Spesso guardiamo ai libri e ai film come a meri prodotti fatti per vendere. Non ci soffermiamo sulla loro importanza, sui contenuti, ci basta sapere quanto hanno incassato. Non dico che i libri e i film non siano prodotti che devono far soldi, c’è anche questo aspetto, come non possiamo negare che molti campioni di incassi o bestseller, sono effettivamente parte della storia del cinema e della letteratura. Non ce l’ho a prescindere con il mainstream.
Da cosa dipende il successo di un’opera? La bravura del suo autore? Una storia entusiasmante? La capacità di cogliere l’argomento che in quel determinato momento è di moda? A volte penso sia fortuna. Sicuramente conta anche il contesto e il tempo in cui il libro viene pubblicato e il film girato.
Non
conoscevo Thomas Savage prima di questo Natale, quando mia
suocera mi regalò il suo romanzo del 1967, all’epoca passato più
o meno inosservato nonostante le buone recensioni, e diventato un
fenomeno letterario ora.
Che amara ironia, non trovate? Dopo il
caso di Stonerora le case editrici si sono messe alla ricerca di vecchie
opere che possano esser rimesse in vendita come tesori nascosti
riscoperti ora. Ed esattamente come il capolavoro di John
Williams, anche questo romanzo è un’opera di
assoluta e totale bellezza.
L’autore
trae ispirazione da esperienze personale, tanto che il personaggio
negativo del libro Phil, par sia una fedele trasposizione su carta di
un suo zio che dava il tormento a una persona importante per Thomas.
Attraverso il romanzo in qualche modo lo ha punito.
Savage è il
rampollo di due famiglie importanti che facevano affari grazie ai
loro ranch. Questo mondo dominato dal lavoro, dal mostrare
agli altri quanto si è in gamba e in grado di sopportare fatica,
sacrifici, è il protagonista del romanzo.
Il
Potere del cane
è infatti la storia drammatica, tragica ed epica di una famiglia di
allevatori del Montana, nel 1925. I protagonisti sono Phil e George,
eredi del più grande e importante ranch di Bleech, un paese perso
nel nulla, ma che per due come loro è quasi una metropoli. I due
uomini sono discendenti di una famiglia ricca che si è spostata nel
Montana per far altri soldi, infatti i genitori descritti sempre come
il Vecchio Signore e la Vecchia Signora, vivono in un albergo a New
York, ed hanno lasciato ai figli l’azienda da portare avanti.
Si
possono fare grandi e memorabili lavori puntando solo su pochi
personaggi e una storia di frontiera? Una storia in cui non c’è il
minimo romanticismo per la vita dei cowboy
eppure si nota un certo trasporto umano nel descrivere la loro vita
così faticosa? Certo che si può fare! Savage riesce benissimo a
dosare compassione per i personaggi e farci provare rabbia per altri.
Tutti dispersi in quella terra remota.
L’opera è un
inno al west,
al lavoro duro, un romanzo maschile che parla di un universo fatto da
uomini duri che devono esserlo a tutti i costi, ne va della loro
sopravvivenza. Ma non nasconde come dietro tutte queste cose ci sia
la violenza, la sopraffazione, che la
ricchezza di qualcuno si basa sul dolore degli altri,
e questa cosa non vale solo tra cittadini che rincorrono la felicità
nel benessere materiale, ma è alla base della nazione stessa.
Le
pagine dedicate all’odissea che ha portato alla cancellazione del
popolo degli indiani d’America sono memorabili. Chi ha vinto è il
razzista arricchito, forte perché può comprare tutto e far quello
che vuole.
Questo tratto tanto americano, crea vittime anche
tra la popolazione dei bianchi. Come il dottore che prende il suo
lavoro come una missione, tanto da non farsi pagare dai pazienti
poveri perché salvar la loro vita è più importante. Fino a quando
deciderà di uccidersi lasciando una vedova Rose e un figlio Peter.
