La famiglia è il primo ambiente che conosciamo. Il luogo in cui sperimentiamo i primi contatti con gli altri, dove ci costruiamo una nostra storia. Per molti è una prigione e la causa di tutti i mali, per altri essa è in pericolo d’estinzione causa un nuovo metodo di (ri)pensarla e crearla.
A mio avviso sbagliano entrambi. Non è una prigione, perché in quel luogo crei il tuo carattere, l’etica che ti contraddistingue dagli altri e non è nemmeno in pericolo qualora altre persone dovessero crearsene una loro, che li rappresenti per quello che sono e vogliono essere. Fatto sta che la famiglia è da sempre uno dei cardini della letteratura e del cinema. Perché attraverso un più o meno piccolo gruppo di persone possiamo rappresentare la società in cui viviamo. Per quanto ci si sforzi di crederla sorpassata e vetusta, la famiglia in realtà è testimone del passaggio del tempo, dei cambiamenti sociali e del crollo di vecchie tradizioni per lasciar spazio a nuove morali.
Per questo, visto il continuo incontro/scontro generazionale e di relazione, essa riveste un ruolo fondamentale anche oggi.
Sullo schermo ne abbiamo viste di tutti i tipi: risolte, disfunzionali, unite, covi di segreti e di ferocia, tristi o allegre. La lista dei film sarebbe pressoché infinita, per cui ho deciso di dar spazio a quattro film usciti di recente che, in modi diversi, racconta e analizza la famiglia.
Il
progresso sotto il capitalismo ha dato l’idea di maggior libertà
delle persone, che bastassero un lavoro ben pagato, qualche
tecnologia all’avanguardia, il muoversi velocemente tra i vari
angoli del mondo, per creare una sorta di paese senza confine, sempre
unito e connesso, in perenne comunicazione.
Basta una webcam per
poter intavolare relazioni con persone a chilometri di lontananza, o
un social network per raggiungere e farsi conoscere da potenziali fa.
L’uomo-prodotto (che vende se stesso come un qualsiasi oggetto) è
inserito in una comunity, una comunità. Versione moderna delle
vecchie comuni, in cui tutti hanno relazioni con tutti, seppure non
mancano personaggi più carismatici che fanno da collante tra le
diverse persone coinvolte.
Una famiglia è per forza legata dal sangue? Dobbiamo essere per forza fratello, sorella, madre e padri per poter affermare di far parte di una famiglia? Il legame che si costruisce con una persona, con la quale condividiamo esperienze, sofferenze, da cui otteniamo attenzione e partecipazione diretta, che ci danno un vero aiuto senza che vi sia in qualche modo un legame di parentela, è possibile definirla come famiglia? Certo, senza la figura paterna o con qualcuno che volente o nolente ne faccia le veci.
Io credo che in un certo senso questo tipo di domande ce le possiamo porre vedendo (e leggendo) Doctor Sleep. Anzi, a mio avviso il film mette in miglior evidenza proprio questo tema di appartenenza, sostegno, amore che unisce le due fazioni in lotta per la sopravvivenza presenti nell’ottima pellicola diretta da Mike Flanegan, ormai possiamo dire il miglior regista di genere horror di questi primi anni 2000. Il legame che sta alla base della comune di Rose Cilindro, è quella di una famiglia composta da persone reiette che hanno solo l’altro membro del gruppo come fedele alleato e amico. Non servono grandi discorsi o immagini particolari per notarlo.
Rose è come una madre per tutti loro, che li guida e nutre. La stessa cosa possiamo notarla nel rapporto tra Abra e Danny, o di Danny col suo amico Billy. La giovane ragazza afroamericana chiama più volte Danny “zio”. Con questo termine in qualche modo sta cercando di creare un legame più profondo rispetto al fatto che essi siano accomunati da possedere un potere speciale, fonte di vita e alimentazione per la banda di Rose Cilindro, Flanegan è molto abile a creare un diffuso senso del desiderio da parte dei personaggi di appartenere a qualcuno, proprio perché diversi sentono il senso di famiglia come qualcosa di alieno e distante dalle loro vite, tuttavia non possono far a meno di prendersi cura, lottare insieme per un obiettivo, soffrire per la morte e l’abbandono di un altro essere come loro.
