Cosa si muove a destra
Fin dall’insediamento del Governo Conte (1° giugno 2018) la tattica politica di Giorgia Meloni sembra essere stata quella di contestare Salvini da destra: non apertamente, ma dipingendolo come “ostaggio” del M5S, la cui alleanza con la Lega viene giudicata innaturale in quanto il partito delle cinque stelle apparterrebbe al campo della sinistra. Questa concorrenza a Salvini sul suo terreno viene esercitata non solo sul piano programmatico (ad esempio proponendo il blocco navale contro i migranti) ma anche nello stile comunicativo: ad esempio, se Salvini, abbandonata la fase degli insulti triviali, sembra puntare ora soprattutto sul disprezzo e sull’arroganza (l’anagrafe canina per gli antifascisti, i contestatori moscerini rossi, la prostituzione come amore, ecc.), la Meloni si affida prevalentemente alla rabbia.1
A questo si aggiungano anche scelte d’effetto come la candidatura di un bisnipote di Mussolini alle elezioni europee. La tendenza è interessante perché contrasta con il precedente percorso dell’ex ministra, che aveva tratti più conservatori che fascisti. Ad esempio la scelta di un “ticket” con Guido Crosetto, ex forzista di ascendenza democristiana, o la rimozione dal simbolo di Fd’I della sigla “MSI” (che pare simboleggiasse la bara del dittatore) per lasciare solo la fiamma. Quali sono le ragioni di questa inversione?
In parte può esserci la volontà di contrastare la concorrenza di CasaPound, mostrando come i fascisti della tartaruga frecciata, che hanno un rapporto abbastanza organico con la Lega salviniana, siano parte di un’area non sufficientemente radicale. L’obiettivo massimo è però, credo, un altro. La sollecitudine con cui la Meloni auspica un buon risultato delle forze di destra alle elezioni europee, per poter formare un nuovo esecutivo a guida Salvini (che dovrebbe ricevere la fiducia dall’ala destra del M5S), appare sospetta se si considera che il vecchio consenso di Alleanza Nazionale e non pochi quadri locali sono transitati più nella Lega che in Fratelli d’Italia. Emblematico, ad esempio, il voto delle elezioni politiche nel comune di Latina, in cui la Lega è il primo partito della coalizione e Fd’I soltanto il terzo. Di recente pare che la Meloni abbia sentito al telefono anche Gianfranco Fini (lei, comunque, ha smentito).
I movimenti dell’ex presidente di Azione Giovani devono essere letti in parallelo con la situazione in Forza Italia. Chiaro come il sole che il partito non sopravviverà al tramonto del suo ottuagenario leader, dentro di esso si agitano due fazioni contrapposte: quella filo-leghista guidata da Giovanni Toti e quella anti-leghista capeggiata da Mara Carfagna. La divisione politica ricalca, e probabilmente è determinata da, una divisione territoriale tra Nord e Sud.
Alla fine di aprile la pagina Facebook di Fratelli d’Italia strombazzò un sondaggio in cui il partito era dato al 6%.2 La cosa interessante non è tanto l’evento in sé, quanto il fatto che nell’immagine i consensi alla fiamma erano sommati a quelli per Forza Italia (8,5%) per costituire un “totale centrodestra” del 14,5%. L’obiettivo di Giorgia Meloni sembrerebbe dunque quello di costituire una forza politica unitaria con l’area Toti in modo da contrastare il dominio salviniano (pur nel quadro di un’alleanza) e riacquistare peso nella coalizione di destra.
Questi movimenti, che sembrano riguardare soltanto l’elettorato conservatore e variamente post-fascista, sono in realtà di primaria importanza anche per il Partito Democratico.
Il sentiero del PD
Le prime elezioni nazionali a suffragio universale in Italia risalgono al 2 giugno 1946. Da allora si è votato diciotto volte per le elezioni politiche e otto volte per le europee, potendo apprezzare una inamovibile costante: la maggioranza degli italiani è di destra. Questa destra è stata di volta in volta rappresentata diversamente – anche se il suo substrato fondativo appare comunque quello qualunquista e fascistizzato, il venir meno del cui consenso ha causato la rovina prima del pentapartito e poi del berlusconismo. Ma al di là delle sue forme, e prescindendo anche dai modi per realizzare quanto vado a dire, il panorama consegna una verità matematica: se la sinistra vuole vincere le elezioni deve ottenere il voto anche di una parte degli italiani di destra.
