In un articolo dell’inserto economico di La Repubblica si parla del “capitalismo del web” come della “vera rivoluzione”. In tedesco viene definita Plattform-Kapitalismus, in inglese Sharing Economy. Chi si oppone a questo nuovo modello viene chiamato “conservatore” e additato come persona fuori dalla storia. Eppure in questo meccanismo ogni pezzo della nostra vita diventa merce e non esiste alcuna regola al di fuori di quelle del mercato. Di nuovo torna l’elogio della flessibilità, come se questa non si fosse rivelata un dramma di precariato ed insicurezza nel recente passato. Come risponderesti ad Alessandro De Nicola, autore del suddetto articolo?
Direi che De Nicola,
e gli altri con i quali fa il corifero, vedono dei cambiamenti senza
rendersi conto di che cosa si tratta. Da come descrive il
Plattform-Kapitalismus – “un sistema di scambi volontari
attraverso il quale una persona mette a disposizione i propri beni
per il loro utilizzo parziale da parte di altri attraverso una
piattaforma web gestita da un’organizzazione o un’impresa”
descrive un’evoluzione del sistema in modo apologetico, invece che
critico. Non vede, innanzi tutto, che c’è una forma di parassitismo
dell’impresa che crea la piattaforma, la quale preleva una parte dei
soldi che passano di mano per il solo fatto di fare da intermediario.
In fondo, dietro a questo sistema non c’è altro che il vecchio
commerciante tecnologicamente ripulito.
Tuttavia, in quel “mette
a disposizione” c’è una dinamica della quale De Nicola non ha
proprio idea. La società borghese poggia infatti storicamente sul
fatto che i beni di ognuno sono sua proprietà esclusiva.
Storicamente chi ospitava a casa sua estranei in cambio di denaro era
considerato un “poveraccio”, che non aveva abbastanza per vivere
e lo rimediava in quel modo. Ricordo ancora chiaramente gli
affittacamere degli anni ’40 e ’50 nel mio palazzo, così come
ricordo delle famiglie che riciclavano i vestiti dismessi dei figli
per integrare un misero reddito. Questo perché alla forma merce
della ricchezza si accompagnava normalmente l’uso esclusivo della
stessa. Solo i poveri dividevano quel poco che avevano in cambio di
denaro, ma lo facevano perché costretti dalla loro povertà. È
fuori di dubbio che, se il buon Adam (personaggio della “parabola”
apologetica del De Nicola) avesse i soldi agirebbe in tutt’altra
maniera, e cioè noleggerebbe una macchina o prenderebbe un taxi
invece di doversi rivolgere a quello che fino a ieri era considerato
un abusivo; invece di andare a casa di una “deliziosa”(?)
vecchietta a mangiare, andrebbe in un buon ristorante; invece di
noleggiare uno smoking, che magari gli andrà largo o stretto, lo
avrebbe comperato; invece di affittare una casa per tre giorni
sarebbe andato in albergo. L’ignorare che la condivisione per
necessità è una manifestazione di povertà, può derivare solo da
una forma apologetica di pensiero, che raccolta la vita in maniera
favolistica. Gli individui che non possono soddisfare i loro bisogni
sono costretti a muoversi entro limiti che mettono in discussione la
loro proprietà (privata), e poiché gli intermediari capitalisti
creano le condizioni tecniche della riuscita di questo regresso, De
Nicola e gli altri la incensano come “libertà rivoluzionaria”.
La
mistificazione sta, dunque, nel far apparire questa necessità come
una libertà. Nel rappresentarla addirittura come un potere nuovo,
che “rivoluzionerebbe” lo stato di cose esistente. Qui bisogna
procedere con circospezione. È vero che questa forma di condivisione
mercantile di momenti della vita e della cose rappresenta
un’ulteriore socializzazione delle condizioni dell’esistenza. Ma
il fatto che intervenga in forma capovolta, cioè sulla base dei
rapporti capitalistici, la determina come un’evoluzione
profondamente contraddittoria. Per spiegarmi meglio. Un passaggio del
genere è già intervenuto nella storia dell’umanità. Come forse
sai, nel Seicento e nel Settecento, molti borghesi in ascesa
cercavano di affermare il loro potere – potenzialmente nuovo –
con l’accesso alle forme del potere preesistenti. Vale a dire che
chiedevano di entrare a far parte della nobiltà. Non si rendevano
conto che il tal modo confermavano proprio quei rapporti dai quali
cercavano di emanciparsi. Ma quando, a fine Settecento, riconobbero
il loro errore, mossero in direzione opposta, abolendo i titoli
nobiliari come forme del potere sociale, e rivendicando l’eguaglianza
di tutti gli individui. Ora, questa “condivisione mercantile della
vita e dei beni” svolge un ruolo analogo a quella della
rivendicazione dei titoli nobiliari da parte dei borghesi:
riproduzione di un abbozzo del nuovo in una forma vecchia che lo
contraddice.
