Nel commentare il recente tomo del prof. Israel Il grande incendio. Come la Rivoluzione americana conquistò il mondo, 1775-1848 (edito in Italia da Einaudi, Torino 2018), è utile anzitutto operare una distinzione preliminare tra la tesi di fondo dell’autore e il modo in cui egli la sostanzia.
La tesi, nota nel professore, è l’esistenza di una differenza e una divisione fondamentali tra l’Illuminismo moderato di ascendenza lockiana e montesquiviana e l’Illuminismo radicale discendente invece da Spinoza. La forma concreta con cui detta divisione si presenta in campo nordamericano sarebbe la lotta politica tra federalisti e repubblicani (e tra i gruppi che li precedettero). In più, l’Illuminismo radicale sarebbe alla base tanto della Rivoluzione americana (Paine, Franklin, Jefferson) quanto della Rivoluzione francese (Mirabeau, LaFayette, Brissot). Le supposte differenze tra il movimento rivoluzionario delle Tredici colonie e quello francese sarebbero dovunque ascrivibili unicamente alla svolta conservatrice attuata negli Stati Uniti nell’ultimo decennio del Settecento, sotto l’influsso convergente dei religiosi battisti e metodisti del “Secondo grande risveglio” e del partito federalista rappresentante l’élite commerciale e finanziaria del Nord-Est – mentre, a partire dal 1793, sarebbe stato il corso francese a deviare dai binari illuministici comuni ai due movimenti.
La tesi in sé è validamente supportata da una nutrita mole documentaria riguardante i padri costituenti nordamericani, i filosofi e pensatori che li ispirarono e li affiancarono, il personale diplomatico e civile che costituì il primo gruppo dirigente degli Stati Uniti.
Riguardo invece la distinzione tra moderati e radicali, appare in verità più azzeccata la variante del prof. Kloppenberg, che, da un lato riconosciuto da Israel per la condivisione dell’esistenza di tale distinzione, viene dall’altro criticato in quanto
«caratterizza l’“Illuminismo radicale” in maniera piuttosto restrittiva, come semplice ateismo e materialismo […] mentre nel panorama teorico-politico americano successivo all’indipendenza raggruppa – a mio parere a torto – sotto la categoria di “moderate” le tendenze jeffersoniane (democratiche) e hamiltoniane (aristocratiche)».[1]
Ma il nodo problematico che intralcia la visione del prof. Israel, e lo scoglio su cui poi giungono a infrangersi le contraddizioni della sua tesi per come essa viene sostanziata, è dichiarato in piena onestà intellettuale già nell’Introduzione:
«Proprio come sarebbe accaduto in seguito con il bolscevismo, il fascismo, il nazismo, lo stalinismo e il maoismo, che si misero alla testa di sollevazioni rivoluzionarie molto diverse, le ideologie […] di solito sfruttano le pressioni sociali ed economiche esistenti modellandole a propria immagine, anziché essere generate da esse. Le rivoluzioni, quindi non sono modellate dalla socievolezza o dagli atteggiamenti generali delle popolazioni, ma da avanguardie rivoluzionarie organizzate che si servono del proprio linguaggio politico distintivo, della propria retorica e dei propri slogan come mezzi per catturare, prendere il controllo e interpretare il malcontento generato dalle pressioni sociali ed economiche esistenti»[2].
Queste poche frasi pongono numerosi punti interrogativi e problemi interpretativi, di nomenclatura e quindi di teoria (le nomenclature scientifiche hanno sempre un preciso fondamento di significato).
Anzitutto è quantomeno controverso definire fascismo e nazismo, movimenti controrivoluzionari particolarmente feroci, come «sollevazioni rivoluzionarie», così come inadeguato tale termine pare per lo stalinismo, che a differenza degli altri -ismi citati si riferisce unicamente a un metodo di gestione del potere e non invece anche a un movimento che, partendo dall’opposizione, ha assunto il potere.
