«Il mondo è cambiato. Lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, lo avverto nell’aria: molto di ciò che era si è perduto perché ora non vive nessuno che lo ricorda». È la frase di apertura (pronunciata parzialmente in sindarin / grigio elfico, ma puntualmente tradotta) della trasposizione cinematografica de La Compagnia dell’Anello, il primo film della trilogia de Il Signore degli Anelli uscita a inizio del nuovo millennio.
Per percepire i mutamenti della nostra società sarebbe sicuramente utile prestare attenzione a quello che sta avvenendo alle nostre risorse idriche, al pianeta che viviamo e a ciò che respiriamo: più semplicemente ci si potrebbe limitare a prendere in considerazione quanto dice la “tecnica” e provare a farne elemento di discussione politica.
Nonostante l’emergenza sanitaria, i dati e le informazioni, anche se provenienti dal mondo accademico, difficilmente vengono utilizzati per una riflessione sistematica sul presente, sul recente passato e – soprattutto – sul futuro.
L’Espresso del 19 dicembre 2021 dedicava la copertina al XXIV rapporto tra gli italiani (e le italiane, si spera) e lo Stato, curato da LaPolis dell’Università di Urbino e Demos, presentato e introdotto da Ilvo Diamanti. Prima di alcune considerazioni su quanto viene scritto, è utile ricordare come quest’ultimo avesse pubblicato, insieme a Marc Lazar, poco prima della pandemia, un libro in cui teorizzava un processo di istituzionalizzazione dell’anti-politica e dell’impolitico, all’interno di uno svuotamento di significato dell’organizzazione della vita comune (Popolocrazia, Laterza, 2018). Le ipotesi di quel volume sembrano in larga parte confermarsi, dal modo in cui i risultati delle ricerche vengono presentati.
Quello che emerge dai dati pubblicati poche settimane fa è la scomparsa, per tre italiane e italiani su quattro, di un’idea di futuro: non ci si riesce neanche a immaginare come potrebbe essere il domani. A due anni dalla proclamazione della pandemia globale, rimaniamo immerse e immersi in uno stato di sospensione, in uno stato di emergenza che si è fatto norma, dove SARS-CoV-2 viene alternativamente rimosso (per “salvare il Natale”) e poi brandito per criminalizzare alcuni comportamenti personali (i finti runner prima, chi va senza mascherina allo stadio ora).
Tutto viene ridotto all’esperienza soggettiva, negando la possibilità di risposte condivise e plurali, fatte di partecipazione. La stessa soggettività negata, o meglio rimossa, quando si tratta di interrogarsi su come stiamo vivendo questa fase storica, con l’aumento significativo di problemi di salute mentale (a partire dai casi di depressione e di ansia).
Nel XXIV rapporto si illustra come sia cresciuta molto la richiesta di sicurezza individuale. Nonostante l’emergenza sanitaria, resta difficile persino da capire se sia chiaro cosa si potrebbe intendere per sicurezze collettive, ma invece su questo punto almeno una parte del mondo politico dovrebbe insistere molto. Chiedere conto a chi governa non solo di cosa sta facendo sul green pass e l’obbligo vaccinale (pure temi centrali), ma anche di quali cambiamenti abbia previsto per il trasporto pubblico locale, per gli spazi scolastici, per le condizioni all’interno dei luoghi di lavoro, per un diverso modo di fruire la cultura e un’altra possibilità di pianificazione dell’economia.
Risultano in crescita la fiducia nelle istituzioni e persino verso i partiti, che restano comunque inchiodati all’ultimo posto della classifica, con il 13% (segnando però un + 4%). I comuni, la scuola e il Presidente della Repubblica si inseriscono in una tendenza di maggiore affidamento, che però in nessun modo può essere inteso come partecipazione. Crollano infatti tutte le forme di impegno nella vita pubblica: sono meno gli acquisti equi e solidali, si pratica in misura minore il volontariato, calano le attività sportive, culturali e ricreative, si scende meno in piazza a manifestare. Persino il “boom” delle discussioni sui social registra una battuta di arresto (ha riguardato il 15% delle persone intervistate nel 2011, il 30% nel 2019, il 32% nel 2020 e il 26% nel 2021).