C’è un discorso legato all’eredità che lasciamo agli altri, proprio come avviene in ogni famiglia. Eredità che si manifesta non tanto in senso economico, ma di tramandare le proprie speranze, esperienze, pezzi di vita a un altro individuo, che saprà custodirle e farle proprie di modo da lasciar traccia del nostro passaggio alle future generazioni. Danny fa questo, riceve una vera e propria formazione, ha in dono il regalo dell’esempio e dell’etica di Halloran e lascerà tutto questo alla giovane Abra. Questa è una tematica dei film di Flanegan e anche in questo caso viene esposta molto bene.
Se
il genere si interroga sul significato di appartenenza, eredità e
sostegno, come affronta l’argomento il cinema legato alla commedia
o a un contesto più autoriale? In modi forse più concreti e reali,
ma ripetendo in forme diverse, ma in sostanza simili le stesse idee
del film di Flanegan.
Viveresegna
il ritorno sul grande schermo di Francesca
Archibugi.
Una regista che ammiro molto proprio perché al centro delle sue
pellicole mette quasi sempre dei nuclei famigliari, puntando
l’attenzione sugli adolescenti e i bambini, con una empatia e cura
rarissimi nel mondo del cinema. In questa opera assistiamo a quello
che è la famiglia media nei
tempi instabili e senza idee valide,
che viviamo da anni. C’è una analisi della società attraverso il
ruolo della classe che è sempre meno ben comprensibile e marcato,
poiché i confini tra proletari che si sono arricchiti e piccoli
borghesi proletarizzati, è assolutamente minimo. Seppure le vecchie
classi non siano affatto scomparse e il personaggio di Montesano (un
cinico avvocato temuto e rispettato sia in famiglia che nella
società) è un perfetto simbolo. Ricordo di un potere ben definito e
preciso destinato a scomparire, inghiottito da una comunità fondata
da quasi lavoratori, da lavoratori precari e non pagati, da uomini e
donne irrealizzati, bloccati nel ruolo dell’eterno incompreso,
dell’immortale donna tradita da un amore e una vita che si pensava
altro.
Si pensava, si sognava, rimane
tutto legato a un mondo immaginario,
unica ancora di salvezza nel mare delle disillusioni, delle
negazioni. I personaggi del film sono come molti di noi, adulti non
cresciuti, vulnerabili e sensibili, egoisti e portati a gesti d’amore
verso gli altri. Senza un filo logico, una fede, un’appartenenza
politica che sappia raccogliere questa confusione di pensieri e
speranze e darle qualche paletto, qualche certezza per vivere.
La
famiglia è un luogo di scontro, il posto delle verità scomode, dove
i nostri fallimenti vengono a galla, un recinto che ci fa sentire
soli e incompatibili con la persona che abbiamo sposato, ma tanto
oggi, il matrimonio è più che altro una bella festa in qualche
ristorante. Che possiamo ripetere o rompere senza particolari
problemi.
I protagonisti non sono mai sinceri con loro stessi,
cercano di resistere alle loro debolezze ma poi trovano una scusa per
sbagliare. Tuttavia, seppure è una istituzione che nella nostra
società perde sempre più peso e importanza, anche una famiglia
disfunzionale è in grado di dar supporto e felicità a chi ci vive,
ma sopratutto a chi è da solo, non per scelta e dalla sua villa spia
la vita dei personaggi principali invidiando anche il loro dolore, i
tradimenti, i colpi bassi, che troveranno sempre un equilibrio con
l’affetto, la tenerezza, l’amore, cose che spesso dimentichiamo e
crediamo sciocche, preferendo fermarci sulle cose negative e
materiali.