Ma, soprattutto, lo storico – a differenza, ad esempio, del sociologo – non dovrebbe creare modelli e casellari che cerchino di riassumere il reale, bensì al contrario dovrebbe cercare nel reale stesso le sue risposte. In concreto: perché la situazione sociale in Russia ebbe come epilogo il regime bolscevico? Perché la situazione sociale in Italia, in quegli stessi anni, ebbe come sbocco invece l’affermarsi del fascismo? Perché in Germania dei due movimenti di protesta durante la crisi economica – quello comunista e quello nazionalsocialista – fu quello di estrema destra a prevalere?
Si tratta davvero soltanto di una diversa capacità delle avanguardie dei diversi movimenti?
In realtà, questi punti interrogativi presenti nella base teorica addotta dal prof. Israel non mancano di generare nodi interpretativi che inevitabilmente vengono al pettine del lettore.
Uno dei più corposi assaggi è contenuto in queste poche parole:
«Tra il 1789 e il 1791 cominciava già a intravedersi un segno, seppur piccolo – tranne nel giornale volgarmente demagogico di Marat, “L’ami du peuple” – del futuro populismo anti-illuminista, dell’autoritarismo e dell’intolleranza che, dalla metà del 1793, danneggiarono la rivoluzione [francese]»[3].
Tale definizione di Marat fa da pendanta quella ancora più ostile riservata a Robespierre:
«Decisamente antirepubblicano e monarchico negli anni dal 1789 alla fine del 1791, dalla fine del 1792 Robespierre cedette, diventando un “repubblicano” di nome ma, naturalmente, non fu mai repubblicano nel vero senso della parola, e meno che mai democratico. Robespierre era infatti il principale avversario dei repubblicani democratici francesi, e rifiutava totalmente le loro politiche […]. I montagnardi […] alla fine presero il potere attraverso un colpo di stato organizzato il 2 giugno 1793: rovesciarono così la rivoluzione democratica e repubblicana, mettendo fine alla libertà di pensiero, di espressione e di stampa, e aprendo la strada alla sospensione della costituzione democratica […] trasformandosi in quello stato di incostituzionalità, repressione, orrore, coercizione popolare organizzata e bagno di sangue che fu il Terrore»[4].
I problemi qui sono due, uno basilare di verità storica e l’altro di visione interpretativa. Partiamo dalla verità storica. Per tediosa che possa essere l’esposizione, è possibile chiedersi per punti:
- Per quale motivo il sostegno di Robespierre alla soluzione monarchico-costituzionale dovrebbe valergli il marchio di “antirepubblicano e monarchico” mentre l’analogo sostegno di LaFayette (che, a differenza dell’Incorruttibile, aveva l’interesse a oscurare il re per divenire di fatto il dittatore militare di Francia) dovrebbe invece portarci a considerare il marchese come il pragmatico autore di un felice compromesso di centro-sinistra[5]?
- Per quale motivo il governo girondino, che aveva gettato la Francia nella guerra e l’aveva esposta all’assedio e all’invasione delle potenze reazionarie, senza saper presidiare la situazione alimentare né frenare il mercato nero, dovrebbe essere elogiato come “repubblicano e democratico”, mentre il governo giacobino, che conseguì la vittoria sul fronte bellico e sul fronte interno, dovrebbe essere considerato l’assassino della rivoluzione?
- Per quale motivo la Costituzione del 1791, monarchica, dovrebbe essere considerata “democratica”, mentre quella del 1793 – la più avanzata del periodo rivoluzionario – equivalente a uno “stato di incostituzionalità”?
- Per quale motivo il Terrore dovrebbe essere definito “bagno di sangue” quando, cifre alla mano, fu molto meno cruento della fase “moderata”, costellata di massacri indiscriminati e di linciaggi (la Grande Paura, il 14 luglio, i massacri di Settembre…)?