L’insoddisfazione esiste, ma rimane mitigata dal 70% che continua a pensare di vivere nel migliore modello istituzionale possibile, quello delle democrazie occidentali. La Covid-19 ha aumentato la “soddisfazione” verso il sistema che ci governa (salito al 48%, dopo il precipizio del 28% in cui era caduta nel 2013).
Eppure, chi ha ruoli nelle organizzazioni politiche e ha funzioni di governo sembra non voler accettare l’idea di avere la possibilità di svolgere un ruolo centrale nei mutamenti in corso, contrastando questa ritirata dalla partecipazione.
La paura del virus si traduce inevitabilmente in domanda di tecnocrazia e leadership in assenza di spazi condivisi, in cui riscoprirsi cittadine e cittadini (riconoscendo cittadinanza a chi se la vede negata da leggi prive di umanità e contrarie ai valori costituzionali).
Il mondo sta cambiando, ma la politica sta aspettando di capire come, fingendo di non accorgersi dei mutamenti, quasi la comunicazione avvenisse all’inizio di un film in elfico, senza traduzione in una lingua conosciuta. La maggioranza si affida alle realtà organizzate esistenti ma queste a loro volta si affidano allo stato di cose presenti, alla necessità di tutelare l’economia e il sistema imprenditoriale.
Nel frattempo, le emergenze si sovrappongono. Il blocco degli sfratti ha rappresentato una parentesi, senza nessun piano di edilizia residenziale pubblica che potesse mitigare il disastro repressivo in corso. Negli istituti penitenziari si è riusciti solo a portare l’opzione di Skype per permettere alla popolazione detenuta di parlare con le famiglie, mentre il populismo legalitario e giustizialista si rafforza, episodio di cronaca dopo episodio di cronaca. Il contesto pandemico sembra giustificare la minore consapevolezza in merito ai cambiamenti climatici e ai cataclismi ambientali che gli studi ci dicono essere molto probabili in prossimità temporale. La Costituzione prosegue nel suo svuotamento di fatto (con il pareggio di bilancio inserito dalla sostanziale totalità del Parlamento italiano, che oggi per fortuna prende atto che non era un principio indispensabile). L’architettura della sorveglianza a livello globale si allarga in tutte le nostre città, senza nessuna capacità del pubblico di immaginare un ruolo proprio, in concorrenza con i monopoli delle piatteforme private, a cui si delegano le competenze con cui portare avanti programmi di controllo dei movimenti e videosorveglianza.
Il quarto capitolo cinematografico di Matrix è anche una riflessione della regista sull’assuefazione a ogni novità e “scandalo” denunciato: ci adagiamo nell’emergenza, di fronte alla quale si “fa quel che si può”, accettando come ineluttabile la richiesta di perdere pezzi della nostra libertà. Come se fosse solo individuale e riguardasse strettamente l’io, invece del noi.
La pandemia ha acceso i riflettori su molte ingiustizie e iniquità. Ha anche indicato il senso della politica e del governo della cosa pubblica: purtroppo si è scelto di considerare il virus come cosa “altra” rispetto alla nostra vita quotidiana. Mentre si raccontava di voler convivere con SARS-CoV-2, si è impostata la propaganda della guerra contro un nemico sconosciuto e quasi imbattibile.
Quindi in fila, marciare e tacere: questi sono gli ordini prevalenti. La paura si mescola con l’assuefazione, anestetizzando ogni pensiero di impegno comune. Tutto il contrario del prenderci cura a vicenda dei territori che viviamo, di noi e di chi abbiamo intorno.
Rimangono, per adesso, delle possibilità di pratiche e teorie per quei soggetti che sceglieranno di abbracciare la consapevolezza dei cambiamenti in atto, tentando di avere un ruolo nel mondo che sarà, a breve, non in un futuro indefinito, ma in un futuro fatto di scelte concrete nel presente.
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Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.