Il film dell’Archibugi è amaro nel suo raccontare
la vita e la famiglia di oggi, ma lascia un pizzico di umanità, per
quanto fragile, di sostegno dell’altro come modo di salvarsi anche
all’interno di un posto che dovrebbe essere il rifugio dalle
sofferenze che il mondo ci dona e invece da molti è visto come
comodo scusante per le proprie debolezze, una prigione senza sbarre,
se non quelle che noi stessi ci costruiamo.
Questa
è la famiglia occidentale di questi ultimi anni, ma anche in oriente
le problematiche saranno affini alle nostre? O del tutto diverse? Chi
ama il cinema di Hirokazu
Kore-eda,
saprà che la famiglia è sempre al centro delle sue profonde
riflessioni. Che essa è strettamente legata alla società e
all’empatia che abbiamo verso gli altri, piuttosto che nel legame
di sangue. Non che questo ultimo sia visto come un ostacolo da
superare, tuttaltro, vi è semmai una continua ricerca sul senso di
unità famigliare, cosa la componga, come si eredita e si lascia agli
altri.
Il
regista giapponese, come capita a molti registi asiatici, è sbarcato
in Europa col suo ultimo film, il meraviglioso: Le
verità.
Atto
d’amore verso il cinema, il set in particolare con tutte le
dinamiche tra troupe e attori spesso così simili a quelli che
viviamo nella vita quotidiana, le stesse gioie e invidie, la paura
degli anziani di esser dimenticati e messi da parte, la voglia dei
giovani di prendersi il proprio spazio e difendere l’autonomia,
accecati dalla speranza del futuro e persi nella fiducia per i tempi
che verranno. Un’attrice quante vite vive? Dove è più vera e dove
invece non può fare altro che recitare? L’artista, di sua natura,
è destinato a vivere passando con indifferenza sulle vite di chi gli
sta accanto, cercando la bellezza e la verità della vita solo nella
sua opera? Nella sua interpretazione?
Questo bellissimo film
narra del consueto rapporto difficile tra una madre ingombrante e
una figlia che si sente schiacciata, ponendo il punto su un
pilastro dell’istituzione famigliare e della nostra società:
l’incomunicabilità. E di come un dialogo negato, falsato,
possa generare ricordi diversi. Spesso capita che un padre rimproveri
a un figlio mancanze che questo ultimo non reputa come tali o non ne
ha memoria, o di una figlia che si sente ferita per parole che la
madre nega di aver mai pronunciato. L’incomunicabilità non ha
nulla di poetico o esistenzialista, come vorrebbero farci credere i
film di Antonioni, essa è solo un mero e sadico esercizio di potere,
la leva che fa scattare i rapporti di forza all’interno di una
famiglia. Chi non è in grado di comunicare con il partner o i figli
ha il gran potere di negare a loro la parola, il tempo, la propria
narrazione, cioè l’esistenza. Se non fossi in grado di comunicarti
una mia debolezza, ansia, una cosa che mi riguarda, tu non avresti
mai la conoscenza completa che si dovrebbe avere delle persone che
amiamo e che vivono con noi.
L’opera di Kore-eda usando il
cinema e la paura di una grande attrice di esser dimenticata, è un
perfetto simbolo delle dinamiche che accadono in molti nuclei
famigliari. Palcoscenici in cui il padre-padrone è il capocomico
della compagnia. Egli decide ruoli, compensi, può allontanare e pure
ricevere prima ci si deve genuflettere e chieder la grazie di esser
di nuovo accolti. Eppure è possibile amare una persona simile?
L’amore del figlio deve esser condizionata dal grado di capacità
di amare del padre? O della madre, come succede in questo
meraviglioso film del sempre ottimo Kore-eda. Il quale ci risponde
che l’importante sono come noi gestiamo i ricordi e le emozioni e
di perdonare, nel limite del possibile, quelle persone perse in una
recita senza fine. Perdonare non vuol dire dimenticare e
giustificare, ma farsi carico delle mancanze altrui e renderle
qualcosa di positivo o depotenziare il dolore che ci provoca.