Costoro gestiscono un piccolo albergo molto chiacchierato dalle
persone perché la donna è considerata una poco di buono in quanto
non nata nel loro paese e perché in passato per mantenersi suonava
un pianoforte al cinema Il figlio invece è troppo elegante e
raffinato, dai tratti effeminati per esser un vero uomo e giù di
omofobia.
Le cose si complicano quando George decide di sposare
la donna e portare lei al ranch di famiglia. Phil farà di tutto per
far impazzire la donna fino al finale che diciamo non è proprio un
happy end in stile Disney, ma ha il sapore dolce e il retrogusto
amaro di una sacrosanta vendetta.
Thomas
Savage ha scritto uno di quei libri destinati a rimanere nella
memoria e nel cuore del lettore. Io l’ho amato fin dalle prime
pagine e mentre mi immergevo nella lettura questo amore è aumentato
tantissimo.
Un libro epico e doloroso pieno di pagine commoventi
e altre feroci. In cui si descrive nei minimi particolari la vita
durissima dei cowboy e di come quella
americana sia una terra cresciuta attraverso la violenza,
la ferocia, la sopraffazione e il senso fortissimo con le proprie
radici e la propria famiglia. Una terra senza legge nonostante
adorino l’ordine che essa dà a chi disobbedisce.
Una terra
in cui le persone buone, cortesi, gentili, soccombono sotto il peso
dell’idiozia, ignoranza e della violenza fisica.
Savage scrive
così un grandissimo romanzo “western” che riprende certi temi
cari al romanzo vittoriano in un certo senso, l’epopea di famiglia
con i suoi intrighi e il crudo realismo della vita nei piccoli paesi.
Phil
è un cattivo davvero ricco di sfumature e assai complesso. Uomo
intelligente che poteva far benissimo il dottore, l’artista,
l’insegnante e invece vive a stretto contatto con i suoi
lavoratori, veste in modo sciatto, si lava una volta d’inverno e
una d’estate in un fosso abbandonato nel nulla, è razzista e
sessista. L’uomo vive nel ricordo di Bronco Henry, un cow boy che
viveva nel loro ranch. Questo elemento serve anche per affrontare il
tema nascosto di questa opera: l’omosessualità repressa.
Quanto
essa possa avvelenare le vite di chi pensa sia giusta reprimerla e
di come questa repressione si trasformi in odio per gli altri o le
altre.
C’è tanto sadismo nella rappresentazione del rapporto
tra Rose (eterna vittima incapace di costruire un rapporto umano col
suo carnefice) e Phil, ma mai morboso o usato con compiacimento. La
simpatia dell’autore sta con George, tanto alto e robusto quanto
mansueto e poco brillante ma dotato di generosità e bontà, e Rose.
Il
Potere del cane
(il titolo si rifà a una collina in cui c’è una roccia a forma di
cane che sta dando la caccia a una preda, almeno così pensa Phil ma
è anche un versetto del Libro delle Preghiere “libera la mia anima
dalla spada e il mio amore dal potere del cane”) è un’opera
maestosa, ad ampio respiro, con personaggi e pagine memorabili.
Un’occasione per un viaggio alla scoperta delle radici
americane per una visione critica lontana dal sogno americano e dalla
leggenda del paese della libertà e democrazia, ma fondamentale per
aver una visione sempre più reale, seppure romanzata.
Sopratutto
è uno dei libri più belli e strazianti mai scritti, un’opera
imperdibile che vi consiglio caldamente.
Davide Viganò nasce a Monza il 24/07/1976: appassionato di cinema, letteratura, musica, collabora con alcune riviste on line, come per esempio: La Brigata Lolli. Ha all’attivo qualche collaborazione con scrittori indipendenti, e dei racconti pubblicati in raccolte di giovani e agguerriti narratori.
Rosso in una terra natia segnata da assolute tragedie come la Lega, comunista convinto. Senza nostalgie, ma ancor meno svendita di ideali e simboli. Sposato con Valentina, vive a Firenze da due anni