Purtroppo mancano oggi i soggetti capaci di
sperimentare la contraddittorietà di questa evoluzione, e sta a quei
pochi che conservano un approccio critico alle forme di vita,
socializzare la loro esperienza.
In una precedente intervista ci avevi spiegato come separare la questione del reddito dal tema del lavoro sia funzionale all’impedirci di pensare ai modi di produzione. Su Il Becco abbiamo tentato spesso di andare oltre il dibattito sul reddito di cittadinanza, provando a guardare a una nuova proposta di società. Tu credi che per poter ipotizzare nuovi modelli economici si debbano recuperare Marx e Keynes?
Marx e Keynes sono i
pensatori che più di altri hanno saputo anticipare la dinamica
insita nei rapporti sociali capitalistici e del livello ai quali sono
giunti oggi. E siccome sarebbe ingenuo sperare di poter procedere da
zero, ad essi dobbiamo far riferimento. È però importante
distinguere il pensiero dei due autori, da quello di molti seguaci
che si sono susseguiti nel tempo.
Come per il resto dei problemi
sociali dei quali si nega la complessità, il pensiero di Marx e di
Keynes è stato spesso banalizzato, sia dagli avversari che dai
seguaci. Quanti keynesiani oggi insistono che le vecchie politiche
keynesiane dovrebbero consentirci di riprendere la strada della
crescita! Ma entrambi gli autori hanno sottolineato che quando
sopravviene una crisi è illusorio pensare di poter affrontare i
problemi ferma restando la struttura delle relazioni sociali. La
crisi corrisponde infatti al disgregarsi della forma di vita data,
per l’inadeguatezza della cultura nella quale si concretizza.
Certo, si tratta di un compito immane, che però non può essere
evitato. Ma credo che la maggior parte dei keynesiani non abbiamo
alcuna idea di che cosa possa trattarsi. Ma anche molti sedicenti
marxisti, rimasticano vecchie categorie, che indubbiamente erano
adeguate per le lotte del passato, ma che ornai non sono più
all’altezza del mondo che abbiamo creato.
In un recente libro-intervista di Carlo Formenti e Fausto Bertinotti la crisi della socialdemocrazia è direttamente collegata alla fine dell’esperienza del socialismo reale e al mutamento sociale che ha sgretolato ogni classica forma di rappresentanza, anche sindacale. Le speranze si rivolgono ai movimenti dal basso e a chi spesso guarda ad un paradigma alto-basso sostitutivo di quello destra-sinistra. Sindacati e partiti appaiono strumenti superati. Tu che ne pensi?
Non credo che sia
stata “la fine del socialismo reale” a determinare “lo
sgretolamento di ogni forma classica di rappresentanza”. È
piuttosto che il mondo è cambiato così profondamente, in
conseguenza del raggiungimento degli obiettivi che in maniera solo
parzialmente consapevole la società ha perseguito che rende i
preesistenti rappresentanti non all’altezza dei nuovi problemi. Se
si prova a spiegare ad un sindacalista o a un politico che, come
avevano previsto sia Marx che Keynes, è emersa “una difficoltà di
riprodurre il rapporto di lavoro salariato” e li vedrai
letteralmente scappare. Si tratta di un problema che per loro è
impensabile – e lo è stato anche per Bertinotti, che in un
congresso di Rifondazione ha sostenuto che si trattava di un’emerita
bufala. Ma se il riconoscimento dell’emergere di questa difficoltà
si frappone alla rappresentazione di qualsiasi sviluppo alternativo,
è ovvio che chi pretende di rappresentare i bisogni della società
finisca col mostrare una totale impotenza. E prima o poi non venga
più ascoltato.
Trovo l’idea di un movimento salvifico “dal
basso” una vera e propria trappola. Per concepirla bisogna avere
un’idea del tutto distorta della situazione in cui ci troviamo.
Vale a dire che le classi dominanti non andrebbero incontro ai
bisogni delle masse per opportunismo o per cattiveria. Ma nella
realtà le classi dominanti sono travolte da una totale
incomprensione della crisi. Tuttavia le classi subalterne non sanno
esprimere i loro bisogni e la loro condizione contraddittoria meglio
di loro. Mi trovo continuamente a discutere sulle questioni
previdenziali, con compagni molto schierati e critici. Eppure, scava
scava, e ti trovi di fronte a forme di pensiero che non hanno nulla
di alternativo rispetto al demente senso comune oggi prevalente. Non
dimentichiamo che quando è stato investito da Napolitano del compito
di formare il governo, Monti aveva il gradimento positivo di circa il
70% degli italiani.
Temo che prima di porre il problema di chi
rappresenta coerentemente i bisogni sociali si debba ancora lavorare
a dipanare la matassa della costruzione di una cultura alternativa.
Non è detto che poi non si riesca ad organizzare il movimento in una
forma partitica (profondamente diversa da quella attuale) e a trovare
lo spazio per agire sindacalmente.
Pubblicato per la prima volta il 3 maggio 2016
Immagine da Wikimedia Commons
Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.