A
proposito di padri naturali, adottivi e del delicato ruolo che molti
uomini hanno il timore di vivere, Gabriele Salvatores è
tornato con un film davvero importante sia con qualche mancanza, ma
talmente trascinante, carico di magia e potenza sentimentale, da
render impossibile non apprezzarlo a fondo.
In questa opera, che
prende origine da un libro ispirato a una storia vera, la figura
del padre è fondamentale. Willy, interpretato da un ottimo
Claudio Santamaria, è il padre naturale, un uomo che campa cantando
i successi di Modugno, con una vita non proprio ordinata e semplice,
Mario, un immenso e commovente Diego Abantanutono, è il padre che si
è trovato a crescere un figlio non suo, con gravi problemi psichici,
eppure a questo ragazzo offre tutto l’amore che un uomo realizzato
può dare.
L’amore conosce molte strade e cambia le regole di
continuo, parla la lingua dei sentimenti e delle delusioni che sono
identiche per tutti, ma con sfumature diverse. In questo film la
famiglia si scompone, si disperde, ma per rinascere attraverso nuove
consapevolezze e scelte. Un uomo che vive di espedienti, abituato a
scappare di fronte a ogni responsabilità, può educare all’amore
un figlio anche in modo non ortodosso, perché chi ha detto che
l’educazione sia rimanere fermi a tavola, evitando di manifestare
la propria rabbia o tristezza o gioia, per non disturbare il quieto
vivere? Il legame padre e figlio è importantissimo e solo
negli ultimi tempi, la figura paterna si è presa l’attenzione che
merita. E le responsabilità. Non il padre che è simbolo del dogma
autoritario, che non deve mai esser messo in pericolo di apparire
ridicolo o al centro delle nostre critiche, insomma quei padri che
decidono come la moglie e i figli devono vivere la loro vita,
snaturandoli, rendendoli docili schiavi delle sue scelte, sempre
mediocri. Un padre è un uomo che insegna l’amore al figlio, che lo
sostiene quando egli vuole farsi conoscere, anche se non ci piacerà
l’identità reale del figlio, che aiuta un figlio nei momenti di
bisogno ma senza affidarsi alle sue esperienze di quando era giovane,
ma facendo in modo che il proprio ragazzo abbia la forza di
riprendersi e continuare a seguire il suo obiettivo.
Nel film di
Salvatores c’è la famiglia di questi anni, quella vera, quella
attuale. O meglio, un tipo di famiglia in bilico tra il disfunzionale
e la capacità di donare amore, non badando alle vecchie e obsolete
regole e ruoli.
I film ci dicono che la famiglia è il nostro luogo di partenza, che abbiamo bisogno anche di smontarla e dissacrarla, ma che non possiamo dimenticare o farne senza. Ci sono tanti modi di far famiglia, di vivere rapporti e relazioni che ricalcano quelle tra genitori e figli, alcuni ci faranno peggiorare, altri sono gli sfoghi di persone incapaci di vivere, ma per la maggior parte delle volte è la bellezza di essere umani, cioè lasciare agli altri una nostra eredità. Non economica, ma quella migliore, quella dei sentimenti che sappiamo provare e dell’esempio etico che dobbiamo sempre essere.
Immagine Bun-Buku / 3B Productions
Davide Viganò nasce a Monza il 24/07/1976: appassionato di cinema, letteratura, musica, collabora con alcune riviste on line, come per esempio: La Brigata Lolli. Ha all’attivo qualche collaborazione con scrittori indipendenti, e dei racconti pubblicati in raccolte di giovani e agguerriti narratori.
Rosso in una terra natia segnata da assolute tragedie come la Lega, comunista convinto. Senza nostalgie, ma ancor meno svendita di ideali e simboli. Sposato con Valentina, vive a Firenze da due anni