La situazione del centrosinistra attuale mostra segnali di ripresa: l’effetto Zingaretti ha portato al PD circa 3 punti percentuali nel mese di marzo e il partito sembra ancora in una fase di crescita, seppure molto rallentata. Il centrosinistra nel suo complesso, invece, è passato dal 20% di prima delle primarie al 25% attuale, in una crescita che appare adesso sostenuta da Più Europa.
Il problema è appunto che il centrosinistra risulta ancora in una condizione di ristrettezza di portata storica. Anzitutto il suo spazio è ridotto, per le elezioni europee, a sole due liste (PD e Più Europa, appunto). In secondo luogo, alla sua sinistra troviamo due liste: La Sinistra, attualmente data fra il 2 e il 3%, e il Partito Comunista, non rilevato dai sondaggi ma per il quale possiamo essere generosi e stimare l’1% (ottenne lo 0,3% alle politiche del marzo 2018). Né il PC né Rifondazione, che può essere approssimata costituire la metà de La Sinistra, possono essere coinvolti in un “nuovo centrosinistra”, per cui l’unica strada per riprendere consenso sembra proprio essere quella di rivolgersi agli elettori di destra.
Alla fine di marzo 2018, ragionando sul risultato elettorale, ebbi a scrivere privatamente che l’idea di una avvenuta separazione del PD dal suo popolo (come sosteneva Bersani) era del tutto falsa; era vero semmai l’esatto contrario, ossia che il PD si era ridotto al suo popolo originario, quel 19% che votò il Partito Comunista Italiano nel 1946. Dopo il ’46 il PCI guadagnò gradualmente il consenso di elettori che in precedenza non lo votavano e di elettori delle nuove coorti di età, fino ad arrivare al picco storico del 34% nel 1976. È solo con il 41% del 2014, però, che nel PD arrivano voti effettivamente di destra – tra cui voti di carattere qualunquista come sembra evidenziato dal fatto che gli exit poll, che in Italia storicamente rilevano male le preferenze degli antipolitici, sottostimarono in quell’occasione il partito di Renzi.
Nonostante Zingaretti cerchi, comprensibilmente, di tenere basse le aspettative fissando l’obiettivo a «oltre il 20%»3, il momento sembra favorevole per erodere i consensi dei partiti di governo.
La crisi dei “giallo-verdi”
Quando inizia la crisi del consenso? Quando si è arrivati a saturare il proprio spazio politico. La risposta sembra banale, ma non lo è. La crisi della destra berlusconiana è iniziata nei primi mesi del 2009, quando il governo sembrava avere il vento in poppa e il PdL, ottenuto il 38% alle politiche di aprile 2008, puntava ad arrotondarlo al 40% alle europee. Quella crisi, pure fotografata da un inizio di debolezza nei sondaggi dell’epoca, fu sul momento meno evidente perché mascherata dalle contemporanee tribolazioni nel centrosinistra (dimissioni di Veltroni, contrasti PD-IdV), da successi locali (Sardegna) e dal fatto che l’aumento dell’opposizione si manifestava soprattutto nella crescita di forze minori quali l’UdC o SeL.
Il rovinoso crollo del PdL alle amministrative del 2012 non fu un fulmine a ciel sereno, né, come pure sembrò allora, la conseguenza della crisi finanziaria che l’ultimo governo Berlusconi non era riuscito a evitare (né tantomeno ebbero un ruolo gli scandali sulla vita privata del leader di Arcore, che semmai infierirono su un quadro già compromesso). Veniva giù un’impalcatura già internamente corrosa.