- Perché, infine, l’arrivo dei giacobini al potere nel 1793 dovrebbe venir bollato come “colpo di stato” mentre l’assalto della folla alla famiglia reale il 10 agosto 1792 scusato citando in proposito le giustificazioni coeve addotte da Jefferson?[6]
È proprio nel rivolgerci alla visione interpretativa che troviamo la risposta a queste domande.
Uno dei grandi meriti del libro è quello di smascherare i tratti antidemocratici e di arbitraria autorità presenti nella filosofia politica di John Locke, che altrimenti e troppo spesso è salutato come uno dei padri delle moderne garanzie liberali:
«in Locke la proprietà era la base della divisione sociale in classi, […] l’istruzione era essenzialmente una questione privata che doveva adattarsi alle questioni di proprietà senza alcun ruolo pubblico, […] la sovranità popolare si estendeva solo al “patto” tra il popolo e il potere esecutivo, […] la disponibilità di Locke escludeva la laicità, estromettendo gli atei dalla tolleranza dello stato e mettendo i cattolici e gli ebrei in una posizione subordinata […]. La filosofia di Locke, in altre parole, era un ostacolo assoluto alla creazione di una società democratica»[7].
In questo passo il prof. Israel sembra, di fatto, accusare la presenza di uno iato tra le basilari enunciazioni lockiane (la tolleranza, il contrattualismo, la separazione dei poteri) e il modo concreto con cui esse vengono applicate ai sistemi politici.
L’errore di Locke, tuttavia, appare ripresentarsi anche in Israel stesso nel momento in cui egli confina l’Illuminismo al mondo delle idee, tracciando in tale mondo le linee di demarcazione tra moderatismo e radicalismo ed estromettendo dalla categoria di Illuminismo tutto ciò che è anzitutto realizzazione di fatto (e quindi, chiaramente, Robespierre e Marat, così come Napoleone).
Ma poiché Israel scrive di storia, e la storia si occupa di fatti reali, non può nascondere il prezzo che una tale separazione tra idee e fatti si trova a pagare.
Il libro si compone di ventun capitoli nei quali si analizzano anzitutto le condizioni di maturazione della Rivoluzione americana, indi alcuni nodi cruciali affrontati o irrisolti dalla Rivoluzione stessa, infine i successivi episodi rivoluzionari sulle due sponde dell’Atlantico da essa influenzati in misura maggiore o minore. Il tutto è intervallato con riferimenti allo sviluppo politico statunitense, fino al 1848 che, segnando l’inizio dell’avvento del socialismo nei movimenti rivoluzionari europei, suggellò il distacco da essi del gruppo dirigente e dell’opinione pubblica delle ex colonie.
È proprio nella descrizione delle altre sollevazioni, europee o americane, che si presenta in maniera impietosa (e sia pure indiretta) il confronto con il giacobinismo francese.
Nell’Irlanda del 1798 i rivoluzionari locali adoprarono
«i concetti democratici ed egualitari dell’Illuminismo che risuonavano ovunque per mobilitare gli analfabeti e i semianalfabeti contro coloro che sostenevano il duro ordine vigente, ma non riuscirono a mobilitare le idee illuministe con una forza o una diffusione tali da dirigere in modo efficace la rivolta o da mitigare il grande caos, la violenza, il fanatismo e il bagno di sangue che ne seguirono»[8],
operazione che era invece riuscita ai dirigenti giacobini nel periodo 1793-94.
