Il “manifesto Calenda”: la proposta che non salverà il Paese
Dopo il voto del 4 marzo 2018, le forze politiche sconfitte presenti in Parlamento hanno provato a fare opposizione; essa si è tradotta, sostanzialmente, da un lato nella denuncia dei provvedimenti e delle dichiarazioni di Salvini e dall’altro nell’apprezzamento dell’osservazione dell’inconcludenza del Movimento 5 stelle.
Come programma politico di lungo corso e modello di società futura da proporre agli italiani che non si riconoscono nel governo Conte è emersa la proposta di Calenda del PD, guarda caso pubblicata dal “Il Foglio”.
Piergiorgio Desantis
Il cosiddetto “Manifesto di Calenda” , come è passato in termini giornalistici, rimanda terminologicamente a quello che è stato il Manifesto di Marx ed Engels. Ecco, tale paragone è assai improprio oltre che dal punto di vista dei contenuti (ovviamente) anche dal punto di vista del metodo. Quello pubblicato dal “Il Foglio” non sembra l’analisi o le previsioni future a seguito di un costante e lungo lavoro e di un vasto studio, piuttosto appaiono le considerazioni solipsistiche dell’ex Ministro dello sviluppo economico che, in una giornata, ha buttato giù quello che pensava.
Il programma si richiama, sostanzialmente, al liberismo del centrosinistra degli anni ’90 ovvero la riproposizione dell’UE, più forte e più strutturata, la prosecuzione delle politiche di immigrazione secondo la declinazione del piano Minniti, l’alleanza al patto atlantico e un non meglio definito “stato forte”.
L’unico accenno che merita un approfondimento è quello sulla digitalizzazione del lavoro, con la conseguente contrazione dei posti di lavoro (chissà se anche a sinistra qualcuno si sveglierà su questo punto). Calenda ha una visione positiva dell’evoluzione perché accompagnata da politiche pubbliche, senza farci capire quali siano anche considerando le compatibilità dell’UE. Nessun riferimento agli investimenti che lo Stato potrebbe fare per sviluppare nuovi posti di lavoro.
È indefinito e quasi paradossale l’appello agli elettori del campo dei progressisti o di un fronte repubblicano. Quali sono? A quali ceti appartengono? Che lavoro fanno? L’unico indizio che dovrebbe riunirli è l’opposizione al “sovranismo anarcoide di Lega e 5 stelle”.
Il Manifesto di Calenda parte da assunti corretti per giungere a conclusioni totalmente errate. La crisi dell’Occidente e delle classi dirigenti progressiste sono un dato di fatto innegabile. Rispondere a una simile analisi con l’imposizione delle politiche che ci hanno condotto fino a qui è schizofrenia politica. Come diceva giustamente Einstein “la follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi”.
Bene, azzardare che “ogni riferimento all’uscita dell’Italia dall’euro ci avvicina al default” è esattamente questo. Pretendere di perseverare nelle politiche ordoliberiste e poi stupirsi per l’affermazione dei populismi è sintomo di inconsistenza di pensiero politico, sorretta dall’ignoranza di chi definisce il pensiero di M5S e Lega un “sovranismo anarcoide”. Un simile ossimoro non è di certo nelle corde dell’attuale maggioranza. D’altra parte i risultati elettorali a sinistra sono lo specchio di questa inconsistenza. Verrebbe da dire che questi ingenui non riusciranno nemmeno a salvare se stessi, altro che voler salvare la Repubblica dai sovranisti anarchici! Quanta originalità (si legga schizofrenia) in questa definizione.
Questi signori che blaterano tanto dell’analfabetismo funzionale hanno provato a sostenere teoricamente i concetti che inventano di sana pianta nei loro manifesti? Certo che no. Loro comprano i loro spazi pubblicitari e agiscono secondo le più barbare logiche del marketing.
Aggiungerei che anche le conclusioni del Manifesto sono corrette: siamo ad un crocevia della Storia. E nel bene e nel male loro non ne faranno più parte.
Il manifesto politico scritto da Carlo Calenda ed indirizzato, a fine di pubblicazione, al direttore de Il Foglio è stato analizzato nei contenuti nei commenti dei miei colleghi. Io vorrei utilizzare le poche righe a mia disposizione per portare l’attenzione non tanto sul cosa ma sul come.
Carlo Calenda è stato uno dei tanti brillanti dirigenti d’azienda e uomini dell’economia prestati alla politica negli ultimi anni. Dopo aver orbitato attorno all’esperimento di Scelta Civica di Mario Monti, ha ricoperto la carica di Ministro per lo Sviluppo Economico con i governi Renzi e Gentiloni.