Il PD è rimasto stabilmente il primo partito fino all’inizio del 2017; il centrosinistra, la prima coalizione fino a metà di quell’anno. E sebbene il declino accentuato sia iniziato solo negli ultimi mesi dell’anno, per esplodere poi nelle urne il 4 marzo, i consensi al partito di Renzi avevano iniziato a discendere già a fine 2014, e a metà del 2015, dopo le regionali, l’aggregato M5S-Lega costituiva già il più ampio blocco politico del Paese.
Per cui, quando è iniziata la crisi del consenso per i “giallo-verdi”? A ottobre-novembre 2018. Questo dato nella percezione dell’opinione pubblica è stato oscurato finora dall’insistita crescita, proseguita fino a febbraio, della Lega, il protagonismo del cui leader ha condotto l’alleato cinquestelle in una posizione subalterna.
La crisi dei “gialli”
Proprio sull’apparente debolezza del M5S pare che si dovrebbero appuntare le mire di Zingaretti, che non ha mai fatto mistero di volersi rivolgere anzitutto a quel bacino di voti per risollevare le sorti del PD. A quanto trapela, l’ala più antiborghese dei Cinque stelle, legata a Di Battista e al fondatore Grillo, sembra essere pronta a una scissione in caso di débâcle del partito alle europee.4
A pensar male si fa peccato, se si è cristiani, però come laici machiavellici possiamo supporre che la scuola di Zingaretti intenda coltivare questa ipotesi scissione per l’ennesima operazione politicista e di apparati cui oltre vent’anni fa fu affibbiato l’irriverente nome di “dalemone”. Anche qui c’è una costante: la montagna partorisce un topolino che purtroppo spira nel giro di poco tempo. Nel frattempo, pure la montagna si è logorata per lo sforzo del parto. Si vedano le infauste sorti dell’UDR di Cossiga, del c.d. Terzo Polo, di avventure locali come Io Sud (chi lo ricorda?). Anche l’ultima scissione ispirata dal pensiero dalemiano non è finita molto bene. Si veda, tornando ancora più addietro, la scissione del gennaio 1964 con cui la sinistra del PSI costituì il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria: essa non allargò il campo della sinistra, aumentò la debolezza politica del PSI nel confronto con la DC, aumentò nel PSI il peso delle correnti di destra, e il nuovo partito finì in breve tempo risucchiato dal PCI. Il quale, guidato all’epoca da dirigenti con decenni di formazione di carcere, esilio e guerra, aveva appunto fatto di tutto per evitare la spaccatura.5
La forza di un movimento antipolitico è nella ferocia delle sue azioni. Il suo corpaccione elettorale è un viscere che segue l’emozione del colpo d’ascia, e che non può essere suddiviso in parti più o meno razionali e più o meno interessate a programmi politici alternativi. Qualcuno ricorderà, o forse meglio non ricorderà, le sorti delle scissioni leghiste (Lega Italiana Federalista, Autonomisti per l’Europa), pidielline (Futuro e Libertà per l’Italia, Nuovo Centrodestra) o grilline (Gruppi di Azione e Partecipazione Popolare, Movimento X, Italia Lavori in Corso).
Ma, se la scissione del M5S quale fatto formale non sembra essere un’ipotesi produttiva, neppure si deve gettar via il bambino con l’acqua sporca: spaccare il M5S è possibile e doveroso. Si può costringerlo ad attorcigliarsi in dispute sulla linea politica e spingerne la leadership in una crisi di consensi e di legittimità. Fare, in breve, ciò che il PD già avrebbe dovuto fare nei colloqui col Presidente Fico ad aprile 2018 – all’epoca ciò fu impedito dalla debolezza di Martina e dalla sua dipendenza da capicorrente interessati più a obliterare il ruolo di Renzi che a garantire un avvenire al partito.
La crisi dei “verdi”
Negli ultimi giorni prima del blocco alla diffusione dei sondaggi, almeno tre ricerche hanno indicato per la Lega un consenso inferiore al 30%.6
Se da un lato questo tranquillizzerà sicuramente le preoccupazioni di Giorgetti circa la scarsa preparazione degli eletti leghisti in caso di risultato intorno al 35%7, dall’altro lato il declino della Lega salviniana ha prodotto come contraccolpo un sommovimento ostile tra i dirigenti e gli amministratori del Nord.8 I quali ancora non sono passati alle minacce evocate l’anno scorso da Umberto Bossi, secondo cui il segretario leghista avrebbe rischiato di finire “impiccato come il suo amico Mussolini”9, ma, appellandosi al conservatorismo fiscale della Lega delle origini, lo invitano caldamente a rompere l’alleanza nazional-socialista10 con il M5S e a ricomporre l’alleanza di centro(?)destra.