Per quanto riguarda la Spagna, in cui le simpatie del prof. Israel vanno al movimento di opposizione liberale, contrario tanto all’assolutismo borbonico quanto all’occupazione napoleonica,
«Paradossalmente, il circolo intellettuale di Cadice si trovò a capo di un movimento popolare superficialmente radicale, ma in realtà guidato dal conservatorismo, dai sentimenti tradizionalisti e da un profondo lealismo emotivo. […] Nei loro articoli e pamphlet, Quintana, Argüelles e Muñoz Torrero sottolineavano l’importanza vitale della libertà di stampa e della libertà di critica per rafforzare “la voce del popolo”, per quanto quest’ultimo nella mente di Argüelles si esaurisse essenzialmente nella sua componente urbana e istruita […] ma l’eccessiva fiducia riposta nei discorsi, nei manifesti e negli slogan si sarebbe di lì a poco rivelata la principale debolezza dei radicali».[9]
Al di là dell’ultima osservazione, che può suonare quasi come un’ironica autocritica da parte dell’autore, è qui lampante il contrasto con l’odiato Marat che attraverso il «volgarmente demagogico» Ami du peuple riuscì a portare sulla stampa la voce del popolo parigino e al contempo, per mezzo dell’alleanza coi giacobini, a incanalarne le energie nella costruzione di una società più equa e più democratica invece che in sanguinarie e sterili esplosioni di violenza di piazza.
Mancando in Spagna questo collegamento tra Illuminismo radicale e masse, l’epilogo fu tanto infelice quanto prevedibile: il re Borbone tornato sul trono accettò inizialmente la Costituzione di Cadice ma
«poco dopo fece un drastico voltafaccia, adottando intransigenti posizioni anti-illuministiche con il sostegno di clero, nobiltà e dei molti reazionari […] non esitò a usare l’esercito reale per accerchiare i liberales, che pure avevano sostenuto la sua causa contro Napoleone. Furono arrestati a migliaia, tra cui anche Argüelles».[10]
E in America Latina, per limitarci alla disarmante e disarmata ammissione del prof. Israel, «avendo un’idea molto vaga del repubblicanesimo, i neri, i pardose gli altri meticci si dichiararono in maggioranza leali alla monarchia».[11]
Ancora nella fase conclusiva l’autore si dimostra, allo stesso tempo, sia pervicacemente coerente con la propria impostazione dichiarata in apertura sia nel centro di una contraddizione di cui pare non avvedersi, affermando in perfetta onestà che
«A essere attratti e affascinati dalla nuova visione del futuro dell’umanità espressa dalla Rivoluzione americana, tuttavia, non furono mai le élite costituite, né i re, né gli aristocratici o gli uomini di chiesa, e raramente anche la gente comune, ma piuttosto una frangia intellettuale isolata, curiosa e critica»[12].
Il rapporto tra «atteggiamenti generali delle popolazioni» e «avanguardie organizzate», alla fine di un’esposizione lunga tre vivissimi quarti di secolo, risulta però molto diverso da quanto tranquillamente enunciato in fase introduttiva, nella quale la totalità dell’azione veniva ascritta appunto alle avanguardie intellettuali. La storia delle rivoluzioni del Settecento e dell’Ottocento mostra infatti che i successi sono stati direttamente collegati alla capacità degli intellettuali di mantenere un’alleanza stretta con le masse, altrimenti abbandonate a obbedienze di carattere sanfedista.
È interessante, a questo proposito, tentare di effettuare, nei limiti del possibile, un bilancio storico delle esperienze politiche sulle quali maggiormente si appuntano le simpatie del prof. Israel: Jefferson negli Stati Uniti e i girondini in Francia, esperienze che l’autore appassionatamente difende contro i loro critici di destra (i federalisti americani, i monarchici francesi) e di sinistra (i giacobini).
Per quanto riguarda i girondini francesi, si è già detto della grave condizione nella quale avessero lasciata (e in parte condotta) la Francia e di come la nazione fu guidata dal regime giacobino a una vittoriosa resistenza e contrattacco.