La cosa che salta all’occhio è come l’ex Ministro, dall’indomani della disfatta elettorale del 4 marzo, abbia deciso di mostrare una verve propositiva che, almeno alla sottoscritta, era sfuggita nel corso del suo mandato, cercando di proporsi come colui che sarebbe in grado di traghettare i tanto martoriati progressisti italiani verso lidi più sereni. A questo manifesto pieno zeppo di ricette keynesiane, sono state aggiunte tattiche comunicative che cercano di tenere il passo con le nuove sfide poste dalla politica oggi (utilizzo massiccio dei social) ed un linguaggio che prende di mira apertamente il Movimento Cinque Stelle quale avversario reazionario ed incompetente (degno di nota il video Facebook con il passaggio di consegne al nuovo Ministro Di Maio).
Carlo Calenda ha deciso di prendere la tessera del Partito Democratico subito dopo le elezioni dicendo di essere disposto a dare il proprio contributo al risollevamento di un partito che necessita di un ripensamento. Questa operazione del manifesto, in che modo si colloca in tutto ciò? Gli organismi del Partito Democratico sono stati coinvolti? È stato discusso? Ecco, un’operazione da one man show come questa, con la quale le sorti dei progressisti italiani vengono affidate nelle mani di un solo uomo investito di visibilità quasi profetica, ricorda moltissimo, almeno a me, quella che vide protagonista Fabrizio Barca. E sappiamo tutti come è finita.
La proposta politica lanciata da Carlo Calenda può essere letta sotto due aspetti, quello strettamente programmatico e quello strategico.
Riguardo al programma, risulta assolutamente condivisibile la posizione di tutela nei confronti dei lavoratori e dei pensionati i cui redditi, pur se oggi sicuri, sarebbero falcidiati dall’inflazione in caso di uscita dell’Italia dall’euro. Per quanto riguarda i lavoratori precari, intendendo per essi non solo quelli con contratti a termine ma anche quelli pericolosamente esposti al vento della concorrenza e del dumping salariale, il manifesto prevede l’irrobustimento delle prestazioni sociali, l’introduzione del salario minimo e l’impegno contro le delocalizzazioni. Per render infine sostenibile la posizione dell’Italia si prevede un massiccio investimento nella conoscenza, sia in termini praticamente formativi (che aiutano sul lato economico) sia in termini di istruzione generale (che aiutano sul piano sociale). In un’epoca di imbarbarimento e di impoverimento culturale e dopo il saccheggio della scuola compiuto dalla Gelmini meritano di essere citati per esteso i punti «Estensione del tempo pieno a tutte le scuole. Programmi di avvio alla lettura, lingue, educazione civica, sport per bambini e ragazzi. Utilizzo del patrimonio culturale per introdurre i bambini e i ragazzi all’idea, non solo estetica, di bellezza e cultura.».
Più timide invece altre posizioni: sulla gestione dell’immigrazione ci si rifà al lavoro di controllo dei flussi avviato da Minniti ma non si parla contestualmente di favorire l’integrazione dei migranti tramite la revisione della Bossi-Fini e delle condizioni per ottenere la cittadinanza. Viene confermato inoltre il deciso schieramento atlantico dell’Italia. Più importante di tutto, si dice espressamente che «non esistono le condizioni storiche oggi per superare l’idea di nazione. Al contrario abbiamo bisogno di un forte senso della patria per stare nel mondo e in UE.», questo proprio mentre lo Stato-nazione è al collasso e da tale sua incapacità divampa il fuoco del fascismo (o populismo).
A cosa mira un simile manifesto? Evidentemente ad aggregare in un vasto fronte (il “fronte repubblicano”, appunto) uno schieramento che possa raccogliere la maggioranza in tutte le classi sociali esposte alla propaganda fascista: la classe operaia minacciata dalla globalizzazione dei mercati, la piccola borghesia pauperizzata, la piccola e media borghesia che temono di pauperizzarsi. Tutti settori che vengono oggi condotti a odiare l’euro e gli stranieri.
L’intento riprende, con accenti molto più moderati, l’originario programma di Renzi. Questi però intendeva non solo costruire un fronte antifascista dettato dall’emergenza, bensì usare l’emergenza per fondere una nuova coscienza nazionale fondata sul collegamento tra lotta antifascista e costruzione europea. Su entrambi questi punti si torna indietro: l’Europa viene tratteggiata come un patto tra nazioni (seppur non tra Stati, anzi gli egoismi dei singoli Stati vengono posti in apertura del manifesto come radice delle inefficienze della UE), mentre l’antifascismo non viene menzionato – per quanto il termine «sovranismo anarcoide» sia un’ottima descrizione del fascismo qualunquista italiano. Il passo indietro è dettato dall’indebolimento della sinistra avvenuto tra dicembre 2016 e marzo 2018 e dalla conseguente necessità di allargare le alleanze.
