di tornare alla nostra vita di sempre come se nulla fosse mai accaduto: nelle aule scolastiche dovranno essere tenuti gli occhi bene aperti sulla questione sanitaria, si dovrà vigilare sui comportamenti degli alunni e sulla loro salute. Ed è a questo punto che nasce la domanda: cosa accadrà nella malaugurata ipotesi di un caso di Covid-19 in classe? O anche nell’eventualità di un falso allarme?
Le ipotesi si rincorrono e, complice la poca chiarezza del Governo (probabilmente dovuta alla novità della situazione), si è diffusa in queste ore la diceria che se un bambino presentasse, durante le ore scolastiche, sintomi riconducibili al virus, fosse dovere del personale scolastico avvertire il 118 che preleverebbe il minore da scuola senza allertare i genitori. Ovviamente la storia non sta in piedi: mai e poi mai sarebbe possibile portare in ospedale un ragazzino sotto i 18 anni, poiché anche i medici hanno bisogno dell’autorizzazione di genitori o tutori prima di poter procedere a qualsivoglia trattamento sanitario.
Ma, ahimé, quando si tratta di eredi la capacità di ragionamento della maggior parte delle persone scivola pericolosamente sotto il livello di guardia: ed è così che sulle bacheche Facebook di molti utenti sono comparse fantomatiche dichiarazioni di mancata autorizzazione a «prelevare mio figlio da scuola in mia assenza».
Se da un lato si sarebbe tentati – in maniera ottimistica – di considerare la questione un’allucinazione collettiva dovuta al caldo, dobbiamo riconoscere che facezie simili si sviluppano su ogni argomento, ed ovviamente in tutte le stagioni.
Chissà quante volte abbiamo visto Tizio, Caio o Sempronio dichiarare – rigorosamente a mezzo Facebook – la loro contrarietà a questo o quell’argomento: se però leggere che tua zia diffida Babbo Natale dall’usare le sue foto per impacchettare i regali da distribuire ai bimbi può far sorridere, leggere lo stesso messaggio minaccioso (o che vuol apparire tale) a proposito di una questione di importanza globale, fa nascere pensieri men che sereni.
Infatti la questione della sicurezza sanitaria negli edifici scolastici è materia da non sottovalutare, ma anzi da analizzare con attenzione. E certamente pensare di avere a che fare con genitori pronti a salire sulle barricate al minimo accenno di pericolo per i loro cuccioli fa sicuramente gelare il sangue ad insegnanti, presidi e compagnia che – davanti ad un bambino febbricitante – si troverebbero stretti nella morsa del dubbio su come agire: se la priorità è senz’altro salvaguardare il resto della popolazione scolastica, d’altro canto dovrebbero guardarsi le spalle da una possibile reazione scomposta di una mamma o un papà pronti a vedere il marcio nel trattamento riservato al figlio.
D’altronde però la situazione mette davanti alla necessità di agire in modo tale da andare contro – almeno a prima vista – il benessere del singolo bambino, poiché si cerca di tutelare la maggioranza: sicuramente non è bello pensare ad un bimbo, magari di 6/7 anni, che, al momento in cui si riscontra un’alterazione febbrile, viene allontanato dalla classe ed isolato in attesa dell’arrivo di mamma e papà, ma sarebbe un rischio troppo grande farlo stare nella classe con tutti i compagni, dove magari ce n’è qualcuno sulla cui salute non si possono fare scommesse.
Certo, si potrebbe obiettare che se un ragazzino ha situazioni sanitarie precarie sarebbe compito dei propri genitori tutelarlo, e la scuola dovrebbe al più garantirgli l’istruzione in modalità differente: ma non sarebbe giusto che chi è già sfortunato si trovasse ad essere messo da parte e a dover rinunciare a quella che in certe situazioni è l’unica parvenza di vita normale. Infatti per certe situazioni non è assolutamente vero che «le scuole sono chiuse da marzo e i bambini si ammassano in piazza tutti insieme».
Chi è malato, non necessariamente terminale, spesso non viene mandato dai genitori (o, se è più grande, dal proprio istinto di sopravvivenza) a ritrovi di ogni tipo, quindi ha ancora più bisogno degli altri della tanto acclamata socialità offerta dalla scuola. Ed è per questo che ci si è fatti e ancora ci si sta facendo tante domande su come riaprire le scuole: la discoteca non è un luogo per tutti, la scuola deve esserlo!
Tornando alla diffusione delle più varie fake news, posto che il problema da risolvere una volta per tutte è la capacità di discernimento dell’utente sui social network, che dovrebbe quantomeno fare la fatica di cercare altre evidenze della notizia che vorrebbe condividere, o che almeno potrebbe chiedersi se questa sia o meno plausibile, nel caso di specie – vista la repentinità degli eventi che quindi non permettono di stare a guardare l’evolversi della “coscienza social” delle persone – è necessario lavorare sulla fiducia e sul dialogo tra famiglia e scuola. La prima deve impegnarsi a mostrarsi fiduciosa, senza pensare che – lontano dal nido – il bimbo sia per forza esposto a chissà quali e quanti pericoli.
In ultimo, ed è questo l’aspetto più difficile, sarebbe indispensabile che maestri e maestre avessero informazioni precise, chiare, univoche e tempestive da comunicare ai genitori, che giustamente ed umanamente aspettano il 14 settembre col cuore in gola.
Foto di Gerd Altmann da Pixabay
Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell’Arci.