Non meno inutile è l’analisi del governo jeffersoniano, del resto condotta dallo stesso Israel. Con le elezioni presidenziali del 1800 Jefferson giunse alla Presidenza, realizzando due importanti traguardi: per la prima volta il voto degli elettori portava l’opposizione alla guida del governo, fondando così un sistema dell’alternanza, e per la prima volta giungeva al governo l’allora sinistra politica, peraltro immediatamente dopo il tentativo di Hamilton di imporre una cappa autoritaria, conservatrice e xenofoba sostenuta dai capitali commerciali. Ma in realtà, come onestamente riporta Israel, la vittoria di Jefferson era dovuta ad una serie di ingredienti concomitanti: la divisione intestina dei federalisti tra i conservatori compassionevoli di Adams e quelli spregiudicati di Hamilton; il consenso granitico fornito a Jefferson, per motivi di corregionalità, dagli stati schiavisti del Sud; il ripudio esplicito del giacobinismo che, già enunciato da Jefferson, si fece ancora più forte nel tentativo di catturare il consenso elettorale delle nuove denominazioni religiose.
Nel tentativo di evitare agli Stati Uniti il destino francese – guerra civile, dittatura giacobina, dittatura militare – Jefferson perseguì una politica di moderazione e compromesso che emarginò del tutto le posizioni radicali e dette invece avvio all’unico periodo degli Stati Uniti di governo a partito unico – la cosiddetta “era dei buoni sentimenti”. L’ideologia ufficiale e condivisa si era assestata su un terreno conservatore, confessionale, schiavista se non apertamente razzista e Jefferson, seppure intimamente democratico, confinò le proprie personali opinioni alla corrispondenza privata, evitando di trasfonderle nell’opera di governo.
Insomma, tanto in Europa quanto in America i governi repubblicano-democratici furono esizialmente compromessi dalla mancata saldatura tra i principii rivoluzionari e le masse che avrebbero dovuto sostenerli.
Non è peregrino, infine, osservare come la mancata acquisizione del ruolo delle masse – fondamentale, sia che attivo, sia che passivo – impedisca a Israel di abbozzare analisi adeguate di altri due movimenti, il bonapartismo e il socialismo.
Per quanto riguarda il primo, Napoleone viene etichettato come «rovescia[tore] dei valori rivoluzionari»[13], sebbene nel corso del libro non si possa nascondere che quei valori egli aveva in realtà diffusi in tutta Europa e che proprio dai ranghi degli ufficiali napoleonici uscirono, ad esempio, i primi rivoluzionari italiani o i primi volontari stranieri nella rivoluzione greca.[14]
Riguardo il socialismo, invece, l’autore sembra adottare la posizione di aporia di John Stuart Mill, che, pur considerando «ingiustizia» il «fatto che alcuni nascono ricchi e la grande maggioranza poveri», esprimeva sgomento nei confronti della «tirannia della società sull’individuo che la maggior parte dei sistemi socialisti implicherebbero».[15]Sebbene privo di accenti maccartisti, il pensiero di Israel appare chiaro: il socialismo non solo non è un’evoluzione dell’Illuminismo, ma anzi costituisce una forma di «populis[mo] autoritari[o]».[16]
Il 1848 segnò, con epicentro a Parigi, la fine dell’epoca rivoluzionaria borghese e l’inizio di quella proletaria; è proprio la lettura di questo momento di frattura a rendere la maggiore giustizia all’interpretazione profonda del prof. Israel. Inizialmente egli non può che riconoscere implicitamente la ragione dei socialisti nel voler rimandare la convocazione delle elezioni a suffragio universale, temendo essi l’ondata del voto clericale delle campagne, che puntualmente si verificò «con l’ironica conseguenza che adesso in parlamento sedevano più nobili, proprietari terrieri e soprattutto membri del clero che in qualsiasi assemblea sotto Luigi Filippo».[17]Ma, infine, il tentativo rivoluzionario di giugno per una gestione dello Stato da parte dei lavoratori viene bollato come un crimine, e l’assassino della Repubblica viene identificato non nella
«borghesia provinciale che voleva difendere il diritto di proprietà contro il proletariato parigino, ma [nel]la rivolta socialista ai danni di un debole regime repubblicano che rifiutava di agire incostituzionalmente contro la vittoria elettorale dei conservatori».[18]
Dell’epilogo finale, ossia l’avvento al potere del «populismo di destra» incarnato da Luigi Napoleone Bonaparte[19], viene data notizia come di una condanna annunciata – senza chiedersi, ad esempio, perché proprio al principe demagogo fosse andato il voto non solo delle campagne, ma dello stesso popolo di Parigi, che vedeva in lui il nemico dell’Assemblea nazionale che aveva fatto sparare sui lavoratori a giugno 1848.