Strategicamente, Calenda, a differenza di Rossi che vuol fare la rivoluzione socialista (ma dopo queste amministrative è sembrato un po’ più moscio in tema), ha imparato la lezione degli anni Trenta-Quaranta e capito la necessità di fronti democratici nazionali. Il punto debole potrebbe essere semmai l’ambizione di «offrire uno strumento di mobilitazione ai cittadini che non sia solo una somma di partiti malandati» e il cui programma, sopra delineato, non si esaurisca nel contrasto al sovranismo anarcoide. Come Calenda riconosce l’importanza della percezione popolare in merito all’idea di nazione, così dovrebbe riconoscere che ancora troppo distanti e troppo diffidenti l’uno verso l’altro sono gli elettori dei vari partiti. Basti dire questo: esistono elettori sedicenti di sinistra che provano nausea di fronte a Forza Italia ma che non hanno alcuna remora a votare M5S. Le convinzioni profonde e radicate dell’elettorato possono rivelarsi un ostacolo di rilievo, per superare il quale sarebbe utile riorganizzare il PD sul territorio con un’identità più nettamente caratterizzata sui temi sociali e del lavoro. «Ogni ipotesi frontista su categorie non sentite intimamente dalla gente porterà a nuove sconfitte», ha avvertito Zingaretti. Sarebbe utile che i due leader si parlassero: per battere il fascismo sono necessari Macron e Corbyn, insieme.
Il fallimento del renzismo sta interrogando molte figure politiche della sinistra moderata italiana. Da una parte l’idea che non si possa rompere con le istituzioni europee e finanziarie, né con il modello economico neoliberista, dall’altra la consapevolezza che sacrificare i valori progressisti sull’altare dei mercati abbia eroso quel che rimaneva del consenso politico alla sinistra di governo italiana. Questa empasse è al centro dell’ennesimo, fiacco tentativo di rilanciare e rivitalizzare la sinistra riformista in Italia, il cosiddetto “manifesto Calenda”, nel quale si vorrebbe restituire dignità al lavoro, aiutare i perdenti della globalizzazione e ridare vigore ai diritti sociali senza intaccare minimamente le logiche economiche e politiche che dominano incontrastate nel nostro paese da oltre trent’anni. Come?
La contraddizione di fondo appare subito lampante. Nell’incipit si prende giustamente coscienza che il lento ma inarrestabile declino dei riferimenti politici e culturali della cultura progressista a livello internazionale, obbliga a ripensarne forma e sostanza. Afferma Calenda: “la crisi dell’Occidente ha portato alla crisi delle classi dirigenti progressiste che hanno presentato fenomeni complessi, globalizzazione e innovazione tecnologica prima di tutto, come univocamente positivi, inevitabili e ingovernabili allontanando così i cittadini dalla partecipazione politica. Allo stesso modo l’idealizzazione del futuro come luogo in cui grazie alla meccanica del mercato e dell’innovazione il mondo risolverà ogni contraddizione, ha ridotto la narrazione progressista a pura politica motivazionale”. Giusto. Ma quali sono le proposte concrete volte a correggere le disfunzioni del mercato e una globalizzazione incontrollabile? Oltre a rimarcare la fedeltà alla NATO, a rivendicare la bontà del piano Minniti e la necessità del processo di integrazione europea, Calenda propone di portare avanti la rivoluzione digitale e “proseguire il piano impresa 4.0”. Insomma prima si ammette che la retorica dell’innovazione, in un contesto di aumento della povertà, ha tolto credibilità alla sinistra e poi si persevera con il linguaggio entusiastico e renziano del digitale e del 4.0. Se molti accusano giustamente Renzi di aver annichilito ogni velleità di giustizia sociale e redistribuzione del reddito nella sinistra, si dovrà riconoscere che Calenda non va molto oltre, neppure nelle intenzioni: rafforzare il reddito di inclusione e introdurre il salario minimo, che sembrano le due proposte più concrete e di sinistra dell’intero Manifesto, erano del resto due degli obiettivi di Renzi. Niente di rivoluzionario dunque.
Fra altre proposte generiche “nuovi ammortizzatori sociali” (ma quali?), diminuzione delle tasse per le aziende (idea non così tanto progressista) e lotta all’analfabetismo funzionale (che potrebbe essere sottoscritta da qualsiasi partito), non si scorge una grande diversità di vedute rispetto al renzismo, né appare un piano coraggioso di trasformazione dello status quo. Cercando di destreggiarsi fra servilismo nei confronti del mercato e stato sociale, fra accettazione della globalizzazione e velleità di restituire un ruolo da protagonista al settore pubblico, si finisce solamente per ripetere le stesse politiche antipopolari che le socialdemocrazie e i partiti riformisti hanno portato avanti in tutto il mondo occidentale dalla caduta del Muro di Berlino in poi, pagando poi un conto salatissimo nelle urne. Il manifesto di Calenda non è poi così tanto 4.0.
Immagine di copertina liberamente ripresa da repubblica.it
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