Ed è comprensibile che questo caldo invito sia rivolto con una certa fretta, giacché anche il consenso al centrodestra nel suo complesso ha iniziato una curva discendente che lo sta riportando sotto il 45%. È vero che una cifra simile basterebbe con tutta verosimiglianza a conseguire una maggioranza parlamentare autosufficiente in elezioni politiche anticipate, ma il tempo è tiranno e riserva cattive sorprese – chiedere a Bersani.
A proposito di Bersani, il PD di Zingaretti pare non avere tra le sue priorità il recupero del consenso leghista, giudicato tutto interno ai partiti di destra e in particolare sottratto a Forza Italia. Ora, al di là del fatto che come si è visto il consenso di una parte degli elettori di destra è necessario per acquisire la maggioranza dei voti, l’idea che la Lega abbia drenato solo dal proprio schieramento denunzierebbe una scarsa conoscenza delle tanto invocate “periferie”, almeno nell’Italia centro-settentrionale. E soprattutto c’è un altro punto a cui porre attenzione.
Nel 2012 tre partiti, che alle ultime consultazioni nazionali (europee 2009) avevano assommato complessivamente il 53% dei voti, entrarono in una fase di implosione che liberò milioni di consensi, pronti per essere catturati dal migliore offerente. Quei partiti erano il Popolo della Libertà, la Lega e l’Italia dei Valori. Non pochi di quei voti in uscita finirono nell’astensione, altri specie dal PdL aiutarono Monti, ma il vero mattatore risultò alla fine il Movimento 5 Stelle. L’analisi effettuata da Bersani a proposito del PD dopo le amministrative 2012 – «una forza politica in questo paese capace di aggregare forze politiche e civiche, di avere un’affermazione molto molto netta e di essere al confronto con le novità [?]»11 – fu smentita.
Forse il centrosinistra avrebbe potuto attrarre quei voti vaganti con un altro tipo di proposta politica, che del resto ebbe successo a maggio 2014. Sarà utile al PD se si farà trovare pronto ad essere attrattivo per i voti che usciranno dalla Lega, oltre che dal M5S. In caso contrario il risveglio potrebbe essere di una crudezza tale da far impallidire i ricordi del 2013 e del 2018.
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http://espresso.repubblica.it/palazzo/2019/04/04/news/giorgia-meloni-lady-rabbia-1.333386 ↑
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https://www.termometropolitico.it/1422559_sondaggi-elettorali-noto-29.html ↑
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http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2019/05/10/europee-zingaretti-oltre-20-la-sfida_2c7e3a36-d65f-4e97-92cd-11a69ce4432f.html ↑
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http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2019/05/10/europee-zingaretti-oltre-20-la-sfida_2c7e3a36-d65f-4e97-92cd-11a69ce4432f.htm ↑
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Rimando all’ottimo Aldo Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, Bari 2013. ↑
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Demopolis (5-7 maggio, https://www.demopolis.it/?p=6137 ), Euromedia (8-9 maggio, https://sondaggibidimedia.com/europee-piepoli-euromedia-09-maggio/ ), Cise (9 maggio, https://scenaripolitici.com/2019/05/sondaggio-cise-9-maggio-2019-europee-2019.html ). ↑
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https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2019/05/10/news/la_frenata_leghista-225963540/ ↑
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https://video.repubblica.it/politica/bossi-contro-salvini-se-fosse-saltata-la-lombardia-finiva-impiccato-come-l-amico-mussolini/300580/301210 ↑
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https://www.facebook.com/ilfoglio/photos/a.74715537992/10156342691222993 ↑
Immagine di Roberta Krasnig (dettaglio) da commons.wikimedia.org
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.