La lettura di quest’ultima fase critica e convulsa delle rivoluzioni borghesi riassume, insomma, tutto l’afflato che sostanzia l’opera di Israel e che ne costituisce uno dei tratti distintivi: l’incrollabile fiducia in una dimensione politica limitata ai momenti istituzionali e agevolata da due potenti alleati, l’istruzione e la libertà di stampa.
La fiducia – tutta illuministica, bisogna darne atto – in tali alleati, che era possibile coltivare in periodi di un largo analfabetismo a cui si potevano addossare le responsabilità della barbarie e dell’oscurantismo, viene a dire il vero messa in dubbio citando le parole del repubblicano cileno Antonio José de Irisarri:
«La stessa libertà di stampa sarà “svantaggiosa anziché benefica qualora non offra la verità a uomini liberi dall’errore, dalla passione e dall’interesse”. Solo l’Illuminismo può produrre un esito sensato e coerente, capace di stabilizzare le società, di beneficare l’intero corpo sociale e di creare la pace».[20]
Ma, come si vede, una volta preso atto della fallibilità di una dimensione di lotta solamente ideale, la via scelta non è quella di una discesa nelle contraddizioni delle reali situazioni sociali, ma al contrario quella di un ritiro verso un’archetipica idea di “Illuminismo”.
I grandi e principali meriti del libro risiedono nel contributo alla consapevolezza delle divisioni interne al campo illuminista e nelle ricche e dettagliate parti analitiche relative allo sviluppo della coscienza politica ufficiale e dell’opinione pubblica americane. Queste ricostruiscono la storia evolutiva di un’entità politica nuova e straordinaria – la repubblica federale illuminista – e di come essa si sia spostata dalle proprie origini radicali su terreni conservatori, confessionali, se non apertamente xenofobi.
Il tomo si chiude lasciando un bagliore di curiosità e di speranza: viene citato il proposito espresso dal futuro Presidente Lincoln, nel 1855, di emigrare in Russia se il partito xenofobo avesse preso il potere, preferendo egli la tirannia aperta e dichiarata a quella mascherata ed ipocrita. Poiché il lettore sa che nel giro di dieci anni l’opera di Lincoln (che, assassinato, non ne vide la prosecuzione) avrebbe portato all’abolizione della schiavitù, ne può desumere come giammai si esauriscano i margini della lotta per il progresso e come essa trovi i suoi maggiori successi laddove i principii vengono incarnati in un’azione di massa.
[1]Israel, Il grande incendio, p. 20.
[2]Ivi, p. 18.
[3]Ivi, pp. 325-326.
[4]Ivi, p. 335.
[5]Ivi, pp. 324-327.
[6]Ivi, p. 334.
[7]Ivi, p. 110.
[8]Ivi, p. 382.
[9]Ivi, pp. 508-510.
[10]Ivi, p. 535.
[11]Ivi, p. 533.
[12]Ivi, p. 714.
[13]Ivi, p. 501.
[14]Ivi, p. 580.
[15]Ivi, pp. 657-658.
[16]Ivi, p. 699.
[17]Ivi, p. 666.
[18]Ivi, p. 669.
[19]Ivi, p. 671.
[20]Ivi, p. 523.
Immagine di copertina liberamente ripresa da commons.wikimedia.org
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.